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Kantiana minora vel rariora

Indice: 1. La logica del comico; 2. Il colore: quasi una teoria, 3. Verità logica e logica della verità. Appendice: I. Kant, <Sull'illusione poetica>

1 OSCAR MEO KANTIANA MINORA VEL RARIORA IN APPENDICE: I. KANT, < SULL’ILLUSIONE POETICA > Copyright © il melangolo, Genova 2000 ISBN 88-7018-419-6 2 A Ilde e Ugo INDICE GENERALE Premessa p. I- La logica del comico p. II- Il colore: quasi una teoria p. III- Verità logica e logica della verità p. Appendice: I. Kant, < Sull’illusione poetica > p. 3 Die Propädeutik zu aller schönen Kunst, sofern es auf den höchsten Grad ihrer Vollkommenheit angelegt ist, scheint nicht in Vorschriften, sondern in der Kultur der Gemütskräfte durch diejenigen Vorkenntisse zu liegen, welche man humaniora nennt: vermutlich weil Humanität einerseits das allgemeine Teilnemungsgefühl, andererseits das Vermögen sich innigst und allgemein mitteilen zu können bedeutet; welche Eigenschaften, zusammen verbunden, die der Menschheit angemessene Geselligkeit ausmachen, wodurch sie sich von der tierischen Eingeschränktheit unterscheidet. [La propedeutica ad ogni arte bella, in quanto si ha di mira il grado supremo della sua perfezione, sembra consistere non in precetti, ma nella coltura delle facoltà dell’animo mediante quelle conoscenze preliminari che si chiamano humaniora, presumibilmente perché umanità significa da un lato il sentimento di compartecipazione universale, dall’altro la facoltà di potersi comunicare nell’intimo ed universalmente; proprietà che, unite insieme, costituiscono la socievolezza appropriata al genere umano, mediante cui esso si distingue dalla limitatezza animale.] I. Kant AVVERTENZE . Il secondo saggio costituisce la versione modificata di un articolo pubblicato con il titolo Kant e i colori in “Epistemologia”, 1999/1 (XXII), pp. 3-36. Per le opere di Kant citate più frequentemente ho utilizzato le seguenti sigle ed abbreviazioni: = Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, in Kants Werke. Akademie Textausgabe, De Gruyter, Berlin 1968, Bd. VII, pp. 117-334 (trad. it. di G. Vidari, Laterza, Bari 1969). KrV A = Kritik der reinen Vernunft, 1. Auflage, ibid., Bd. IV, pp. 1-252. KrV B = Kritik der reinen Vernunft, 2. Auflage, ibid., Bd. III (trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riv. da V. Mathieu, Laterza, Bari 1969). KU = Kritik der Urteilskraft, ibid., Bd. V, pp. 165-486 (trad. it. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Laterza, Bari 1970). Logik = Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, ibid., Bd. IX, pp. 1-150 (trad. it. a cura di L. Amoroso, Laterza, RomaBari 1984). Prol. = Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, ibid., Bd. IV, pp. 253-384 (trad. it. a cura di P. Martinetti, Paravia, Torino 1944). Le “classiche” traduzioni italiane della I Critica, della III Critica e dei Prolegomeni indicate sono sempre state confrontate con quelle più recenti (ormai numerose) e, al pari di quelle delle altre opere, in più punti modificate. ApH 4 PREMESSA Del pensiero di Kant mi hanno sempre attratto in modo particolare quelle tematiche verso le quali solitamente anche gli specialisti filologicamente più agguerriti e dotati di maggior acume venatorio mostrano scarso interesse, ritenendole di minore, se non addirittura nullo, peso teoretico e/o di più facile interpretazione e soluzione: Kantiana minora vel rariora, appunto. A guidarmi in questo lavoro di indagine non è mai stata la ricerca della novitas ad ogni costo o la mera curiosità archeologica, ma la convinzione che illuminare certi angoli più in ombra delle opere maggiori di Kant ed addentrarsi nel folto del suo complessivo percorso filosofico per rendere agibili certe piste più intricate consenta di rintracciare meglio la tessitura fine del suo discorso e contribuisca, non meno delle tematiche più studiate, ad affrontare con sempre rinnovata consapevolezza critica quelle questioni filosofiche che erano centrali per lui e rimangono ovviamente centrali ancor oggi. Prima fra tutte la domanda in cui, a suo stesso dire, si riassume l’essenza della filosofia: “Che cosa è l’uomo?”. In questo senso, la frequentazione del pensiero kantiano, anche nei suoi aspetti più marginali, costituisce un modo per mantenersi fedeli alla tradizione degli humaniora, e dunque a quella Humanität cui il filosofo ormai morente aveva ancora la forza di rendere omaggio. A ciò si aggiunga che alle radici della mia insistenza nel colloquiare criticamente con Kant stanno pure ragioni teoretiche essenziali: il rapporto con lui, quella di sorta di feeling intellettuale che fa sì che un filosofo divenga il filosofo, è stato ed è tuttora il fondamento imprescindibile per le esplorazioni che ho compiuto in ambito gnoseologico, estetico e semiotico da una prospettiva “costruttivista”, sia pure per molti aspetti divergente rispetto a quella kantiana. Ciò, già a partire dal primo lavoro di discreto respiro: La malattia mentale nel pensiero di Kant (1982), ove cercai di approfondire le indicazioni di carattere psicologico, epistemologico ed etico che provengono dall’evoluzione della sua teoria psicopatologica, fornendo anche qualche indicazione sui rapporti fra produzione patologica e creazione artistica. In seguito, cedendo alle insistenze dell’amico Carlo Angelino, mi impegnai nell’edizione italiana delle lettere, pubblicata nel 1990 con il titolo Epistolario filosofico (1761-1800). Nella scelta, discretamente ampia, mi orientai verso quei documenti che potessero suscitare qualcosa in più di un mero interesse biografico e filologicoantiquario e dai quali risultasse più chiaramente il senso del lungo e faticoso percorso filosofico di Kant. Nel frattempo, il mio interesse si era sempre più decisamente orientato verso gli aspetti estetici della sua opera. Studiando la teoria del sublime e quella del simbolo, mi parve di scorgere una prospettiva assai feconda: la possibilità di intrecciarle con il tema del tragico, a proposito del quale le esplicite dichiarazioni di Kant sono di una pochezza a tutta prima davvero disarmante. Il risultato della mia indagine fu il saggio Il tragico nell’estetica di Kant, confluito con uno studio sul 5 problema della ricezione in Hegel nel volumetto Tragico e fruizione estetica in Kant e Hegel (1993). Il quadro delle mie esplorazioni kantiane è completato dal cap. II.3 del volume Il contesto del 1991, in cui saggiai la possibilità di utilizzare una struttura davvero fondamentale del suo pensiero, il “senso comune” della III Critica, a sostegno della concezione pragmatica del significato e della comunicazione indissolubilmente connessa con la mia impostazione costruttivista. I tre studi qui raccolti costituiscono dunque la prosecuzione di un ormai lungo cammino. In essi ho seguito un metodo cui sono rimasto fedele nel corso del tempo: prendere le mosse dalle esplicite considerazioni kantiane su un determinato tema e verificare come esse siano intessute con il resto della teoria, costituendone di volta in volta le conseguenze o il supporto. I primi due studi si raccordano direttamente con l’estetica kantiana. In particolare, il primo, che si occupa del comico, si colloca in posizione per così dire complementare rispetto a quello sul tragico. Come era accaduto allora, anche in questo caso, piuttosto sorprendentemente, non ho trovato nell’ambito della letteratura secondaria lavori specifici, tranne qualche rassegna storica, per altro ormai assai datata. Ciò, sebbene – come è assai noto – la teoria kantiana dell’arguzia (perché di essa propriamente ne va) abbia avuto un’eco vastissima, che ha travalicato i ristretti confini della riflessione estetica e ha investito direttamente le teorie psicologiche ed antropologiche: iniziata negli anni successivi alla pubblicazione della III Critica (in Jean Paul, nella teoria romantica dell’ironia, in Hegel), essa si è sviluppata attraverso Vischer, Lipps e Freud ed è giunta fino a Plessner e ai teorici della ricezione. Ho cercato di tenere conto della mediazione effettuata da questi sviluppi autonomi, nella misura in cui essi mi sono apparsi rilevanti ai fini di un miglior approfondimento dell’elaborazione kantiana del problema. Il secondo saggio affronta un altro tema finora mai studiato a fondo nella sua genesi, nella sua evoluzione e nella sua relazione con la filosofia critica nel suo complesso: quello del colore. Esaminando le due edizioni della I Critica, i Prolegomeni e la III Critica, ho cercato di porre in evidenza gli aspetti gnoseologici, epistemologici ed estetici della concezione kantiana, seguendo la trasformazione progressiva da essa subita fino ai suoi esiti estremi nell’Opus postumum. Ripubblicando qui il saggio con il permesso di Evandro Agazzi, Direttore di “Epistemologia”, ho operato alcune sostanziali modifiche ed integrazioni nella parte concernente i riflessi estetici della teoria del colore; in considerazione del carattere peculiare della Rivista, il loro approfondimento non era infatti possibile nella versione originaria. Il terzo saggio si occupa di un tema decisamente “maggiore”: quello della verità, nel suo situarsi al punto di raccordo fra logica, gnoseologia ed ontologia. Tuttavia, nonostante l’oggettiva importanza dell’argomento, non si può affermare che – soprattutto in Italia – vi sia grande abbondanza di trattazioni specifiche. Il silenzio che in passato calò su di esso, o i pochi e fuggitivi 6 cenni che – quasi obtorto collo – vi venivano fatti, si giustificano probabilmente con la diffusa opinione secondo cui la parola conclusiva sulla questione l’avrebbe pronunziata lo stesso Kant nella celebre “definizione nominale” della verità che compare nell’Introd. alla Logica trasc. della I Critica. Occupandomi dell’argomento, ho ovviamente tenuto conto delle ormai note critiche all’interpretazione corrispondentista della teoria kantiana della verità e ho cercato di fornire il mio contributo alla migliore delimitazione di un problema il cui esame mi sembrava indifferibile anche ai fini della mia proposta teoretica. In questo, come del resto nei saggi precedenti, ho preferito tuttavia limitare al minimo i riferimenti ad una possibile utilizzazione in chiave moderna delle idee di Kant. Non ho osato, in sostanza, ignorare completamente il precetto baconiano de nobis ipsis silemus (inteso nella sua accezione teoretica e non biografico-psicologica) sovrapponendo all’interpretazione di Kant, già di per sé inevitabilmente “di parte”, riflessioni condotte bensì muovendo da Kant, ma svolgentisi secondo linee autonome, e spesso contrarie, rispetto a quelle da lui indicate. Ho aggiunto in appendice la trad. it. di uno scritto latino di Kant: il discorso che egli, in qualità di controrelatore, tenne nel 1777 in occasione dell’assunzione dell’ordinariato da parte di J.G. Kreutzfeld. Questo capitoletto della produzione minore di Kant è interessante non tanto perché si tratta di un documento storico della sua attività ufficiale, ma soprattutto perché offre alcuni spunti di carattere gnoseologico ed estetico (vi compare pure – inter alia – una gustosa interpretazione della passione di Petrarca per Laura). Quando il mio lavoro era ormai ultimato, venni a conoscenza dell’esistenza di un’altra trad. it., comprendente anche il testo della dissertazione di Kreutzfeld. Ho deciso di pubblicare ugualmente la mia per ragioni di completezza; mi è parso infatti di poter scorgere significativi rapporti fra il punto teoreticamente centrale dello scritto, ossia la distinzione fra fraudolento inganno dei sensi ed illusione esteticamente piacevole, e le pagine della III Critica dedicate all’arguzia. 7 I LA LOGICA DEL COMICO Quando si parla di “comico” a proposito dell’estetica di Kant, il termine va inteso in un significato assai vago e generale. Egli stesso, nelle pagine della III Critica che costituiscono l’oggetto specifico del presente lavoro, non ne fa uso e si limita a prendere in esame le situazioni, definite in generale ludiche, in cui il riunirsi di un gruppo di persone è finalizzato al divertimento. Ad echeggiare qui è dunque un’atmosfera conviviale, punteggiata di allegre risate, in cui spensierati giochi di società, l’intrattenimento musicale fatto di composizioni leggere ed elegantemente armoniose, i motti di spirito (non privi magari di bonaria ironia, ma mai eccessivamente salaci) si susseguono per assicurare una pausa di distrazione e di serenità nel frammezzo degli eventi seri della vita1. D’altro canto, del fatto che il termine “comico” non possa essere assunto a proposito di Kant nella sua accezione più ristretta costituisce una testimonianza l’assenza di riferimenti alla commedia antica o moderna nella III Critica2. Ciò pone indubbiamente all’interprete problemi ancora più ardui di quelli sollevati dal tragico, giacché quest’ultimo trova almeno collocazione nella classificazione delle arti e, fra le pieghe dell’argomentare kantiano, è possibile scorgere quanto meno un embrione di teoria3. Quali sono, ci si potrebbe chiedere, le ragioni di questo silenzio? Si tratta soltanto di un limite culturale di Kant oppure di una questione di gusti personali? O ancora: è esso il frutto di una scelta teoretica precisa? In mancanza di riscontri testuali, non è ovviamente possibile risolvere il problema. Tuttavia, sulla base degli scarsi e scarni riferimenti alla commedia Considerazioni di questo genere sono esplicite in ApH, ossia nell’opera cui queste pagine di KU sono più vicine per tematica e per impostazione metodologica. Cfr. per es. la Nota generale al § 79, p. 265 (trad. it., p. 156): “Avere in società come bersaglio dell’arguzia [Witz] (in senso buono), senza tuttavia essere mordaci (burla senza offesa), qualcuno che sia disposto a rendere la pariglia e così sia pronto a destare un’allegra risata è un modo bonario e al tempo stesso raffinato di ravvivare la compagnia”. Nella traduzione del polisenso termine Witz occorre tenere ovviamente conto del fatto che nel Settecento esso designava per lo più la facoltà o capacità di (la disposizione a) produrre motti di spirito, mentre oggi designa quasi esclusivamente il suo prodotto, ossia la trovata arguta, il motto di spirito, lo scherzo, ecc. In considerazione del fatto che in ApH, attingendo per altro a diverse tradizioni culturali, lo stesso Kant dà come sinonimi di Witz inteso come facoltà il latino ingenium (che è termine tecnico della retorica ciceroniana) e il francese esprit (cfr. §§ 44 e 57), ricorrerò, a seconda del contesto, a termini come “spirito”, “arguzia” (nel duplice senso testé chiarito di dote mentale e di prodotto), “ingegno”. 2 In verità, anche qualora si consideri la produzione kantiana nel suo complesso, i riferimenti alla commedia risultano assai scarsi. L’unica presa di posizione denotante un preciso interesse culturale è la seguente, tratta dalle Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen: “A mio modo di vedere la tragedia [Trauerspiel] si distingue dalla commedia [Lustspiel] principalmente in questo: nella prima il sentimento è mosso al sublime, nella seconda al bello… La commedia rappresenta… sottili intrighi, imbrogli sbalorditivi e spiritosi d’ingegno [Witzige] che si sanno trarre d’impaccio, sciocchi che si fanno gabbare, burle e caratteri comici. L’amore non è qui così struggente, ma lieto e confidenziale. Tuttavia, come in altri casi, anche in questo possono congiungersi in certo grado nobiltà e bellezza” (Kants Werke. Akademie Ausgabe, Bd. II, De Gruyter, Berlin 1968, p. 212; trad. it. in Scritti precritici, a cura di R. Assunto e R. Hohenemser, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 298). Conformemente alla declinazione psicologistica del pensiero di Kant nel periodo precritico, da questa modesta e poco originale caratterizzazione (così come per altro da quella parallela della tragedia) risulta una certa predilezione per i toni sfumati e per una drammaturgia da cui emergano comunque l’importanza dei sentimenti e la loro dignitosa rappresentazione. 1 8 che si trovano negli scritti di carattere antropologico (sia che si tratti di quelli pubblicati vivente Kant, delle Reflexionen o delle Vorlesungen), è lecito formulare l’ipotesi che all’indubbia ristrettezza della competenza in fatto di letteratura teatrale e al probabile disinteresse per il mondo dello spettacolo in generale si unisca in lui una peculiare presa di posizione teoretica: il diletto comico (così come per molti aspetti quello tragico) è oggetto di un interesse psicofisiologico più che genuinamente estetico. Esso, pertanto, si pone dal lato del gradevole e non da quello del bello. Assai significativamente, alla domanda “perché gli anziani preferiscono l’opera comica [das komische, sc.: Schauspiel] fino a quella burlesca?” egli così risponde: “…negli anziani questa impressione [sc.: di angoscia o di terrore] non dilegua così facilmente ed essi non sono in grado di produrre di nuovo in se stessi così facilmente la disposizione all’allegria. Un Arlecchino dallo spirito [Witz] pronto causa in loro con le sue trovate una benefica vibrazione del diaframma e dei visceri: grazie a ciò, l’appetito per la successiva cena in compagnia si aguzza, e poi la conversazione giova ad esso”4. La preminenza dell’interesse antropologico per il comico in generale è rivelata anche dalla collocazione marginale che le osservazioni kantiane sul fenomeno hanno nell’ambito del “sistema” della III Critica: si tratta di nulla più che di una mera appendice al tentativo di delineazione di una tassonomia delle arti, infittita per di più di esempi e considerazioni almeno a prima vista assai poco pertinenti ad una trattazione fondata sui principi trascendentali, quale è quella che Kant ha comunque come obiettivo. Tanto secondario è il valore attribuito al diletto ricavato dalle situazioni comiche, che Kant rinunzia addirittura a conferire alle proprie riflessioni la dignità di paragrafo autonomo5. Tuttavia, nonostante la mancanza di compiutezza e di approfondimento concettuale, le considerazioni di Kant in questa appendice sono assai meno incoerenti, casuali e teoreticamente infondate di quanto si possa pensare ad una prima e superficiale lettura. Piuttosto, esse si rivelano saldamente ancorate ad alcune strutture fondamentali della filosofia trascendentale: la teoria delle facoltà e la tavola delle categorie. Se si guardano le cose da questo punto di vista, si è indotti a rifiutare l’idea radicale che queste pagine non costituiscano nulla più che un corpo estraneo all’interno della sistematica della III Critica, sebbene – come è ovvio – ciò non possa condurre ad una loro sopravvalutazione sia sul piano teoretico sia sul piano estetico. Infatti esse costituiscono pur sempre un capitolo dell’antropologia di Kant, come è confermato per altro dal fatto che il nucleo intorno a cui egli organizza il suo discorso teoretico è già presente in una fase abbastanza precoce della sua meditazione, quella – per l’appunto – in cui l’estetica non solo non ha ancora Su questo punto cfr. O. Meo, Il tragico nell’estetica di Kant, in Id., Tragico e fruizione estetica in Kant e Hegel, Il melangolo, Genova 1993, pp. 47-83. 4 ApH, § 79, 263 (it. 154). 5 Soltanto a partire dall’ed. Hartenstein all’originaria appendice di Kant fu aggiunta l’indicazione “§ 54” e il titolo Note. 3 9 ricevuto una fondazione trascendentale, ma si fonde inestricabilmente con le osservazioni di carattere antropologico. L’impressione generale è che Kant tragga egli stesso divertimento nel celare allusioni a pensieri profondi fra le proprie sparse osservazioni, per lo più di interesse empirico, e che sfidi in qualche maniera il lettore a trovare da sé la trama del suo gioco concettuale. E quale migliore occasione per giocare con l’intelligenza del lettore di una trattazione in cui proprio il tema del gioco occupa fin dall’inizio il centro della scena? 1- Il gioco. Le osservazioni con cui il § 54 inizia fanno seguire alcuni rilievi di interesse psicofisiologico (e più in generale antropologico) alla ripresa di una delle tematiche teoretiche fondamentali della III Critica: la distinzione fra il bello e il meramente gradevole. Il fatto che Kant riporti subito all’attenzione del lettore “la differenza essenziale” (ossia ontologica) fra “ciò che piace semplicemente nel giudizio” e “ciò che diletta [vergnügt] (piace nella sensazione)” mostra chiaramente quale sia il suo intento generale: distinguere accuratamente fra l’oggetto del giudizio di gusto e quei divertimenti o passatempi che non contribuiscono all’elevazione dell’umanità e non possono pertanto esigere a priori il consenso universale. E ciò contribuisce a spiegare perché la trattazione del comico sia isolata in vitro, racchiusa entro i confini di una mera appendice: ci troviamo qui sul piano di ciò che è semplicemente ed irrimediabilmente soggettivo ed idiosincratico. Gli intrattenimenti gradevoli non possono essere ricondotti nell’ambito delle arti belle, tali cioè da contribuire alla Bildung etica, sociale, culturale dell’umanità, giacché l’idiosincratica soddisfazione sul piano del sentire immediato è correlata – almeno in prima battuta – allo stato di benessere psicofisico dell’individuo che la prova e non all’apertura comunitaria che costituisce una specifica vocazione del giudizio di gusto. Fin qui non vi è nulla di nuovo rispetto a posizioni già note né tale da far presagire sviluppi interessanti della discussione, la quale – oltre ad essere ripetitiva e monotona – appare piuttosto difettosa anche dal punto di vista della disposizione delle argomentazioni. Di fatto, ad apparire subito in evidenza è un punto debole: tutti i fattori di cui si compone la costellazione psicofisica, da quelli più elevati (per es.: gli affetti teneri, le emozioni delicate, i sentimenti nobili) a quelli più rozzi e primitivi (per es.: gli istinti e le pulsioni vitali fondamentali) vengono trattati senza che si istituisca fra di essi una gerarchia assiologica. Ma anche in questo caso si tratta di una conseguenza della distinzione fondamentale fra il piano elevato del gusto e il piano inferiore del piacere sensibile. Nell’economia del testo, la differenza fra il bello connesso con la riflessione e il gradevole connesso con i sensi serve a Kant per spiegare come – date le opposte polarità fondamentali piacere-dispiacere (concernente il piano intellettuale) e diletto-dolore (concernente il 10 piano sensibile) – si generino fra di esse, in determinate situazioni di coinvolgimento affettivo (ed anche estetico) profondo, quattro possibili combinazioni: 1) fra piacere e dolore, che viene chiarita mediante l’esempio del dispiacere (razionale) provato per la propria (istintiva) felicità dall’erede di una cospicua sostanza; 2) fra dispiacere e diletto, esemplificata dalla dolcezza della rimembranza del passato in una vedova inconsolabile6; 3) fra diletto e piacere (l’esempio è quello della commistione fra pathos e logos durante l’applicazione nello studio delle scienze)7; fra dolore e dispiacere, nel caso di affetti a forte valenza negativa, come odio, invidia o (desiderio di) vendetta. Queste svariate possibilità di combinazione mostrano, secondo Kant, che diletto e piacere (o i loro contrari) non possono essere identificati; ma soprattutto introducono una seconda serie di riflessioni, ancora una volta condotte più nel tono conversazionale del discorso genericamente antropologico che in quello rigoroso e metodico del ragionamento filosofico. Tuttavia lo stile non deve ingannare, giacché questa volta Kant affronta infatti un tema di grande rilievo teoretico: l’oggetto della discussione è il concetto di “gioco”, predicato definiente del quale è la libertà. Così egli si esprime brachilogicamente in un appunto di rilievo antropologico di incerta datazione: “Il libero gioco (un gioco coatto è una contraddizione)… Il gioco non deve diventare serio o finalizzato, per es. la tragedia [Trauerspiel], che abbatte”8. Ciò significa che il gioco presenta il carattere del puro intrattenimento, scevro di interesse e di scopo, che piace soltanto per l’attraente scossa che le sue alterne vicende comunicano 9. Ritorna in sostanza l’idea che il divertimento arrechi benessere psicofisico: 6 I due esempi sono riportati anche nel § 64 di ApH. Per quanto concerne il secondo caso, però, mentre in KU alla tristezza della vedova fa da pendant la considerazione per gli alti meriti del marito, in ApH il contrasto è fra il dolore per la perdita e la constatazione che il defunto l’ha lasciata in un buono stato economico. Come si può constatare, in ApH, Kant ha creato inintenzionalmente due potenziali tipi comici. Dal punto di vista concettuale, in entrambe le combinazioni si può cogliere l’applicazione in ambito extraestetico di quella specie di sentimento che gli estetologi psicologizzanti del Settecento chiamavano “misto”. Non è pertanto da escludere una critica implicita alla commistione di estetica e psicologia nel maggiore esponente tedesco della teoria dei “sentimenti misti”: Mendelssohn. Su questo aspetto della filosofia di Mendelssohn cfr.: L. Goldstein, Moses Mendelssohn und die deutsche Ästhetik, v. Gräfe u. Unzer, Königsberg i.P. 1904, p. 49 e 149; L. Richter, Philosophie und Dichtkunst. Moses Mendelssohns Ästhetik zwischen Aufklärung und Sturm und Drang, Chronos Verlag, Berlin 1948, pp. 36-37; A. Nivelle, Kunst- und Dichtungstheorien zwischen Aufklärung und Klassik, De Gruyter, Berlin 1960, pp, 59-60 e 103; C. Begemann, Furcht und Angst im Prozess der Aufklärung. Zu Literatur und Bewußtseinsgeschichte des 18. Jahrhunderts, Athenäum, Frankfurt/M. 1967, pp. 102 e 105 (con riferimenti alla presenza del tema in Leibniz e Lessing); O.F. Best, Einleitung, in M. Mendelssohn, Ästhetische Schriften in Auswahl, Wiss. Buchgesellschaft, Darmstadt 1974, p.13; G. Sauder, Mendelssohns Theorie der Empfindungen im zeigenössischen Kontext, in AA.VV., Humanität und Dialog: Lessing und Mendelssohn in neuer Sicht, Beiheft zum “Lessing Yearbook”, Wayne State Univ. Press, Detroit 1982, pp. 243-244; K.-W. Segreff, Moses Mendelssohn und die Aufklärungsästhetik im 18. Jahrhundert, Bouvier, Bonn 1984, pp. 33 e 92; C. Zelle, “Angenehmes Grauen”. Literaturhistorische Beiträge zur Ästhetik des Schrecklichen im achzehnten Jahrhundert, Meiner, Hamburg 1987, p. 329 (ivi pure richiami alle fonti remote e prossime di Mendelssohn: Cartesio, Bodmer e Breitinger). 7 In ApH, § 64, 237 (it. 127) si parla di soddisfazione di un uomo per la propria capacità di godere delle “arti belle”, ossia per la propria finezza. 8 Refl. n. 807 (presumibilmente databile agli anni 1776/78), in Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, De Gruyter, Berlin 1923, pp. 358-359. Rifiutando, per altro con buone ragioni, di definire la tragedia come un “gioco”, Kant sembra mostrare una certa insoddisfazione per il termine Trauerspiel, in lui per altro abitualmente ricorrente in conformità 11 “Ogni libero gioco cangiante delle sensazioni (che non hanno a fondamento alcuno scopo [Absicht]) diletta, perché promuove il sentimento della salute, sia che abbiamo, nel giudizio razionale, un piacere per il suo oggetto e per il diletto stesso oppure no; e questo diletto può aumentare fino a diventare un affetto, sebbene non prendiamo alcun interesse all’oggetto stesso, per lo meno nessun interesse che sia proporzionato al grado dell’affetto”10. A questo punto è facile scorgere le analogie che il gioco dilettevole ha con l’oggetto del giudizio di gusto: assenza di interesse e di scopo costituiscono predicati comuni ad entrambi. Ciò non è evidentemente sufficiente per identificare gioco e oggetto estetico. Anche se l’idea della libertà connessa con il gioco non può non rinviare a quel libero gioco delle facoltà conoscitive (non solo intelletto e immaginazione, ma anche ragione) che è per Kant una caratteristica definiente dell’approccio estetico all’oggetto, la differenza è – almeno secondo Kant – chiarissima. Da un lato, l’assenza di impegno intellettuale diretto è costituente essenziale del rapporto con l’oggetto estetico e consente al Giudizio riflettente di mantenere, per così dire, una posizione autocefala e mobile, di assumere una funzione di Mittelglied fra le facoltà conoscitive superiori e di presidiare l’Übergang fra natura e libertà (così che chi se ne servisse in funzione estetica si troverebbe come in equilibrio su un ponte sospeso, su cui liberamente muoversi e danzare). Dall’altro lato, vi è una serie di attività di tipo sociale definibili come ludiche, le quali non mettono in moto le facoltà conoscitive superiori agevolando il loro libero gioco, ma gli organi corporei e la complessione psichica degli individui che ad esse partecipano. E tuttavia, anche rimanendo all’interno della rigida demarcazione fissata da Kant, ci si accorge ben presto che, fra le pieghe del suo argomentare, si annida il pericolo della contraddizione. Intendo dire che, conformemente al postulato dell’assenza di interesse e di scopo, dalla classe dei giochi dovrebbero essere escluse tutte quelle forme di divertimento che comportino rischio economico e/o psicofisico, eccessivo dispendio di energie (anche intellettuali), al limite potenziali perturbazioni nei rapporti sociali. Se si considerano le cose da questo punto di vista, la prima delle tre categorie di giochi che Kant menziona (quelli di fortuna) incontra un limite immediato nell’intervento del calcolo e dell’avidità di guadagno. Il gioco di fortuna, infatti, “esige un interesse, o della vanità o dell’utilità, il quale però è di gran lunga meno grande di quello che abbiamo per il modo in cui cerchiamo di procurarcelo” 11. Per evitare una clamorosa contraddizione con il postulato della mancanza di interesse e consentire al gioco di fortuna di rientrare nell’ambito della propria classificazione, Kant è costretto ad introdurre una importante restrizione: sono tuttavia ammessi quei giochi di fortuna in cui non conta tanto il risultato economico, quanto piuttosto l’incessante vicenda di timore e speranza che li all’uso affermatasi durante il Settecento nella riflessione estetica di lingua tedesca (cfr. O. Meo, Il tragico nell’estetica di Kant, cit., pp. 71-72, n. 8). 9 Cfr. a questo proposito la Refl. n. 808, ibid., p. 359: “L’occupazione che in sé diletta è intrattenimento; quella che soddisfa soltanto mediante lo scopo: lavoro”. 10 KU 331 (it. 193). 11 Ibid. 12 contraddistingue e che serve come rimedio contro la noia12. Allorché intervengono fattori di altra natura (l’agonismo esasperato, la brama di denaro, la volontà di vincere, il gusto del trionfo e dell’annichilamento dell’avversario), il gioco – lascia capire Kant – cessa di essere tale, perché – subentrando l’interesse e lo scopo – viene meno il libero e gratuito avvicendarsi di vittoria e sconfitta, attesa e delusione. Chi è in preda ad una passione (e il gioco d’azzardo può trasformarsi in irrefrenabile e distruttiva passione) non può divertirsi perché non è in grado né di far intervenire le proprie facoltà intellettuali perché impongano il proprio dominio né di assistere senza impegno alle variazioni che dal loro gioco scaturiscono, librandosi e sospendendo il proprio giudizio: in questo caso, infatti, egli non si dispone in quell’atteggiamento sereno che è condizione fondamentale di un godimento che – pur non essendo a rigore estetico – è comunque assai simile ad esso, ma è agito dalle proprie inclinazioni “empirico-patologiche”. Così come Kant l’intende, l’attività ludica si qualifica dunque più propriamente come svago caratterizzato da una doppia libertà: esterna ed interna13. Esterna lo è per tre ragioni: perché libera è la stipulazione collettiva da cui il gioco nasce; perché dipende dalla mia volontà parteciparvi o meno; perché posso a mio piacimento decidere quando uscirne. Interna lo è perché nel corso del gioco mi sento intimamente libero, non sottoposto ai condizionamenti della vita quotidiana, proiettato in un mondo governato da leggi proprie e munito di significati propri. Se manca tutto questo, se – per parafrasare Schiller – non posso contrapporre la serenità del gioco alla serietà della vita, l’allestimento e lo svolgimento dell’attività ludica si trasformano in tormento esistenziale. Si fa dunque ancora una volta evidente in Kant l’esigenza di isolare in vitro l’atteggiamento estetico (o quasi estetico) rispetto agli altri atteggiamenti e comportamenti umani, rispetto alla sfera dell’interesse intellettuale e/o etico, rispetto alla sfera dell’interesse pragmatico. Ciò non significa naturalmente che ci si possa sottrarre alle regole previste dal gioco: una volte accettate le premesse, è impossibile evitare di accettare la subordinazione ad esse, la condivisione della forma e dei ruoli. Ferma resta soltanto la possibilità di smettere di giocare. Ma perché ciò accada, non vi deve essere uno scopo esterno al gioco stesso, un interesse a suo fondamento; occorre, in sostanza, che sia stato in precedenza stipulato (esplicitamente o tacitamente) un accordo intorno alla natura puramente ludica della relazione, che sia cioè definito preliminarmente il contesto situazionale in cui l’attività si svolge. E’ chiaro che un gioco così concepito presenta notevoli analogie con la fruizione estetica, 12 Cfr. ApH, § 60, 232 (it. 121). Ma cfr. pure la Menschenkunde, ossia le lezioni di antropologia del semestre invernale 1781/82: “Un uomo ragionevole che si mette a giocare non può avere per scopo il guadagno, ma non può non credere che alla fine dovrà pagare almeno un pegno. Perciò il suo scopo dev’essere altro che guadagnare. Durante il gioco, il suo scopo è sicuramente guadagnare, ma non ha cominciato a giocare per questo scopo. Ci sono qui soltanto speranza e timore, che in fondo sono vani; ma durante questa frangente ci si distrae, e si è dissipato quel dolore che tormenta gli uomini con il nome di ‘noia’” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XXV, De Gruyter, Berlin 1997, pp. 1076-1077). 13 Per una più dettagliata analisi del fenomeno del gioco come libero svago, cfr. O. Meo, Il contesto. Osservazioni dal punto di vista filosofico, F. Angeli, Milano 1991, pp. 99-106. 13 intesa come libero godimento spirituale di un bene spirituale. Libero godimento, giacché non vi è – dalla parte del fruitore – nessuna coercizione e nessun interesse materiale nel commercio con l’oggetto di cui si gode; libero bene, giacché l’atto di fruizione – proprio perché disinteressato e spirituale – lascia l’oggetto liberamente sussistere nel proprio essere, a disposizione per ulteriori atti di fruizione14. In Kant, che si conferma in tal modo convinto assertore della teoria della contemplazione disinteressata, il coinvolgimento del soggetto nella fruizione non può mai essere tale da costituire un pericolo per la sua vita psichica e/o etica: egli è ancora signore del proprio sé ed in grado di decidere autonomamente quando cessare il rapporto, giacché il suo eventuale compenetrarsi nell’oggetto, la sua eventuale partecipazione simpatetica, non è mai in grado di annientare la volontà. Il gioco kantiano costituisce pertanto una virtù sociale, la cui funzione è quella di tenere in esercizio la mente ed il cuore, senza però impegnarli in modo da mettere in pericolo il dominio sulle proprie emozioni. Non ne consegue propriamente l’elogio della medietas o del risparmio affettivo ed intellettuale. Kant ha qui in mente piuttosto l’esigenza di delimitare nel modo più preciso possibile il dominio dell’intrattenimento (o svago) rispetto alla serietà della vita, all’impegno etico, teoretico e pragmatico che essa richiede: nel gioco le emozioni (speranza, timore, gioia, collera, scherno) “sono così vivaci, da sembrare che tutta l’attività organica ne sia agevolata, come da un moto interno, come dimostra il brio dell’animo che ne è prodotto, sebbene non si sia né guadagnato né appreso alcunché” 15. Non è però il gioco di fortuna a costituire l’oggetto principale dell’attenzione di Kant in prospettiva estetico-antropologica. Egli si libera rapidamente della questione dichiarando di voler mettere da parte questo tipo di gioco perché “non è un gioco bello”. Ora, merita il predicato “bello” soltanto ciò che è oggetto di un giudizio di gusto. Che cosa impedisce la formulazione di un giudizio di gusto nel caso del gioco di fortuna? Indubbiamente il fatto che vi sia, se non un vero e proprio “scopo interessato” (ossia la prospettiva di ricavare per lo meno un utile), quanto meno un interesse per il gioco in sé. Viene meno cioè, in questo tipo di gioco, la prima conditio sine qua non dell’apprezzamento estetico: il momento qualitativo del giudizio di gusto. Il divertimento che se ne ricava non è evidentemente riconducibile a quello spirituale: non a caso, il movimento che è così salutare per il corpo apporta un contributo decisivo al benessere complessivo del soggetto. Non solo emerge qui in tutta la sua chiarezza l’alto livello di rarefazione che Kant esige in fatto di giudizio di gusto, ma si rivela pure una certa tendenza ad idealizzare il gioco (s’intenda: quello che sembra 14 Per un approfondimento del tradizionale concetto di fruizione (che, come è noto, affonda le sue origini nella distinzione agostiniana fra frui e uti), cfr. O. Meo, Ricerche sull’estetica della fruizione, La Quercia, Genova 1995, pp. 12-15. 15 KU 332 (it.193). Per quanto concerne le emozioni, alcune di quelle considerate tradizionalmente come fondamentali (gioia e timore) vengono mescolate piuttosto disordinatamente con altre che, variamente modulate, ad esse si uniscono. La rassegna ha comunque puro valore esemplificativo. 14 meritare il predicato “bello”). Essa appare in realtà mutuata dalla concezione dell’oggetto estetico come appartenente ad una sfera conchiusa ed impenetrabile rispetto ai condizionamenti oggettivi del mondo; in altre parole, appare strettamente connessa alla tesi della ateoreticità e della apraticità del giudizio di gusto. E’ difficile in realtà supporre che si possa identificare totalmente la libertà del gioco (ispirata alla libera autoimposizione delle regole, alla partecipazione alla produzione di significati nuovi, alla decisione autonoma di entrare nel mondo dell'oggetto estetico che sono le caratteristiche proprie di un fruitore à la Kant) con l’assoluta assenza di interessi estranei alla sfera ludica stessa e con l’assoluta assenza di scopi, ossia con l’autocompiaciuta ed autosufficiente “finalità senza scopo” del Giudizio riflettente. Anche prescindendo dal fatto che esistono giochi competitivi, in cui lo scopo è massimizzare il profitto (non importa se economico, sociale o psicologico), e che perfino il gioco infantile è parte integrante di un processo intellettuale (quello di apprendimento) e non costituisce pertanto una parentesi conchiusa ed isolata nella vita dell’individuo, potremmo concepire lo scopo ludico come interno al gioco stesso: la meta consisterebbe nel trarre il maggior vantaggio psicologico possibile dall’adesione alle regole del gioco16. Per altro, come si vedrà fra breve, lo stesso Kant è costretto ad ammettere – sia pure implicitamente – un “interesse” dell’homo ludens nel momento stesso in cui lo nega. E con ciò siamo di nuovo inevitabilmente proiettati fuori della sfera del bello e del Giudizio riflettente. Accanto al gioco di fortuna Kant ne menziona altri due tipi: il “gioco musicale” (Tonspiel)17 e “il gioco di pensieri” (Gedankenspiel). Poiché il primo ha a che fare con le “idee estetiche”, inevitabilmente vi svolgono un ruolo fondamentale l’immaginazione che si muove in direzione del sovrasensibile e la vocazione dell’artista ad esibire in concreto nell’intuizione, e non per via di concetti, le idee della ragione. In tal modo, Kant rinvia – sia pure in modo ellittico – alla discussione condotta nel fondamentale § 49 intorno al carattere marcatamente simbolico della produzione artistica18. Ma, in questa modesta e frettolosa ricapitolazione, viene meno un elemento strutturale della proposta teoretica là formulata: la sottolineatura del rapporto fra il “gioco” di cui ci Così, per es., J. Huizinga: “Gioco è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa, che è accompagnata da una senso di tensione e di gioia e dalla coscienza di ‘essere diversi’ dalla ‘vita ordinaria’” (Homo ludens, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1967, p. 55). Palesemente influenzata da Kant è la tesi di H.-G. Gadamer secondo cui “ciò che qui, nella forma dell’agire libero da scopi, pone a se stesso la regola è la ragione. Il bambino è infelice se la palla gli scappa di mano già al decimo rimbalzo, ma va fiero come un re se gli riesce di farlo trenta volte” (Die Aktualität des Schönen, Reclam, Stuttgart 1977, p. 30; trad. it., Marietti, Genova 1986, p. 25). In realtà, anche in questo caso, è possibile interpretare il comportamento del bambino come finalizzato ad ottenere il miglior risultato possibile e dunque all’accrescimento della propria autostima mediante la dimostrazione della propria abilità. 17 In forza dell’uso fortemente impreciso della terminologia musicale in Kant, rimango in dubbio se con Ton egli intenda il suono in generale o – come è parimenti probabile – le note. Preferisco pertanto il più generico “gioco musicale”. 18 Per una più ampia trattazione di questo tema, cfr. O. Meo, Il tragico nell’estetica di Kant, cit., pp. 54-59.. 16 15 si sta occupando e i pensieri, seri e sublimi, che l’idea estetica suggerisce. Contrariamente a quanto accade a proposito del simbolo, sembra proprio che la musica non dia da pensare. Per quanto concerne il “gioco di pensieri”, Kant afferma che in quel caso si muove da rappresentazioni intellettuali, con le quali però “alla fine non si pensa nulla”: esse dilettano solo in virtù del loro libero cangiare. E in precedenza, Kant aveva sostenuto che il gioco di pensieri “sorge semplicemente dal mutare delle rappresentazioni nel Giudizio, con cui non viene prodotto certamente alcun pensiero che comporti un qualche interesse, ma viene tuttavia vivificato l’animo”19. Ora, l’affermazione kantiana risulta a prima vista ossimorica: in quanto è una caratteristica definiente del pensiero procedere per concetti, esso non può mai essere vuoto. Di conseguenza, sarà subito da scartare l’ipotesi che il “nulla” oggetto del pensiero possa coincidere con l’assenza di concettualizzazione. Se così fosse, dovremmo concludere che Kant ignora qui la logica. In realtà, egli ha in mente qualcosa che va al di là del ristretto orizzonte ludico su cui la sua attenzione sembra esclusivamente appuntarsi, qualcosa che ha un rapporto strettissimo con la logica e l’ontologia: la sua frase anticipa un’idea che – sebbene anch’essa non pienamente sviluppata – occuperà fra poco il centro della scena teoretica. 2- Il Witz. Prima di affrontare la questione, è opportuno soffermarsi brevemente sui presupposti concettuali dell’affermazione secondo cui il cangiare delle rappresentazioni procura diletto. Come è noto, fra le facoltà umane ve n’è una che svolge la funzione di presiedere alla libera composizione dei giudizi: il Witz, che è legato da stretta parentela al Giudizio riflettente. Secondo Kant, da quest’ultimo il Witz si differenzia per una certa qual sovrabbondanza di produzione: “Come la facoltà di trovare il particolare in vista dell’universale (della regola) si chiama Giudizio, così quella di concepire l’universale in vista del particolare si chiama ingegno (ingenium). Il primo è rivolto all’osservazione delle differenze nel molteplice, in parte identico; il secondo all’identità del molteplice, in parte differente. – Il pregevole talento di entrambi sta nell’osservare anche le più piccole somiglianze o dissimiglianze. La facoltà di farlo è l’acutezza [Scharfsinnigkeit] (acumen), e le osservazioni di questa sorta si chiamano sottigliezze [Subtilitäten]. Esse però, quando non ampliano la conoscenza, si chiamano cavillosità [Spitzfindigkeiten] o vane sofisticherie [Vernünfteleien] (vanae argutationes) e si rendono colpevoli di un impiego inutile, anche se non falso, dell’intelletto in generale. – Dunque l’acutezza non è legata soltanto al Giudizio, ma anche all’ingegno; sennonché, nel primo caso, essa viene considerata come degna di stima più per la precisione (cognitio exacta), nel secondo più per la ricchezza della buona mente, onde l’ingegno viene anche detto fiorente. E come la natura nei suoi fiori sembra condurre più un gioco, mentre nei suoi frutti sembra svolgere un’occupazione, così il talento impiegato nell’ingegno è giudicato di rango inferiore (secondo gli scopi della ragione) di quello pertinente al Giudizio” 20. 19 KU 331 (it. 193). ApH, § 44, 201 (it. 88). Per ulteriori approfondimenti, cfr.: O. Meo, La malattia mentale nel pensiero di Kant, Tilgher, Genova 1982, pp. 45-50 e 88-97; R. Brandt, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Meiner, Hamburg 1997 (disponibile anche in versione elettronica al sito Internet www.unimarburg.de/kant/webseitn/kommentar/text.html). Un primo abbozzo della più matura teoria si trova nel Versuch über die Krankheiten des Kopfes del 1764, ove al Witz – in quanto facoltà di produrre sequenze logiche in abbondanza – è attribuita la responsabilità di almeno una delle forme di alienazione mentale. 20 16 Il Witz, l’ingegno acuto ed arguto, si qualifica in sostanza per una certa qual forma di libera creazione, di tendenza al gioco, a quello stesso gioco che caratterizza il comportamento generale dell’individuo immerso in un’atmosfera estetica21. Ma questo gioco si traduce essenzialmente nell’istituzione di analogie, o – come Kant stesso afferma – nell’individuazione delle parziali identità che cose diverse possono presentare, nel cogliere in sostanza il simile nel dissimile: “L’ingegno è o comparativo (ingenium comparans) o raziocinante (ingenium argutans). L’ingegno accoppia [paart] (assimila) rappresentazioni eterogenee, che spesso, in accordo alle leggi dell’immaginazione (dell’associazione) sono molto lontane l’una dall’altra, ed è una vera e propria facoltà di assimilazione, che appartiene all’intelletto (in quanto facoltà della conoscenza dell’universale), nella misura in cui conduce gli oggetti sotto classi. Esso ha poi bisogno del Giudizio, per poter determinare il particolare sotto l’universale e applicare la facoltà di pensare al conoscere”22. Ecco dunque una prima caratterizzazione fondamentale della “trovata arguta” (Witzeinfall) o dell’“arguzia” sic et simpliciter (Witz): essa appare come il naturale prodotto della facoltà di rapportare l’universale al particolare in modo tale che si colga subito l’universale nel particolare, come la forma espressiva in cui si traduce la creatività della facoltà cui va attribuita la produzione delle metafore. Tuttavia, proprio in forza della sua vocazione all’analogia, a cogliere cioè la possibilità di procedere abduttivamente per generare metafore, la facoltà del Witz finisce per coincidere con il Giudizio riflettente, conformemente alla definizione kantiana dell’uso logicoteoretico di quest’ultimo: “Procedendo dal particolare all’universale per trarre dall’esperienza, e perciò non a priori (empiricamente), giudizi universali, il Giudizio conclude o da molte a tutte le cose di una specie, o da molte determinazioni e proprietà, in cui cose di una stessa specie concordano, alle rimanenti, in quanto esse appartengono allo stesso principio. Il primo tipo di inferenza si chiama ‘per induzione’, l’altro ‘secondo l’analogia’”23. In sostanza, nella conclusione analogica, cui – stante il suo carattere empirico – Kant attribuisce soltanto il valore di una Präsumtion logica, si procede secondo un principio di somiglianza che facilmente può condurre, mediante l’identificazione dei predicati, al gioco metaforico o allegorico e addirittura, come nei sillogismi distorti di individui patologicamente affetti, all’identificazione dei Come è noto, il nucleo fondamentale dell’accostamento e della distinzione fra Witz e Urteilskraft risale – tramite la mediazione di Wolff e Baumgarten – al rapporto wit-judgement in Hobbes e, soprattutto, in Locke. Tuttavia, come si è visto nella nota 1, nel concetto settecentesco di Witz, oltre al significato logico e gnoseologico connesso con l’inglese wit, confluisce pure – grazie alla mediazione della scuola di Gottsched – l’idea di leggerezza, eleganza stilistica, gradevolezza denotate dal francese esprit. Per una accurata ricostruzione dal punto di vista filologico della storia dei concetti di wit e di Witz, cfr.: W. Schmidt-Hidding, Wit and Humour, in Id., Humor und Witz, Hueber, München 1963 (Bd. I della serie Europäische Schlüsselwörter), pp. 37-160; K.-O. Schütz, Witz und Humor, ibid., pp. 161-244. 21 Cfr. ApH, § 55, 221 (it. 109): “Il fare e disfare dell’ingegno comparativo è più un gioco; ma quello del Giudizio è più un’occupazione”. Cfr. pure la Refl. n. 819, Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., p. 365: “Spirito [Geist] e ingegno [Witz] sono ancora distinti. Il primo vivifica, il secondo gioca”. 22 ApH, § 54, 220 (it. 108). 23 Logik, § 84, p. 132 (trad. it., p. 127). E’ bene ricordare che, conformemente alla tradizione, per Kant il Giudizio in generale è la facoltà di distinguere e di comparare. 17 soggetti: per questo motivo nell’Anthropologie Kant chiama Wahnwitz il disturbo del Giudizio che fa generare analogie (anche divertenti) in modo incontrollato a chi ne è affetto. Da un punto di vista formale, infatti, “l’analogia conclude dalla somiglianza particolare di due cose alla totale, secondo il principio della specificazione: cose di uno stesso genere, delle quali si conosce molto di concordante, concordano anche nel rimanente, che noi conosciamo in alcune cose di questo genere, ma non percepiamo nelle altre”24. In perfetta coerenza con la confluenza nel concetto di Witz delle tradizioni estetico-retorica e logicoteoretica, il suo divertente e libero variare consiste proprio in questa capacità di scorgere estesi collegamenti là, dove un sobrio e sano intelletto comune, privo dello slancio dell’immaginazione, incapace di fulminea e felice intuizione, non è in grado di scorgere proprio nulla25. Tuttavia, almeno nel caso specifico qui in discussione, tale capacità non si traduce nella produzione di un oggetto bello da sottoporre a giudizio di gusto; e ciò significa che il Witz è, di per sé solo, insufficiente a costituire il genio artistico. Vero è che, secondo la definizione del § 46, il genio è un “talento”, una “disposizione innata dell’animo” o ingenium (ossia proprio il corrispondente latino di Witz); ma tali e tante sono poi le restrizioni che Kant impone a questo “dono naturale”, da impedire di fatto ogni possibile confusione fra genio e Witz. In primo luogo, vi è la già menzionata distinzione fra la bellezza dell’oggetto estetico, che presuppone l’intervento del gusto come disciplina dell’originalità mediante regole, e la gradevolezza immediata del prodotto del Witz, che assai significativamente è accostato nel § 54 proprio all’originalità nella produzione. In secondo luogo, vi è l’esemplarità del prodotto del genio, ossia il suo porsi come modello da seguire, mentre – come meglio si vedrà – l’effetto della trovata arguta si esaurisce nel momento stesso in cui si scatena il riso. Con il che viene anche messo implicitamente in rilievo uno dei caratteri in forza dei quali il comico è sempre stato relegato in un ruolo subordinato nell’ambito della gerarchia delle arti: il suo essere effimero, contingente, legato alla situazione e incapace di assumere un valore transtemporale. In realtà, tutte queste cose nel § 54 della III Critica Kant non le dice, e nemmeno – contrariamente a quanto accade nell’Anthropologie – menziona esplicitamente le proprietà e i modi di funzionamento del Witz, la funzione logica che esso esplica. E’ tuttavia chiaro che, senza questi presupposti teoretici inespressi, il meccanismo mentale che consente la produzione delle battute di spirito non sarebbe affatto comprensibile. Nel particolare contesto in cui le considerazioni sull’amabile varietà del “gioco di pensieri” si inseriscono, a Kant interessa soltanto l’effetto salutare che, insieme agli accordi musicali, i Witzeinfälle hanno sulla psiche e sul corpo degli uditori, 24 Ibid., p. 133 (trad. it., p. 127). La migliore applicazione di questa tesi in sede di estetica del comico è costituita dalla celebre definizione di Jean Paul: “Il Witz estetico, o Witz in senso stretto, è il prete travestito che sposa ogni coppia, e lo fa con diverse formule di rito” (Vorschule der Ästhetik, § 44, in Werke, Bd. V, Hanser, München 1963, p. 173). L’opera di Jean Paul costituisce un momento nodale per la trasformazione del Witz da facoltà o capacità in prodotto arguto. 25 18 conformemente al carattere più antropologico che teoretico-estetico del discorso. Ma, come mostra il fatto che del Witz si occupa estesamente proprio solo l’Anthropologie, esso ha la sua importanza più nell’ambito di una pragmatica del comportamento sociale che in una delineazione delle strutture a priori della mente. Alla fin fine, quel che conta nella III Critica è soltanto l’uso della facoltà dell’analogia per scopi elevati, ossia nella misura in cui essa non soltanto è fattore imprescindibile per la creatività del genio, ma presiede anche alla formulazione di giudizi di gusto, e dunque alla edificazione di una comunità estetica fondata sull’accordo intersoggettivo. Per contro, come Kant esplicitamente afferma, nel caso della comicità della trovata arguta non abbiamo a che fare con il bello, ma – come nel caso della musica – soltanto soggettivamente con il gradevole legato al sentimento e alla sensazione, ossia alla costellazione psicofisica. Il motivo è facilmente comprensibile: l’allegria da cui il riso scaturisce è un’emozione, e in quanto tale – anche se estesa a più persone ed eventualmente trasmissibile – costituisce pur sempre una faccenda privata ed idiosincratica. E’ indubbio inoltre che, nella comicità dell’arguzia, si ha inizialmente a che fare con pensieri, giacché il canale verbale consente soltanto l’espressione di concetti; ma questi pensieri hanno una ricaduta corporea. Dal canto suo, sostiene Kant, l’intelletto, la facoltà di pensare in generale, resta insoddisfatto dei pensieri esibiti, ossia espressi verbalmente. Proprio a questo punto scatta il meccanismo che fa scatenare il riso: “Nello scherzo (che, proprio come la musica, merita di essere ascritto più all’arte gradevole che a quella bella) il gioco comincia da pensieri, che nel loro complesso, in quanto vogliono esprimersi sensibilmente, impegnano anche il corpo; e rilassandosi all’improvviso l’intelletto nel corso di questa esibizione, in cui non trova ciò che si aspettava, si avverte nel corpo l’effetto di questo rilassamento mediante l’oscillazione degli organi, che promuove il ristabilimento del loro equilibrio ed ha un benefico influsso sulla salute”26. In sostanza, integrando il processo di pensiero di Kant con quanto fin qui detto intorno alla funzione del Witz, sembra possibile giungere alla seguente ricostruzione: nell’espressione arguta il Witz, la facoltà di produrre estese relazioni fra i concetti, viene per così dire messo in libertà, in modo tale che la facoltà dei concetti, cioè l’intelletto, si vede sottrarre la propria giurisdizione a tutto vantaggio di un meno rigoroso, ma psicologicamente e fisiologicamente benefico, analogizzare. Se questa ipotesi è corretta, il punto nodale della questione è dunque costituito dalla funzione esercitata dalle singole facoltà nel corso del processo mentale. Poiché è messo fuori causa nel suo procedere per concetti, ossia sulla base di funzioni ordinatrici in vista della possibilità di un’esperienza coerente e valida, l’intelletto in qualche modo sospende la propria attività, con una subitaneità che si ripercuote sulla costellazione psicofisica globale. Questo venir meno alle proprie prerogative costituisce una sorta di sospensione del “giudizio di realtà”, giacché l’intelletto si trova ad aver a 26 KU 332 (it. 194). 19 che fare con concetti dei quali non può servirsi per i propri fini precipui; e questa abdicazione si traduce non nella messa in libertà del Giudizio riflettente, e dunque in un atteggiamento estetico puro, ma in un rilassamento complessivo della mente e del corpo, in una distensione favorevole alla salute che genera godimento. 3- Il nichilismo del comico. Fin qui gli aspetti più propriamente antropologici del discorso kantiano. Resta ancora da spiegare quale sia il meccanismo logico sotteso alla buona riuscita della trovata arguta, sia quest’ultima volontaria o involontaria. In cosa consiste, in sostanza, la delusione che l’intelletto prova? A cosa mette capo il gioco dei concetti? Seguiamo innanzitutto da vicino il testo kantiano: “In tutto ciò che ha il compito di suscitare un vivace scoppio di risa deve esserci qualcosa di assurdo [Widersinniges] (in cui dunque l’intelletto in sé non può trovare alcun piacere). Il riso è un affetto che muove dall’improvvisa trasformazione di un’aspettazione tesa in nulla. Proprio questa trasformazione, che certamente non è allietante per l’intelletto, tuttavia al momento allieta indirettamente in modo vivace. Dunque la causa non può non consistere nell’influsso della rappresentazione sul corpo e nella reazione del corpo sull’animo; e non certo in quanto la rappresentazione è oggettivamente un oggetto del diletto (come può infatti dilettare un’attesa delusa?), ma unicamente perché essa, in quanto semplice gioco delle rappresentazioni, produce nel corpo un equilibrio delle forze vitali”27. Questo passo, sicuramente il più importante dell’intero § 54, ruota intorno a tre concetti fondamentali: l’assurdo (o il controsenso), l’attesa frustrata e il nulla. Innanzitutto, è bene ricordare che in logica il termine “assurdo” significa propriamente “impossibile” perché contraddittorio28 e che soltanto in un’accezione generica e non rigorosamente tecnica esso assume il significato di “incredibile” o “irragionevole”. Che Kant abbia in mente l’accezione logica e non quella generale, lo mostra l’inciso perentorio in cui si evidenziano le conseguenze estetiche della presenza dell’assurdità: nel momento in cui gli si palesa l’impossibilità della cosa asserita, l’intelletto non può di per sé provare piacere. Con il che Kant evidenzia il correlato psicologico dell’abituale affermazione secondo cui la contraddizione ripugna all’intelletto (o alla facoltà conoscitiva in generale). La strategia complessiva di Kant si rivela comunque quando, mescolando ancora una volta psicologia, fisiologia e logica, egli enuncia la definizione di “riso”. Per quanto concerne l’aspetto psicofisiologico, viene qui istituito un legame fra frustrazione dell’attesa e 27 Ibid. 332-333 (it. 194-195). Il pensiero è esplicito già nell’Anthropologie Collins, in cui sono raccolte le lezioni del semestre invernale 1772/73: “In tutto ciò che è ridicolo si trova una certa contraddizione” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XXV, cit., p. 141). O, più chiaramente ancora: “Si è visto che nel riso ci deve essere una contraddizione e la si è chiamata “assurdità” [Ungereimtheit] quando essa viene all’improvviso e causa una risata” (ibid., p. 143). Numerose sono le fonti cui Kant può aver attinto questo, che era destinato a diventare un vero e proprio luogo comune della trattatistica sul comico. Cfr. per es. C. Wolff, Psychologia empirica, § 743: “risus nascitur ex iis, quae nostra opinione absurda sunt”. All’incirca allo stesso periodo delle lezioni di antropologia di Kant risale la pubblicazione della Allgemeine Theorie der schönen Künste di Sulzer, in cui l’art. Lächerlich (“Ridicolo”) comincia 28 20 esplosione del riso, ossia vengono messe in connessione la scarica emotiva (il riso è un Affekt, un’emozione) e la risoluzione della tensione29. Il meccanismo psicologico risulta assai affine a quello che più tardi sarebbe stato individuato da Freud, la cui interpretazione “economica” del fenomeno culmina nell’affermazione che il riso è la “libera scarica” di un ammontare di “energia psichica impiegata in investimenti non percorribili”30. In altri termini, anche Freud concepisce la manifestazione emotiva come risposta dell’organismo ad un calo di tensione psichica. La differenza sta nel fatto che, mentre per Freud la tensione è fin dall’inizio psicoaffettiva, per Kant essa è innanzitutto di carattere intellettuale e si ha soltanto in un secondo momento un esito psicofisico. Il problema è capire quale sia la causa della tensione, che cosa si aspetti in realtà il soggetto. A questa domanda Kant non risponde esplicitamente31. Sennonché quanto si è in precedenza stabilito intorno all’autosospensione dell’intelletto dal suo ruolo di garante dell’unità dell’esperienza dovrebbe contribuire a risolvere la difficoltà. Certamente, il soggetto non può attendersi che l’esperienza continui a svolgersi entro i binari consueti e consolidati, perché altrimenti non vi sarebbe investimento psichico e conseguente tensione psicologica: l’attesa che la conversazione in società prosegua in modo lineare, senza scosse, ossia l’attesa che saranno rispettate le convenzioni, è un atteggiamento non solo esteticamente, ma anche intellettualmente improduttivo. E nemmeno il soggetto può ipotizzare una sorpresa totalmente estranea al tema, a ciò su cui verte in quello specifico contesto situazionale l’attenzione dell’uditorio. Da questo punto di vista, si può dire che la sorpresa estetica non giunge mai del tutto inattesa. E’ tipico dell’atteggiamento psicologico del fruitore nei confronti dell’oggetto estetico aspettarsi che esso gli comunichi qualcosa di nuovo; è tipica, in sostanza, l’attesa della sorpresa (attesa della frustrazione dell’attesa). E’ proprio questa peculiare dialettica, che sfocia nel paradosso, a non affacciarsi – almeno in questo contesto – all’orizzonte del pensiero di Kant: il fatto con le seguenti parole: “Le cose su cui ridiamo hanno sempre secondo il nostro giudizio qualcosa di assurdo [Ungereimtes] o di impossibile” (op. cit., Bd. III, p. 132). 29 Che si tratti di un pensiero ben radicato in Kant lo mostra anche in questo caso l’Anthropologie Collins: “Tutte le trovate argute hanno questa caratteristica, che ci si trova ingannati [betrogen] nell’attesa” (op. cit., pp. 140141). Sarei propenso a non attribuire un valore negativo all’“inganno” di cui Kant parla: non mi pare che qui esso assuma il significato tecnico, che altrove è ad esso conferito, di “macchinazione fraudolenta”. 30 Cfr. S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten, in Gesammelte Werke, Bd. 6, Imago Publ. Co., London 1940, pp. 164-166 (trad. it. in Opere, vol. 5, Boringhieri, Torino 1980, pp. 131-132). Come già aveva fatto Theodor Lipps (cfr. Komik und Humor. Eine psychologisch-ästhetische Untersuchung, Voss, Hamburg-Leipzig 1898, p. 40), Freud cita fra le proprie fonti la teoria psicofisiologica di Herbert Spencer, ma sono evidenti le connessioni fra la tesi secondo cui la tensione accumulata trova uno sbarramento e pertanto si sfoga nella scarica emotiva e l’idea kantiana secondo cui il riso si genera da una tensione che non trova rispondenza nell’oggetto. Significativamente, nello stesso contesto in cui si richiama a Spencer, Lipps menziona Kant e Jean Paul. Un ulteriore sviluppo della tesi freudiana è reperibile in E. Kris, Psychoanalytic Explorations in Art, trad. it., Einaudi, Torino 1988, pp. 202, 212 e 226 in particolare: il riso (con il sorriso) è una forma di “liberazione dalla tensione” mediante scarico di quantità di energia grandi o piccole da parte dell’Io; tale scarica energetica è provocata da una brusca diminuzione della tensione. 21 cioè che la frustrazione dell’attesa coincida in realtà con la sorpresa e non con il nulla con cui egli la identifica. Se si guardano le cose da questo punto di vista, si può addirittura asserire che proprio nella frustrazione dell’attesa consiste la soddisfazione dell’attesa32. Può addirittura accadere, come nel moderno teatro detto dell’“assurdo”, che, in forza del dissolversi delle aspettative nel nulla, la sorpresa consista proprio nella mancanza della sorpresa. In questo particolare caso, però, l’esito nichilistico non è pertinente al comico, bensì al grottesco ed è tale da produrre straniamento. Da un punto di vista ontologico, anche qui si ha una sorta di “vuoto”, una sospensione della relazione fra un soggetto che nutre aspettative e un oggetto emozionale; essa è però assai diversa da quella postulata da Kant con la sua tesi della messa in libertà del Witz e della delusione cognitiva provata dall’intelletto, giacché l’obiettivo dell’autore è quello di mettere allo scoperto l’irrazionalità del mondo in generale, e non semplicemente quello di creare una parentesi di relax. Una soluzione possibile al problema posto dal passo kantiano è dunque che il soggetto si attenda precisamente quella sorpresa che è lecito attendersi in un contesto finalizzato all’intrattenimento sociale. In altri termini, nel corso di un'allegra riunione in cui fioriscano le battute di spirito e vi sia una disposizione comunitaria ad accogliere lo scherzo o il racconto umoristico, i partecipanti si aspettano proprio che l’ospite dotato di spirito li stupisca con la propria arguzia, che la sua trovata vada in senso diverso rispetto alle aspettative suscitate 33. Tuttavia non è questa la soluzione accolta da Kant. Per lui si ha una decisa declinazione dell’arguzia verso il nichilismo34. Il fatto è che Kant non tiene affatto conto degli aspetti psicologici del fenomeno della L’obiezione era già stata formulata nel 1837 da F.T. Vischer nel suo saggio sul sublime e sul comico: cfr. Über das Erhabene und Komische und andere Texte zur Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1967, p. 160 (trad. it., Aesthetica, Palermo 2000, p. 121). 32 Sul paradosso della relazione atteso-inatteso si sofferma a proposito del motto di spirito anche W. Preisendanz, Über den Witz, Universitätsverlag, Konstanz 1970, pp 27-28. Diversamente da quanto prospettato nel presente lavoro, Preisendanz ritiene però comprensibile proprio sulla base del paradosso la tesi di Kant secondo cui l’attesa si risolve in nulla. Da un punto di vista estetico generale, sulla peculiare dialettica per cui la soddisfazione dell’attesa si ha quando l’attesa è frustrata si era soffermato acutamente G. Lukács, Ästhetik, trad. it., Einaudi, Torino 1970, p. 645. In particolare: “Se essa (sc.: la delusione dell’attesa) non può non essere sentita altrimenti che come pura, cruda sorpresa, se non evoca – a posteriori –, nonostante la sua eventuale subitaneità, il senso di averla tuttavia in qualche modo attesa, la continuità della ‘guida’ in qualche modo si è rotta, l’unità dell’opera è turbata. E, d’altro lato, la soddisfazione dell’attesa suscitata non è mai, a sua volta, la semplice realizzazione di ciò che ci si aspettava, ma nelle opere d’arte autentiche contiene sempre un momento di sorpresa, va sempre al di là delle attese”. 33 Sul rapporto fra attesa e sorpresa nell’arguzia scriveva nel 1889 K. Fischer: “La verità nascosta non viene concettualizzata o sviluppata, ma rischiarata giocosamente; essa si fa innanzi ed è qui in un baleno, il suo contrasto ci coglie di sorpresa e ci appare come l’esatto contrario di ciò che ci saremmo aspettati, creando così quella tensione propria dell’attesa che viene sciolta dal contrario inaspettato” (Über den Witz, trad. it., Gallio, Ferrara 1991, p. 121). Entra qui in gioco un meccanismo che comparirà soltanto successivamente nel testo kantiano: quello del contrasto. Sennonché Fischer interpreta, in termini non troppo dissimili da Kant, l’esito comico come prodotto del contrasto fra l’attesa del rispetto della regolarità esperienziale e la sua violazione. Il modo di procedere di Fischer appare però assai confuso, giacché egli fonde insieme due prospettive incompossibili. Delle due l’una: o il contrario genera la tensione oppure la scioglie. 34 Rivelando la propria dipendenza dalle teorie romantiche, Lipps (op. cit., pp. 40 e 50-51) ridimensiona notevolmente la carica ontologica del testo kantiano: anche il comico di Kant sarebbe fondato sul contrasto fra grande e piccolo e il nulla di cui egli parla sarebbe da interpretare pertanto come “relativo” e non come assoluto. Ciò, perché – come rivela ampiamente il seguito della discussione (ibid., pp. 140-142) – Lipps non riesce a rinunciare 31 22 frustrazione dell’attesa, e dunque dell’indissolubilità del nesso attesa-sorpresa, ma mira esclusivamente a mettere in luce l’aspetto logico-teoretico: quello in cui si risolve la tensione è un nulla cognitivo e ontologico. Ora, da questo punto di vista (per quanto incomprensibile esso possa apparire oggi), necessariamente il risultato sarà un annichilamento assoluto dell’attesa e non uno stato psicologico positivo come la sorpresa: il nulla è infatti il deserto di essere. Come sarà chiaro subito dopo nel testo e conformemente ad una convinzione ben radicata nel pensiero di Kant, la nullità in cui si risolve l’attesa è intesa non come il negativo che è il contrario positivo di un positivo (come – A si oppone ad A), ma come indifferente assenza (= 0). Vi è ad onor del vero un luogo kantiano in cui emerge in evidenza il tema della sorpresa. Si tratta del § 55 dell’Anthropologie, nel quale – dopo aver contrapposto la serietà del Giudizio alla giocosità del Witz – Kant afferma: “Spirito umoristico [launichter Witz] si chiama colui che inclina al paradosso per una disposizione mentale; in lui – sotto il tono amabile della semplicità – balena lo smaliziato furbacchione, che vuole prendere in giro qualcuno (o anche la sua opinione), mentre il contrario di ciò che è degno di approvazione è innalzato con lodi apparenti (persiflage): per es. in L’arte di immergersi nella poesia di Swift o nello Hudibras di Butler. Un tale spirito, che mediante il contrasto rende ancora più spregevole ciò che è spregevole, è molto eccitante grazie alla sorpresa dell’inatteso; ma è pur sempre soltanto un gioco e uno spirito leggero (come quello di Voltaire). Per contro, colui che presenta rivestiti principi veri ed importanti (come Young nelle sue satire) può essere chiamato uno spirito grave, poiché si tratta di un’occupazione e suscita più ammirazione che divertimento” 35. Sennonché, in questo peculiare caso, la sorpresa non sopraggiunge in un contesto totalmente ludico come quello ipotizzato nella III Critica, ma – come mostra la serie dei riferimenti letterari – in un’atmosfera esteticamente più raffinata, e comunque grazie alla rilevazione del paradosso insito nella satira, che è l’unico genere da cui Kant trae i suoi esempi; paradosso consistente nell’approvazione di ciò che è eticamente riprovevole. Sebbene Kant si premuri di chiarire subito dopo che si tratta pur sempre di un gioco, è dunque la presenza dell’elemento etico ad impedire che la frustrazione dell’attesa coincida con il nulla. Quali sono le ragioni della radicale presa di posizione ontologica della III Critica nei confronti dello scherzo? Per comprenderle, può risultare utile chiamare in aiuto un passaggio, tanto celebre quanto oscuro, situato in analoga posizione marginale in un’altra delle opere fondamentali di Kant: il tentativo di definizione e di esplicazione del problema del nulla collocato alla fine all’indissolubilità del nesso attesa-sorpresa: il nulla è relativo, perché, quanto maggiore è l’attesa, tanto più si avverte l’inadeguatezza dell’evento realmente verificatosi rispetto ad essa; in sostanza, tanto più ci si sorprende. Nel Novecento la tesi secondo cui il nulla del comico è relativo al valore positivo cui si contrappone è stata ripresa, con riferimento alla concezione del ridicolo di Platone e di Aristotele, da J. Ritter, Über das Lachen, in “Blätter für deutsche Philosophie”, 1940/41, p. 16. Riduttiva è anche l’interpretazione di Bergson, il quale – ignorando totalmente il risvolto logico della tesi di Kant – sostiene che l’attesa risolventesi in nulla equivarrebbe a produrre uno sforzo grande, ma inutile (cfr. Le rire, in Oeuvres, PUF, Paris 1959, p. 427 (trad. it., Laterza, Roma-Bari 1996, p. 56). 35 ApH 221-222 (it. 110). Non sfugga la (sia pur mite) critica alla leggerezza di Voltaire, che si inserisce nell’ormai lunga tradizione tedesca di prese di posizione polemiche contro l’esprit francese. 23 dell’Appendice all’Analitica trasc. della I Critica. Anche in questo caso, a porsi problematicamente in evidenza è l’origine del concetto di “impossibile”, che – insieme a quello di “possibile” – deriva per divisione dal concetto di “oggetto in generale”. Grazie al sistema delle categorie, sostiene Kant, si è in grado di stabilire nell’ambito della filosofia trascendentale se un oggetto sia qualcosa oppure nulla. Si intenda: poiché ad essere qui in discussione è il problema trascendentale della possibilità dell’esperienza in generale, non può risultare strano che nella quadruplice “tavola del nulla” derivante dall’applicazione della tavola delle categorie Kant affianchi a concetti di oggetti che, secondo la scolastica leibniziana, sono possibili concetti di oggetti già in precedenza considerati impossibili. Così, “nulla” è il noumeno, in quanto non è oggetto di un’esperienza possibile; esso è pertanto un “concetto vuoto senza oggetto” (un ens rationis). A rigore, però, esso non può neppure essere considerato come un “impossibile” (e dunque come assurdo), giacché non è contraddittorio: semplicemente, noi non ne sappiamo né potremo mai saperne nulla. In secondo luogo, “nulla” è la negazione intesa come mancanza (privatio) o “oggetto vuoto di un concetto” (nihil privativum): l’ombra e il freddo sarebbero concetti di questo genere36. In terzo luogo, vi sono “enti” (entia imaginaria) che – pur essendo realissimi (e dunque non impossibili) – non sono oggetti, ma costituiscono la condizione a priori della conoscenza degli oggetti: si tratta dello spazio e del tempo, le forme a priori dell’intuizione, il cui essere “nulla” indica semplicemente l’assenza di sostanzialità (contro Newton) e di realtà oggettiva (contro Leibniz). Infine viene l’“oggetto vuoto senza concetto”, ossia l’impossibile come autocontraddittorio, che Kant riconduce alla classe categoriale della modalità e che riguarda più da vicino il § 54 della III Critica, giacché si tratta proprio di quell’assurdo che ripugna alla ragione e in cui l’attesa si nientifica: “L’oggetto di un concetto che contraddice se stesso è nulla, poiché il concetto è nulla, l’impossibile, come per es. la figura rettilinea di due lati (nihil negativum)”37. Da ciò risulta legittimo considerare il nulla della trovata arguta, sebbene esso – contrariamente al nihil negativum – sia una mera assenza di essere, come il correlato psicologico del concetto di un oggetto autocontraddittorio. L’“assurdo” che è causa del riso è dunque un nulla di senso, il quale però – anziché generare ripugnanza – è fonte di divertimento e di rilassamento. Si assiste dunque ad una strana inversione dialettica: ciò che sembrava segnato dal tarlo del negativo si trasforma in qualcosa di positivo. In termini ontologici: dal nulla si semantizza l’essere, che dà luogo ad un salutare stato psicofisico. Il problema può essere affrontato anche da altra angolatura. 36 Sulla difficoltà di conciliare la tesi secondo cui una grandezza negativa come il freddo è una privatio con la già menzionata concezione del negativo come contrario positivo di un positivo cfr., nella presente raccolta, la nota 33 del saggio Il colore: quasi una teoria. Nella delineazione kantiana del nihil privativum risuona comunque la definizione tradizionale (wolffiana) di privatio come assenza di qualcosa la cui presenza non implica contraddizione. 37 KrV B 232 (it. 281). In questo stesso senso il nihil negativum è già definito da Kant nel Versuch den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen del 1763. 24 In virtù del capovolgimento dialettico, si ribalta in nonsenso ciò che dovrebbe risultare dotato di senso, ma in modo tale che da questa negazione emerga un altro senso. Ora, se, ragionando in termini di polarità, consideriamo il senso come il positivo e il nonsenso come il negativo, il loro incontro provoca un collasso ontologico, il cui risultato è un’assenza assoluta. In questo modo si può giustificare la concezione del nulla dell’arguzia come mancanza. Un'altra caratteristica degna di attenzione è che il meccanismo della trovata arguta testé descritto interessa il piano logico, ontologico e psicologico38, ma non quello etico. Non vi è infatti in Kant alcun riferimento ad un mondo di valori che, potenzialmente o effettivamente, sia messo in crisi dalla trovata arguta o che – addirittura – sia ridotto a nulla. Coerentemente – almeno in questo caso – con l’assunto secondo cui l’estetico è rigorosamente separato dal teoretico e dal pratico, manca in sostanza in Kant l’idea secondo cui dal comico scaturisce un nulla assiologico. Egli è pertanto assai lontano dalle interpretazioni successive del meccanismo della comicità, dallo humour e dall’ironia dei romantici fino all’uso contemporaneo del comico in funzione critica nei confronti dei valori tradizionali o comunque condivisi da larghi strati sociali39. E’ altresì assente nella III Critica l’idea che l’annullamento dei valori proceda nel comico di pari passo con l’affermazione di ciò che nella vita quotidiana è considerato come nulla, ossia l’idea che si possa verificare in esso un rovesciamento assiologico40. Vi è espressa semmai, alla fine del § 54, l’idea che l’oggetto della 38 In indiretto riferimento a Kant, H. Plessner (Lachen und Weinen. Eine Untersuchung nach den Grenzen menschlichen Verhaltens, Francke, Bern-München 1961, p. 130) considera invece come esclusivamente logico il nulla in cui si risolve la tensione. Tuttavia lo stesso Plessner mostra di interpretare psicologicamente il fenomeno allorché poco dopo sostiene che, per chiarire la formulazione kantiana, può essere utile ricorrere a quei casi in cui una risata liberatoria segue ad un forte spavento che si scopre immotivato (p. 138). 39 Cfr. su questo punto quanto scrive, con accenti critici nei confronti della società borghese, O. Marquard in Exile der Heiterkeit, in AA.VV., Das Komische, hrsg. v. W. Preisendanz u. R. Warning, Fink, München 1976 [Poetik und Hermeneutik VII], p. 136: “… l’arte fa valere ciò che nella realtà della serietà ufficiale non vale nulla ed è nullo, al tempo stesso negando nella sua totale validità ciò che in questa realtà è ufficialmente tutto e rivendica una validità totale”. Una tesi non dissimile, ma priva di intenti ideologici, è reperibile pure in H. Plessner (op. cit., p. 150), secondo il quale ridendo l’essere umano liquida una situazione, ossia la dichiara non verbalmente priva di valore. A prescindere dalla presa di posizione radicalmente diversa intorno alla questione dei valori, l’idea di fondo è formulata con estrema chiarezza da Jean Paul: “Lo humour [Humor], in quanto sublime capovolto [das umgekehrte Erhabene], non annienta solo il singolo, ma il finito in forza del contrasto con l’idea. Non c’è per esso alcuna singola stoltezza [Torheit], alcuno stolto, ma solo la stoltezza ed un mondo folle. Diversamente dalla comune celia con le sue frecciate, esso non fa risaltare alcuna singola sciocchezza, bensì abbassa il grande (ma diversamente dalla parodia) per porgli accanto il piccolo, ed innalza il piccolo (ma diversamente dall’ironia) per porgli accanto il grande, allo scopo di annientarli in tal modo entrambi, poiché innanzi all’infinitezza tutto è uguale ed è nulla” (op. cit., § 32, p. 125). Se ne confronti la ripresa in un passo di F.T. Vischer sicuramente memore, oltre che del concetto romantico di “ironia”, anche della dialettica di Hegel: “Nel comico il sublime è, e di nuovo non è, il vero, poiché viene sospeso dall’inferiore; l’inferiore è, e di nuovo non è, il vero, perché esso è nel sublime. Così è vero l’uno e l’altro, ciò che è importante non è importante e ciò che non è importante è importante, il dio del nonsenso prende possesso del mondo, tutte le determinazioni si confondono, tutto è indifferente; e anche che tutto è indifferente non è di nuovo vero, e anche questo è di nuovo nulla, e sopra la dissoluzione di tutto ciò che è fermo e stabile si erge soltanto il gaio soggetto, che – ridendo – si mette le mani sui fianchi e guarda giù verso il mondo rovesciato [verkehrte Welt] nella pazza inquietudine e nella danza della contraddizione” (op. cit., p. 177; trad. it., pp. 133-134). 40 Altrove – con esplicito riferimento al genere comico (contrapposto all’ironia) – Kant rileva con tono di disapprovazione questo rovesciamento dei valori, in modo tale da far risaltare la paradossalità della situazione: “Secondo un certo spirito nel modo di scrivere, si ritrae ciò che è degno di disprezzo come sublime in modo ridicolo, il malvagio come nobile e amabile in modo altamente beffardo, la pigrizia come ridicolmente meritoria. Per contro, [si 25 pointe comica, o meglio – come dice Kant – dell’uscita “umoristica” (launicht), è privo di valore41; e ciò costituisce – inter alia – una chiara testimonianza del carattere “gradevole” del comico, giacché l’oggetto delle arti belle “deve sempre mostrare in sé una certa dignità e perciò esige una certa serietà nella rappresentazione”, come per altro esige il gusto. Qualora si pensi al contesto psicologico e socio-culturale in cui l’arguzia ha buona speranza di riuscita, l’esclusione dei valori dall’ambito dei suoi oggetti non può in realtà stupire. Sebbene i partecipanti alla riunione non siano infatti immersi nel mondo dell’azione, impegnati nell’affrontare seri problemi aventi implicanze etico-esistenziali, anche nella situazione in cui si trovano il dileggio dei valori costituirebbe una violazione dell’imperativo categorico. Poiché essi sono certamente consapevoli di prendere parte ad un gioco, sono intenti a trascorrere insieme il loro tempo libero il più allegramente possibile e a trarne il maggior beneficio psicofisico possibile, da una simile comunità quasi estetica non ci si deve aspettare una riflessione sulla serietà della vita: quest’ultima è – per una forma di tacita stipulazione – messa in parentesi in prò di una pausa di sereno godimento. Ciò non significa che manchi il riferimento alla sfera assiologica. Anzi, accade proprio il contrario: il diritto di sospendere il valore non coincide con la licenza di prendersene gioco. E ciò proprio in nome dell’assolutezza della legge morale. Una chiara prova del fatto che il riferimento alla sfera dei valori è conservato lo fornisce per altro il terzo degli esempi di arguzia forniti da Kant. 4- Il comico e l’illusione estetica. Per illustrare la tesi generale, ossia la declinazione nichilistica del comico, Kant adduce come esempio di Witz riuscito, tre brevi racconti. In realtà, però, vi è un palese difetto di coerenza, giacché i primi due si differenziano dal terzo non solo per il loro carattere aneddotico, ma soprattutto perché costituiscono piuttosto casi di umorismo involontario o ingenuo, mentre soltanto l’ultimo, che sembrerebbe riportare un’esperienza vissuta da Kant in prima persona, può essere considerato come una vera e propria trovata arguta. Loro caratteristica comune è comunque il descrive] l’infelicità in modo derisorio e critico, [anziché?] imprimere il dolore nel cuore del lettore, [si descrive] la virtù più sublime come stoltezza e [si colloca] il piccolo sopra il grande” (Refl. n. 664, Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., p. 295. Le interpolazioni sono mie). 41 Kant distingue fra launisch, che indica chi involontariamente cambia umore e corrisponde al nostro “umorale”, e launicht, che indica chi volontariamente e con l’intenzione di procurare divertimento si pone “in una certa disposizione d’animo in cui tutte le cose vengono giudicate in modo del tutto diverso dal solito (perfino al contrario) e tuttavia conformemente a certi principi razionali che si trovano in una tale disposizione d’animo” (KU 336; it. 198). Tracce del problema si trovano anche nelle Vorlesungen, già a partire dall’Anthropologie Collins (op. cit., p. 139). La stessa distinzione concettuale di KU è prospettata nella Menschenkunde, ove però i termini sono launisch e launig (ibid., pp. 1083-1084). Con la sua soluzione dicotomica, Kant suggerisce che il termine Laune con i suoi derivati è perfettamente adatto ad esprimere le sfumature semantiche del francese humeur e dell’inglese humour. In questo modo egli prende decisa posizione nel dibattito sul concetto di humour che percorse tutto il Settecento europeo. In Germania il dibattito si sviluppò a partire da Gottsched, attraverso Hagedorn, Lessing, Sulzer, Riedel, Herder, Möser, fino ad arrivare a Eberhard, che – nonostante la sua nota avversione per la filosofia di Kant – adottò la sua stessa soluzione terminologica e concettuale. Su tutto ciò cfr. K.-O. Schütz, op. cit., pp. 174 sgg. 26 fondarsi sul contrasto. E proprio la diversa modalità di contrasto consente la loro precisa collocazione nell’ambito del sistema kantiano: ciascuno dei tre esempi può agevolmente essere riportato ad una delle tre prime classi di categorie. In tal modo, essi rappresentano un’ulteriore manifestazione di quell’applicabilità della tavola delle categorie a tutti i domini regionali, e dunque di generalizzata classificabilità degli eventi, di cui Kant andava particolarmente fiero e che non perdeva occasione di sottolineare. Il primo esempio di racconto umoristico ha per oggetto un indiano che – vedendo uscire la schiuma da una bottiglia di birra – si meraviglia di come sia stato possibile farvela entrare. La classe categoriale interessata è in questo caso quella della qualità42: il contrasto è fra dentro e fuori e concerne il grado di coercibilità di una sostanza gassosa. Il secondo aneddoto narra di un erede che vuole tributare esequie solenni al suo defunto benefattore; sennonché, quanto più denaro offre a coloro che devono manifestare il proprio lutto, tanta più contentezza suscita in loro. La classe è in questo caso quella della quantità: il contrasto è fra più e meno e mostra come si possa ottenere lo scopo contrario a quello desiderato. Il terzo esempio, sicuramente quello più congruo dal punto di vista del concetto di “trovata arguta”, presenta qualche complicazione dal punto di vista concettuale. La storiella nasce infatti come risposta di un burlone ad un racconto menzognero, e dunque tale da suscitare dispiacere sotto il triplice profilo teoretico, etico ed estetico: teoretico, giacché – in buona dialettica kantiana dei contrari – il falso è un positivo che – contrapponendosi al positivo atteso e frustrato – ripugna all’intelletto; etico, giacché la menzogna costituisce per la sua assoluta spregevolezza il caso prototipico di violazione dell’imperativo categorico; estetico, giacché la conclamata falsità e menzogna del racconto contraddicono il criterio della verisimiglianza, implicitamente ammesso come canonico. Ma ecco l’essenziale della sequenza narrativa. Se si racconta che a qualcuno, per un grande dolore, i capelli sono diventati improvvisamente bianchi, non proviamo alcun piacere; anzi, siamo dispiaciuti per la palese falsità (Unwahrheit) della storia43. Se, per tutta risposta a questa menzogna, un “burlone” racconta di un mercante che perde tutto il suo avere e per il dolore la parrucca gli diventa grigia, godiamo e proviamo diletto. Ciò perché, secondo Kant, trattiamo l’idea che stiamo seguendo come una palla: la gettiamo di qua e di là, intenti solo a riacchiapparla44. Il significato della similitudine è che ci è impossibile mantenere la concatenazione dei pensieri nel suo corretto svolgimento perché il Witz ha la meglio sull’intelletto. Si osservi che in questi esempi la successione delle categorie è la stessa stabilita nell’Analitica del bello e si differenzia pertanto da quella della I Critica. L’aneddoto in questione compare già nell’Anthropologie Collins, cit., pp. 144-145. 43 Mette conto osservare che qui falso assume lo stesso significato di “assurdo” nel senso non tecnico del termine, ossia nel senso di “incredibile”. 44 L’esatta interpretazione filologica di questo passo piuttosto tormentato è ininfluente per gli scopi che qui mi propongo. Il motivo di fondo è già reperibile nell’Anthropologie Collins, cit., p. 145: “Si suscita il riso quando l’animo rimbalza come una palla”. Cfr. pure la contemporanea Anthropologie Parow, ibid., p. 347. 42 27 Il meccanismo ci è ormai noto: il burlone non ha fatto altro che scomporre i concetti e ricomporli in modo innovativo, attuando un’attribuzione predicativa illecita. E’ come se si svolgesse innanzi alla nostra mente una danza dei predicati, che obbliga alla sospensione del giudizio teoretico, che conduce cioè al conseguimento dello stato ottimale per il conseguimento del diletto. E’ ovvio che in questo specifico caso, l’assurdo in questione non è più l’irritante falso, ma l’impossibile nel senso logico e ontologico. Per una piena riuscita dell’effetto comico, si deve poi ipotizzare che la storiella arguta segua immediatamente il racconto menzognero, sicché dal loro contrasto emerga chiaramente la finezza logica del burlone e si consegua il risultato eticamente positivo di svergognare il bugiardo: il castigat ridendo mores si realizza sul piano individuale, anziché collettivo. Dal punto di vista categoriale, poiché si tratta della connessione soggetto-predicato, la classe di riferimento è ovviamente quella della relazione. Ma risulta evidente altresì che a giocare un ruolo fondamentale è nuovamente il principio analogico, in forza del quale si applica a due sostrati simili la stessa legge di trasformazione e si ottiene una clamoroso chiasmo predicativo. In qualche modo, proprio in virtù del reperimento del simile nel dissimile, la battuta del burlone costituisce la caricatura45 o la parodia del racconto soltanto presuntivamente serio del mentitore. Si conferma così quella che per Kant costituisce la vera essenza del comico: l’essere l’effetto psicofisico di una causa logica. Fra gli esempi kantiani non ve ne è nessuno che sia riportabile esclusivamente alla quarta classe di categorie, quella della modalità. Il motivo è assai semplice: l’assurdo nel senso logico di impossibile è necessariamente denominatore comune dei motti di spirito, delle trovate argute, delle barzellette, dei racconti umoristici, ecc.; in tutti questi casi abbiamo a che fare con un’attesa frustrata che si risolve nel nulla. Ora, l’assurdo si presenta sotto la specie, transitoria e facilmente riconoscibile come vana, dell’illusione (Schein): “E’ degno di nota che in tutti questi casi lo scherzo deve sempre contenere in sé qualcosa che per un momento possa illudere [täuschen]; perciò, quando l’illusione dilegua nel nulla, l’animo guarda di nuovo indietro per tentare ancora una volta con essa; e così, per un rapido alternarsi di tensione e distensione, è lanciato avanti e indietro ed è messo in oscillazione. Quest’ultima, poiché ciò che, per così dire, tendeva la corda viene meno d’improvviso (e non per un rilasciamento graduale), deve necessariamente causare un moto dell’animo e, in armonia con esso, un moto interno del corpo, che si prolunga involontariamente e produce affaticamento, ma al tempo stesso anche allegria (gli effetti di un moto favorevole alla salute)”46. Viene in tal modo adombrato un altro motivo potenzialmente assai fecondo dal punto di vista teoretico: quello della sostanziale vanità dello scherzo. Questa nuova modulazione del nulla 45 Sulla caricatura come espediente per catturare l’essenza della personalità del rappresentato mediante il procedimento dell’analogia cfr. T. Lipps, op. cit., p. 47. Più recentemente, la tesi è ripresa da E. Kris (op. cit., pp. 171, 186 e 194), che fa risalire la concezione analogica della caricatura alla cerchia di Gian Lorenzo Bernini. Sull’identità di struttura fra la vignetta e la battuta umoristica cfr. W. Preisendanz, op. cit., p. 36, n. 24. 28 sembra far inclinare Kant verso una forma di distaccata meditazione sulla condizione umana. In tale ambito, appare assai significativo l’apprezzamento per la tesi di Voltaire, secondo il quale speranza e sonno sono doni concessi all’uomo a compenso delle sue pene esistenziali. Ad essi, sostiene Kant, si potrebbe aggiungere il riso. Ma proprio a questo punto potrebbe farsi strada la pointe scettica: come la speranza può essere destinata a tramontare e il sonno è fonte di quella peculiare forma di illusione costituita dal sogno, così il riso nasce dallo smascheramento di un’illusione. Sennonché le tre forme di illusione svolgono, almeno nel contesto specifico qui in considerazione, un’opera catartica: la speranza aiuta a vivere, il sonno ristora dalle fatiche fisiche, il riso rilassa e dà benessere psicofisico. Risulta ora evidente la differenza radicale fra lo Schein di cui qui si discorre e lo Schein dialettico in cui la ragione incorre quando pretende di valicare i confini ad essa stabiliti. Lo Schein del Witz non è pericoloso per l’umanità e può tranquillamente coesistere con la verità, ossia con il mondo della nostra esperienza possibile in generale. Contrariamente a quell’altro Schein, che – una volta svelato – non può non dileguare, esso non svanisce alla scoperta della nullità di ciò che lo ha provocato e, proprio per questa ragione, si adatta benissimo ai limiti entro cui la conoscenza umana è rinserrata47. Attraverso l’illusione quasi estetica del comico traspare la volontà di evasione del soggetto, il quale sa comunque riconoscere le forme dell’assurdo e, proprio attraverso questo riconoscimento, assume coscienza della propria vocazione ludica, ossia della propria vocazione a mettere liberamente in moto le proprie facoltà, a danzare con il pensiero. Proprio perché il comico consente all’uomo di elevarsi al di sopra di se stesso, di prendersi gioco della propria inclinazione all’assurdo, il risultato cui esso conduce è quello stesso “star bene della coscienza” che, secondo lo Hegel della Phänomenologie, accompagna la dissoluzione della “religione artistica” dei Greci. La scarica liberatoria che accompagna la trovata arguta ha, proprio per questa funzione rasserenante dell’illusione, maggior valore di quel “talento di inventare cose che spaccano la testa, come fanno i fantasticatori mistici, che spaccano il collo, come fa il genio, o che spaccano il cuore, come fanno i romanzieri sentimentali (e anche i moralisti di tal sorta)” 48. KU 334 (it. 196). O. Rommel sottolinea non a torto l’analogia fra la descrizione kantiana dei processi psicofisiologici che accompagnano il riso ed il fenomeno del solletico (cfr. Die wissenschaftlichen Bemühungen um die Analyse des Komischen, in “Deutsche Vierteljahresschrift für Literaturwissenschaft”, 1943, p. 165. 47 Sul carattere positivo dell’illusione (illusio) estetica contrapposta all’“inganno” (Betrug, fraus), cfr. KU, § 53, 326-327 (it. 188), ove si dice che la poesia produce Schein, ma non inganna, e soprattutto ApH, § 13,149-150 (it. 3334): “Illusione è quell’apparenza ingannevole [Blendwerk] che rimane anche se si sa che il presunto oggetto non è reale. – Questo gioco dell’animo con l’apparenza sensoriale è molto gradevole e divertente, come per es. il disegno in prospettiva dell’interno di un tempio, o, come Raphael Mengs dice del dipinto della Scuola dei Peripatetici (del Correggio, mi pare) ‘che, quando li si guarda a lungo, sembrano camminare’, o come una scala dipinta con una porta semiaperta nel palazzo municipale di Amsterdam invita a salirla, e simili. Inganno dei sensi si ha invece quando, appena si sa come stanno le cose con l’oggetto, anche l’apparenza subito cessa. Di tale specie sono i giochi di prestigio di qualsiasi genere”. La distinzione fra illusio e fraus è già ampiamente abbozzata nel testo latino del 1777 tradotto in appendice alla presente raccolta e trova riscontri in altri luoghi dell’opera di Kant (cfr. in proposito la mia nota introduttiva). 48 KU 334 (it. 197). 46 29 E’ preferibile dunque l’originalità del Witz, sebbene esso sia inassimilabile al gusto, piuttosto che il cedimento ad una delle forme di Schwärmerei che Kant evoca qui ironicamente e due delle quali hanno un bersaglio preciso e facilmente individuabile: Herder49. In questa stessa direzione vanno le considerazioni di Kant intorno al riso suscitato in società dall’ingenuo. Due correnti, in cui si uniscono attitudine etica e inclinazione psicologica, convergono a costituire l’atteggiamento tenuto dai suoi simili nei confronti di colui che non abbia imparato l’arte della finzione: il rispetto per la sincerità naturale e spontanea; la tenerezza mista a compassione per l’incapacità di stare alle regole che governano i giochi sociali50. Ne scaturisce una bonaria burla, un “riso cordiale”, cui la stessa vittima può unirsi. La conclusione è conforme all’andamento di tutta la trattazione del § 54, ossia ottimistica: un tale esito felice rafforza i legami sociali, e il riso si trasforma in istanza comunitaria, in modo tale da rispondere perfettamente a quell’esigenza di apertura intersoggettiva, di umana simpatia, che costituisce uno dei motivi dominanti della Critica del Giudizio estetico51. Non solo dunque, come il geloi=on di Aristotele, il comico kantiano non provoca con il suo “errore” né dolore né danno, perché l’assurdo vi si presenta sotto il suo aspetto positivo, ma favorisce addirittura lo sviluppo armonico della comunità: come nel caso del giudizio di gusto, essa si raccoglie nell’ascolto della vox universalis del “senso comune” estetico, così ora si dispone ad ascoltare l’appello alla condivisione del buon umore, che è la condizione psichica propria di una situazione in cui burlone e burlato ridono allegramente insieme e si riconoscono reciprocamente su di un piano di parità. In tal modo, Kant prende – e non inconsapevolmente – posizione in favore della superiorità dello humour nei confronti degli aspetti più popolari e più facili del comico. 49 L’icastica immagine degli scritti che spaccano la testa, il cuore o il collo è già presente, con esplicito riferimento a Herder, in una serie di frammenti probabilmente risalenti alla fine degli anni ’70: cfr. le Refl. nn. 910-914, in Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., pp. 398-400. Per quanto concerne in particolare la critica al concetto herderiano di genio, cfr. il § 47 di KU, ove – in perfetta corrispondenza con l’immagine del § 54 – Kant paragona il rifiuto delle regole in nome della libera espressione della creatività alla pretesa di cavalcare un cavallo imbizzarrito. 50 Cfr. KU 335 (it. 197-198). E’ lecito congetturare che Kant abbia qui in mente un modello letterario piuttosto che un esempio concreto. Da un punto di vista più generale, il tema del riso come sanzione sociale nei confronti dell’“insocievolezza” è ripreso da Bergson (op. cit., p. 453; trad. it., p. 91) come versione aggiornata del motto castigat ridendo mores. 51 Non è superfluo ricordare che il cuore del § 60, l’ultimo della prima parte di KU, è costituito dalla vera e propria celebrazione della humanitas, fondata sul sentimento della simpatia e sull’attitudine all’apertura comunitaria. 30 II IL COLORE: QUASI UNA TEORIA Nel complesso della produzione teoretica ed estetica di Kant quello dello statuto gnoseologico, epistemologico ed ontologico del colore costituisce indubbiamente un problema limitato e marginale, tanto che esso è stato fortemente trascurato dalla letteratura critica, non solo da quella di primaria importanza storico-teoretica e filologica e da quella volta ad indagare le grandi unità tematiche, ma anche da quella dedita a valorizzare gli argomenti minori e le rarità. Tuttavia, ad onta dell’occasionalità e della frammentarietà delle riflessioni kantiane, un’analisi puntuale dei testi consente non solo di ricostruire i loro referenti storici – tanto filosofici quanto scientifici – e il rapporto fra talune considerazioni estetiche della III Critica e la teoria della percezione della I Critica, ma anche di rintracciare spunti teoretici che vanno al di là della pura e semplice ripresa e rielaborazione di temi lockiani o berkeleyani, al di là di un certo classicismo e di un certo aristotelismo di maniera dominanti in ambito estetico, al di là del superficiale riecheggiamento di acquisizioni scientifiche ormai consolidate, la cui messa in discussione “speculativa” da parte delle generazioni immediatamente successive condusse per altro ad esiti per nulla disprezzabili e risibili sul piano logico, psicologico e fenomenologico1. In questa prospettiva di ricerca, le modifiche apportate nel passaggio dalla I alla II ed. della I Critica, i diversi punti di vista da cui i fenomeni cromatici sono considerati nell’Estetica trascendentale e nell’Analitica trascendentale, le vistose oscillazioni reperibili all’interno della III Critica valgono per il lettore come segno della tortuosità del cammino percorso da Kant e della direzione verso cui le sue riflessioni sul colore, pur non costituendosi mai in teoria organica, si andarono orientando, in parallelo con il progressivo e faticoso mutamento di indirizzo che la filosofia trascendentale nel suo complesso subì e con le sempre maggiori difficoltà che si andarono accumulando proprio allorché egli pensava di aver finalmente ultimato l’edificazione del “sistema critico”. 1- Il colore come problema psicofisiologico. 1 Penso non solo a Goethe, ma anche alle interessanti osservazioni di P.O. Runge sui contrasti cromatici, la cui eco è riscontrabile ancora in Wittgenstein. Sulle teorie romantiche del colore e sulla polemica di Goethe, Hegel e Schopenhauer contro Newton cfr. M. Élie, Lumière, couleurs et nature. L’Optique et la physique de Goethe et de la “Naturphilosophie”, Vrin, Paris 1993. Pr quanto concerne in particolare la posizione goethiana, cfr. pure i seguenti saggi di R. Troncon: Goethe e la filosofia del colore, in appendice a J.W. Goethe, La teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano 1993, pp. 220-256; Perché una storia del colore, in J.W. Goethe, La storia dei colori, Luni, Milano-Trento 1997, pp. 13-44. 31 Già negli scritti precritici si incontrano sporadici riferimenti alla composizione dello spettro cromatico2, all’azione psicologica esercitata dal colore nell’ambito della critica ad una concezione antropocentrica della teleologia3, al suo valore di simbolo nel quadro dell’osservazione fenomenologico-empirica dei temperamenti e delle loro qualità estetiche4. Tuttavia, per trovare qualcosa di veramente interessante dal punto di vista filosofico, occorre giungere alla I ed. della I Critica. In un primo momento, nell’introduzione all’Estetica trascendentale (corrispondente al § 1 della II ed.), la risposta alla domanda “che cosa è il colore?” si inscrive nel quadro del tentativo di classificare con precisione le qualità dei corpi. Con l’attenzione rivolta in particolare alla distinzione di Locke fra qualità primarie e secondarie, ma senza menzionare mai l’importante predecessore5, Kant introduce una tripartizione che interseca in più punti la sua tassonomia e la cui ispirazione prima si può far risalire fino a Cartesio6. In primo luogo, vi sono le qualità pensate dall’intelletto, ossia le proprietà ontologiche e fisico-matematiche di un corpo: sostanza, forza, divisibilità, ecc. Si tratta di ciò che è più facilmente riconducibile alle categorie e che caratterizza il corpo nella sua azione e reazione, nella sua attitudine a divenire oggetto della scienza sperimentale. In secondo luogo, vi sono le qualità che appartengono alla sensazione: impenetrabilità, durezza, 2 Cfr. Geschichte und Naturbeschreibung der merkwürdigsten Vorfälle des Erdbebens, welches an dem Ende des 1755sten Jahres einen grossen Teil der Erde erschüttert hat, in Kants Werke, cit., Bd. I, p. 458: i cangiamenti del colore del cielo prima di uno sconvolgimento tellurico sarebbero dovuti all’attraversamento di una serie di vapori atmosferici da parte della luce. 3 Cfr. Der einzig mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, ibid., Bd. II, p. 136 (trad. it. in I. Kant, Scritti precritici, cit., p. 180). L’attribuzione al verde di boschi e campi di una “forza media” in grado di mantenere in “moderato esercizio” l’occhio dell’osservatore non è nulla più che un riecheggiamento della concezione tradizionale: al verde veniva assegnata un’appagante funzione di riposo anche in considerazione del fatto che nell’arcobaleno (così come nello spettro cromatico di Newton) esso occupa la posizione intermedia. Come si vedrà, il verde campestre è indicato paradigmaticamente come fonte di un’impressione gradevole anche in KU. 4 Cfr. Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, cit., p. 213 (trad. it., p. 299): il colore bruno e gli occhi neri sono affini al sublime, gli occhi azzurri e il biondo al bello. Cfr. inoltre pp. 236-237 (trad. it., p. 324): il colorito sano, ma pallido, accompagna un sentire intimo e delicato ed inclina al sublime; un colorito roseo e fiorente annuncia un temperamento allegro e vivace. Come si può constatare, Kant mescola continuamente - in conformità per altro con l’orientamento generale dell’operetta - considerazioni di carattere estetico e psicologico-morale che anticipano in qualche misura le incipienti riflessioni di KU sul linguaggio dei colori e su quella che, con un’espressione di Goethe, potremmo chiamare la loro “azione sensibile-morale”. 5 Come si vedrà, l’unico riferimento esplicito a Locke compare nell’Osservazione II al § 13 dei Prol. Come è noto, Locke aggiungeva una terza specie di qualità, originate dall’effetto di una fonte di energia sugli oggetti. E’ comunque opportuno osservare con A.D. Smith (Of Primary and Secondary Qualities, in “The Philosophical Review”, 1990, pp. 236-237) che in realtà Locke non presenta propriamente i colori, i suoni, i sapori come qualità secondarie, ma come sensazioni (o idee) prodotte dalle qualità presenti nei corpi. (cfr. Essay concerning Human Understanding, L. II, cap. VIII, § 10). Di conseguenza, Kant gli sarebbe qui più fedele di quanto egli stesso sarebbe stato disposto a concedere. Naturalmente all’origine della discussione sta la concezione aristotelica dei colori come pa/qh o paqhtikai\ poio/thtej: in quanto tali, secondo un’acquisizione logica ed ontologica risalente ad Anassagora, essi sono ta\ sumbebhko/ta a)xw/rista th=j ou)si=aj. Su questo punto è ancor oggi valida l’accurata ricostruzione storicofilologica di K. Prantl, Übersicht der Farbenlehre der Alten, in Aristotele (Pseudo-), Über die Farben, Scientia Verlag, Aalen 1978 [Neudruck der Ausgabe München 1849], pp. 59 e 87-89. I luoghi principali sono: Anassagora, Diels fr. A 53; Aristotele, Categoriae, 8, 9 a 28 sgg; Physica, I, 4, 188 a 7 sgg.; Metaphysica, i, 9, 1058 a 34 sgg. e 1058 b 36 sgg. Un altra eredità della tradizione reperibile in Kant è la tesi di KU, § 58, 347 (it. 211) secondo cui la varietà e l’armonica disposizione dei colori sono un fenomeno di superficie: secondo la testimonianza di Aristotele (De sensu et sensibilibus, 3, 439 a 30), già i Pitagorici lo sostenevano (cfr. K. Prantl, ibid., pp.31-32). 6 Cfr. KrV A 30/B 50 (it. 66). 32 colore, ecc. Ha un mero interesse storiografico notare che qui appaiono inserite in una stessa classe qualità che in Locke sono distribuite fra classi diverse (il che per altro conduce Kant più vicino alla posizione di Cartesio da un lato e di Berkeley e Hume dall’altro) 7; il fatto di interesse teoretico è piuttosto che, mediante l’inserzione del colore fra le “qualità secondarie”, si ha – almeno fino ad un certo punto – una soggettivizzazione dei dati empirici conforme alla tradizione gnoseologistica, ma sicuramente non congruente con i risultati cui era pervenuta la scienza fisica fin dall’esperimento newtoniano del prisma. Da un lato, pur abbracciando la tesi cartesiano-lockiana secondo cui il colore è inessenziale per comprendere la natura dei corpi e non un loro predicato cognitivamente inseparabile, Kant non lo riduce ad un più o meno occulto “potere” di modificazione del soggetto (o degli oggetti, tale da produrre a sua volta una modificazione nel soggetto)8. Dall’altro lato, egli non considera affatto i colori come il risultato della scomposizione della luce, e dunque come qualcosa di oggettivamente pertinente ad una sostanza e di sperimentalmente accertabile. Optando per una soluzione diversa da quella di Locke e da quella di Newton, Kant elimina la connessione indissolubile fra teoria del colore e problema della predicazione logica, e preferisce – conformemente per altro all’impostazione psicologistica della I ed. della Critica – considerare l’attribuzione del colore ad un corpo come un dato soggettivo a posteriori. In terzo luogo, vi è ciò che rimane come residuo una volta tolto quanto spetta all’intelletto e alla sensazione e che è di pertinenza dell’intuizione pura a priori: l’estensione e la figura (Gestalt), che in Locke sono invece qualità primarie e, in quanto tali, proprietà essenziali (= analitiche) della materia. Il primato del pattern spaziale sulle vecchie “qualità secondarie” non può ovviamente stupire, considerato il carattere di condizione a priori necessaria conferito da Kant allo spazio e l’analogia funzionale sussistente fra forma come principio ordinatore a priori e forma come ordine strutturale delle parti9. In tal modo, la teoria del colore come epifenomeno, che verrà successivamente ribadita da Kant, costituisce un capitolo importante della distinzione forma-materia e una precisa presa di posizione Kant è più vicino a Cartesio nell’attribuire all’estensione (anche se non ad essa soltanto) un ruolo privilegiato; a Berkeley e a Hume nel sottoporre a revisione (anche se non a sopprimere radicalmente) la distinzione lockiana fra qualità primarie e secondarie. 8 Sul concetto di power cfr. J. Locke, Essay, cit., L. II, cap. VIII, §§ 10 e 24. In realtà, sebbene sia pressoché inevitabile essere indotti a correlare la struttura ipotetica di Locke con le virtutes scolastiche, nulla vieta di scorgervi un’anticipazione di più recenti teorie fisiche, secondo le quali il colore di una superficie è il prodotto del potere di assorbimento delle radiazioni luminose dipendente dalla sua composizione molecolare. 9 Per contro, Berkeley, riducendo tutti i predicati a qualità secondarie, annulla la gerarchia, ad un tempo gnoseologica ed ontologica, da essi costituita e pone sullo stesso piano figura e colore. Sulla sua scia Hume dichiarerà che figura e colore sono “una stessa ed indistinguibile cosa” e suggerirà che non è possibile istituire una scala gerarchica dell’importanza dei predicati (Treatise on Human Nature, L. I, P. I, sez. VII, in Philosophical Works, vol. I, London 1886 [Reprinted by Scientia Verlag, Aalen 1964], pp. 332-333; trad. it. di A. Carlini, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 37-38). Per una ricostruzione dei caratteri epistemologici e gnoseologici dell’ottica berkeleyana, cfr. P. Spinicci, Indicazioni di lettura del “Saggio per una nuova teoria della visione” di Berkeley, in G. Berkeley, Un saggio per una nuova teoria della visione, Guerini, Milano 1995, pp. 9-35. Ivi (pp. 18-19) pure interessanti cenni alle implicanze estetiche della tesi dell’inseparabilità di figura e colore: poiché Berkeley era particolarmente attento alla resa cromatica della prospettiva, la sua posizione risulta meno tradizionale di quella di Kant. 7 33 di carattere ontologico, giacché riconduce il colore nell’ambito della teoria della percezione e pertanto lo rende oggetto di esclusivo interesse psicofisiologico, prescindendo dalla sua rilevanza espistemica. La tendenza è confermata alla fine della I sez. dell’Estetica trascendentale, allorché Kant fissa la differenza fra lo spazio come rappresentazione soggettiva a priori, ossia come condizione indispensabile perché le cose diventino oggetto dei sensi, e le rappresentazioni come mere sensazioni, e dunque soggettive a posteriori: “Non c’è però, all’infuori dello spazio, nessun’altra rappresentazione soggettiva riferentesi a qualcosa di esterno che si possa chiamare a priori oggettiva; perciò questa condizione soggettiva di tutti i fenomenio esterni non può essere paragonata con nessun’altra. Il buon sapore di un vino non appartiene alle determinazioni oggettive del vino, e perciò di un oggetto, sia pure considerato come fenomeno, ma alla particolare costituzione del senso nel soggetto che lo gusta. I colori non sono qualità dei corpi alla cui intuizione ineriscono, ma soltanto modificazioni del senso della vista, che è impressionata dalla luce in un certo modo. Per contro, lo spazio, in quanto condizione degli oggetti esterni, appartiene necessariamente al loro fenomeno o intuizione. Gusto e colori non sono affatto condizioni necessarie sotto le quali soltanto le cose possano diventare per noi oggetti dei sensi. Essi sono connessi con il fenomeno soltanto come effetti aggiuntisi accidentalmente della nostra particolare organizzazione. Perciò essi non sono neppure rappresentazioni a priori, ma sono fondati su una sensazione [Empfindung], e il buon sapore addirittura su un sentimento [Gefühl] (di piacere e dispiacere) come effetto della sensazione. E nemmeno può nessuno avere a priori né una rappresentazione di un colore né di un qualsivoglia sapore; lo spazio invece concerne solo la forma pura dell’intuizione, non racchiude dunque in sé alcuna sensazione (nulla di empirico), e tutti i modi e le determinazioni dello spazio possono, anzi non possono non, essere rappresentati a priori, se debbono scaturirne tanto i concetti delle figure [Gestalten] quanto i loro rapporti. Soltanto tramite lo spazio è possibile che le cose siano per noi oggetti esterni. L’intento di questa osservazione è solo di impedire che passi per la mente di spiegare l’asserita idealità dello spazio con esempi di gran lunga inadeguati, poiché per es. colori, sapore, ecc. sono considerati a ragione non come qualità delle cose, ma semplicemente come modificazioni del nostro soggetto, che possono anzi essere diverse in uomini diversi. Infatti in questo caso ciò che è originariamente esso stesso soltanto fenomeno, per es. una rosa, vale in senso empirico come cosa in sé, che tuttavia può apparire diversamente a ciascun occhio per quanto concerne il colore. Per contro, il concetto trascendentale dei fenomeni nello spazio è un monito critico, per ricordare che in generale niente di ciò che è intuito nello spazio è una cosa in sé e che lo spazio non è una forma delle cose che sia magari propria di esse in se stesse, ma che gli oggetti in sé non ci sono affatto noti, e ciò che chiamiamo oggetti esterni non sono altro che semplici rappresentazioni della nostra sensibilità, la cui forma è lo spazio, ma il cui vero correlato, cioè la cosa in se stessa, non viene in questo modo affatto conosciuta né può esserlo, e per altro nell’esperienza non è mai in questione” 10. Mentre in precedenza l’obiettivo era sostanzialmente quello di respingere una vecchia e non più adeguata classificazione, Kant introduce ora la sua nuova proposta teoretica: si tratta di contrapporre una delle condizioni cui necessariamente le cose diventano oggetti cognitivi (lo spazio) ad accidenti meramente soggettivi, che sono tali da non incidere sulla costruzione teoretica dell’oggetto e che comunque sono di pertinenza di una teoria empirica della percezione11. Anzi: tanto poco l’oggetto esperienziale dipende dalle modificazioni sensoriali, che un semplice 10 KrV A 34-35 (it. 73-74). Nel suo Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft (Scientia Verlag, Aalen 1970 [Neudruck der 2. Auflage, Stuttgart 1922], Bd. 2, p. 356, n. 1) H. Vaihinger riporta la diversa posizione di Reimarus, secondo il quale anche i colori sarebbero forme necessarie delle rappresentazioni visive, e di Schopenhauer, secondo il quale i colori sono conosciuti anche a priori. Sull’aposteriorità di fenomeni psicofisiologici quali la profondità di campo, la focalizzazione, ecc., cfr. P. Rohs, Transzendentale Ästhetik, Hain, Meisenheim/G. 1973, p. 74. 11 34 fenomeno, come lo è una rosa percepita, assume nei confronti del colore (e delle altre sensazioni o “qualità secondarie”) il valore di una cosa in sé “in senso empirico”, ossia indipendente non dai sensi, ma dalle modificazioni meramente soggettive ed accidentali dei sensi. S’intende da sé che una rosa può apparirmi come tale anche a prescindere dal suo colore naturale, dal suo profumo e da altri predicati sensoriali (per es. quando ne osservo una riproduzione in bianco e nero). Occorre tuttavia aggiungere che, perché io possa riconoscerla come una rosa, non è evidentemente sufficiente il solo spazio: oltre ad esso, dovranno intervenire altre condizioni, che appartengono anch’esse necessariamente alla sensazione, giacché è quest’ultima ad offrire il dato che consente la costruzione degli oggetti cognitivi. Avremo dunque rappresentazioni sensoriali necessarie (per così dire: “oggettive”) e non necessarie (per così dire: “soggettive”). Non è indispensabile pensare che fra le prime siano da annoverare l’impenetrabilità, la durezza, la pesantezza (ossia la materialità in senso proprio)12, perché – come si è appena rilevato – anche queste qualità da taluni considerate primarie sono assenti dall’immagine di un oggetto, così come essa mi si manifesta in una riproduzione che – dal punto di vista kantiano – non è la rappresentazione soggettiva di una rappresentazione oggettiva, ma è pur sempre la rappresentazione soggettiva primaria dell’oggetto. Davvero indispensabili alla costruzione dell’oggetto cognitivo sono invece l’estensione e la figura, ossia quei predicati che – come si è visto – sono per Kant di pertinenza dell’“intuizione pura”. Se mutamento di prospettiva vi è rispetto a quanto è emerso dall’analisi delle prime battute dell’Estetica trascendentale, esso non concerne il passaggio di alcuni predicati dal lato soggettivo al lato oggettivo della sensazione, ma l’ascrizione alla sensazione di predicati che in precedenza venivano sic et simpliciter collocati dal lato dell’intuizione a priori. D’altro canto, i predicati “soggettivi” sono gerarchicamente subordinati a quelli “oggettivi” per il fatto che questi ultimi consentirebbero meglio la costruzione degli oggetti cognitivi. Tale tendenza è confermata nella II ed., ove il primo capoverso del passo poc’anzi citato appare così rimaneggiato: “Non c’è però, all’infuori dello spazio, nessun’altra rappresentazione soggettiva riferentesi a qualcosa di esterno che si possa chiamare a priori oggettiva. Infatti da nessuna di esse si possono derivare proposizioni sintetiche a priori, come dall’intuizione nello spazio (§ 3). Perciò ad esse, per parlare propriamente, non spetta nessuna idealità, sebbene concordino con la rappresentazione dello spazio nel fatto che appartengono soltanto alla disposizione soggettiva del modo di sentire, per es. della vista, dell’udito, del tatto tramite le sensazioni dei colori, dei suoni e del calore; ma queste, poiché sono semplici sensazioni e non intuizioni, non fanno conoscere in sé nessun oggetto, tanto meno a priori” 13. Quando afferma che colori, suoni e calore non fanno conoscere alcun oggetto in sé, Kant non si sta affatto riferendo all’alto grado di raffinatezza concettuale necessario per conseguire la 12 E’ questa la tesi di Vaihinger, op. cit., p. 362. Si rivelerebbe in tal modo una radicale contraddizione con il passo di KrV A p. 30 in precedenza discusso. L’obiezione poggia però su un equivoco: Kant non afferma affatto che Locke ha distinto a ragione fra qualità primarie e secondarie, ma che a ragione i colori e il gusto sono stati considerati come modificazioni soggettive. 35 conoscenza scientifica14, ma al riconoscimento percettivo delle cose nel loro darsi come patterns configurazionali, al loro divenire cioè – come si afferma nel capoverso della I ed. sostituito nella II – “oggetti dei sensi”: è questo tipo di oggetto a porsi come cosa in sé “in senso empirico” nei confronti delle sensazioni. Da questo punto di vista, tutte le sensazioni meramente soggettive hanno pari dignità. Semmai, e limitatamente alla I ed., la gerarchia si stabilisce fra sensazione (Empfindung) e sentimento (Gefühl) di piacere e dispiacere: con un’osservazione di netta impronta psicologica, Kant ammette che ci sono casi in cui la prima causa il secondo. Il riferimento esplicito è al gusto, ma si potrebbe estendere l’effetto gradevole o sgradevole anche al tatto, all’udito e all’odorato; per quanto concerne invece la sensazione visiva del colore, sembrerebbe escluso che essa possa procurare una reazione psicofisica di piacere o dispiacere 15. Il risultato ontologico di questa precisazione è chiaro: Kant rifiuta di concepire la cosa come somma dei suoi predicati o come collezione di qualità. Un conto è infatti parlare di condizioni necessarie della trasformazione delle cose in oggetti sensoriali, un altro è parlare di analiticità del rapporto soggetto-predicato. D’altro canto, proprio per il contesto in cui essa si situa, non ci si può sottrarre alla tentazione di considerare la tesi della I ed. come un’obiezione alla teoria dei colori di Newton. Se infatti i colori non sono null’altro che “modificazioni del senso della vista, che è impressionata dalla luce in un certo modo”, la luce non può più essere considerata come somma dei colori dello spettro, perché questi non sono più qualcosa di oggettivamente rilevabile in una sostanza, e dunque oggetto della fisica16; essi sono piuttosto di esclusiva pertinenza della psicologia della percezione. Si può ipotizzare che per questo motivo, per sottrarsi alla difficoltà di dover spiegare come sia possibile che i colori siano da una parte il risultato di un processo naturale oggettivo e controllabile sperimentalmente e dall’altra il risultato di una mera sensazione idiosincratica, il riferimento alla luce sia scomparso nella revisione cui Kant ha sottoposto il passo nella II ed.? La risposta potrebbe 13 KrV B 56 (it. 73). Così sembra ritenere invece Vaihinger (op. cit., p. 360), collegando con questo rifacimento di KrV B un passo dei Fortschritte der Metaphysik in cui Kant afferma che colori, suoni e acidità “rimangono meramente soggettivi e non esibiscono alcuna conoscenza dell’oggetto, e perciò nessuna rappresentazione valida per tutti nell’intuizione empirica” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XX, De Gruyter, Berlin 1942, pp. 268-269; trad. it. a cura di P. Manganaro, Bibliopolis, Napoli 1977, p. 76). 15 In considerazione di ciò, si potrebbe essere tentati di ipotizzare che la scomparsa in KrV B della distinzione sensazione-sentimento sia stata motivata dall’esigenza di enucleare l’elemento comune a tutte le sensazioni, siano esse visive, tattili, gustative, ecc., prescindendo da ciò che le differenzia. Non si può però ignorare che la revisione di KrV B coincide pure con la fase della ricerca dei principi a priori del gusto, ossia con la formazione di KU, e dunque non solo con un rinnovato modo di guardare i rapporti fra le diverse sensazioni, ma soprattutto con la meditazione che condurrà Kant ad elevare il “sentimento di piacere e dispiacere” a “facoltà dell’animo” accanto a quella di conoscere e a quella di desiderare. Né si può ignorare che, come si vedrà in seguito, nel § 3 di KU Kant distingue, nel seno stesso della percezione cromatica, un’esperienza valida a fini oggettivi (che chiama “sensazione”) da un’esperienza valida a fini soggettivi (che chiama “sentimento”). 16 La luce è per Newton sostanza, allo stesso modo in cui lo è lo spazio che essa attraversa. In generale, in quanto - come si è visto anche in precedenza - Kant rinuncia a ricondurre la teoria dei colori alla fisica, si può con buon diritto affermare che la sua posizione è lontana non solo dalla teoria corpuscolare di Newton, ma anche da quella 14 36 essere positiva, qualora ci si limitasse a porre l’attenzione sul fatto che il rimando al § 3 della stessa Estetica trascendentale contenuto nella versione rimaneggiata allude soltanto alle proposizioni sintetiche a priori della geometria17, che poggiano sull’intuizione pura dello spazio. In realtà, però, a ben considerare le cose, non c’è una vera e propria contraddizione fra le due edizioni: la luce è fenomeno spaziale18, esattamente come le figure geometriche e i corpi in generale, e proprio sfruttando le caratteristiche spaziali del raggio luminoso (ossia la legge della rifrazione) Newton poté condurre il suo risolutivo esperimento scientifico. La posizione della luce sembrerebbe in sostanza essere la stessa di quella della rosa: nei confronti dei colori, che sono soltanto accessori, essa è “cosa in sé in senso empirico” alla quale inerisce come predicato essenziale solo la spazialità. Il che salva la sua sostanzialità fenomenica (ed evita altresì a Kant di dover ammettere un monstrum teoretico come l’analiticità dei predicati sensoriali), ma – in prospettiva newtoniana – ne sacrifica la struttura ontologica di compositum. Se vista da questa angolazione, la correzione apportata nella II ed. appare certamente tale da rafforzare, anche se indipendentemente dalle intenzioni kantiane, la tesi dell’inevitabilità della riconduzione della fisica alla geometria e conferma il progressivo abbandono della concezione psicologista della I ed., ma non elimina affatto la commistione originaria fra epistemologia e gnoseologia, giacché le leggi scientifiche sono comunque fondate sull’attività sintetica dell’intelletto. Un ultimo punto resta da chiarire. Affermando nella I ed. della Critica che i colori sono modificazioni della vista impressionata dalla luce, Kant ammette implicitamente la tesi che la luce possegga la capacità (o il potere) di suscitare una sensazione. Il che ci riporta immediatamente alla definizione lockiana delle qualità secondarie19. Tale nesso è per altro testimoniato dall’unico passaggio fra quelli dedicati al problema delle sensazioni soggettive in cui il riferimento a Locke sia esplicito. Nei Prolegomena20, dopo aver ribadito di aver ricondotto alla loro essenza di fenomeni non solo le “qualità secondarie”, ma anche le “qualità primarie” (dopo aver dunque espresso una ondulatoria di Huygens, al cui sviluppo da parte di Eulero farà esplicito riferimento in KU all’interno di una cornice teoretica in progressiva trasformazione. 17 Lo si può dunque affiancare al passo di KrV B 470 (it. 552) in cui Kant afferma che posso rendere intuitiva mediante concetti una figura geometrica, ma non il suo colore, perché esso deve essere precedentemente dato in un’esperienza, ossia esibito in un’intuizione empirica. Per dirla in termini moderni, esso è dunque considerato da Kant come un “predicato logicamente primitivo”. 18 Il fatto che, in questa fase, Kant prescinda totalmente dalla temporalità della propagazione della luce nello spazio può essere spiegato con il fatto che il problema del colore rientra tutto nell’ambito della teoria della percezione degli oggetti esterni. E’ evidente che una considerazione epistemologica imporrebbe tutt’altra impostazione. 19 Secondo Vaihinger (op. cit., p. 363), Kant avrebbe modificato il passo in questione a causa delle difficoltà postegli dal carattere ibrido assunto dalla luce: da un lato, essa è necessariamente fenomeno (come tutte le cose spaziotemporali); dall’altro è qualcosa di reale, in grado di impressionare i sensi. Sennonché Vaihinger sembra dimenticare che ibrida fonte di un’“affezione ominosa dei sensi” è anche la rosa, il cui caso paradigmatico è conservato in KrV B, e, più in generale, che i fenomeni sono in Kant realissimi. In KrV B non si avrebbe dunque più una distinzione fra realtà, ma conoscitiva fra valore oggettivo dello spazio e valore soggettivo delle qualità sensoriali (ibid., p.364). Sennonché si può obiettare che tale distinzione è a fondamento anche del passo di KrV A sostituito da Kant. 20 Cfr. Prol., pp. 289-290 (trad. it., pp. 83-84). 37 preferenza per la soluzione di Berkeley rispetto a quella di Locke) 21, Kant – con un’affermazione vicinissima a quella della I ed. della Critica – sostiene che i colori non sono “proprietà inerenti all’oggetto in se stesso” (ossia predicati analitici delle cose), ma “inerenti solo al senso della vista come modificazioni”. Così termina poi la sua appassionata difesa contro l’accusa di idealismo mossagli dai critici che hanno assimilato la sua posizione a quella di Berkeley: “Vorrei proprio sapere come dovrebbero essere fatte le mie affermazioni per non contenere un idealismo. Senza dubbio dovrei dire che la rappresentazione dello spazio non solo è perfettamente conforme ai rapporti che la nostra sensibilità ha con gli oggetti (perché questo l’ho detto), ma che essa è addirittura affatto simile all’oggetto; un’affermazione cui non riesco ad annettere un senso più che a quella che dicesse che la sensazione del rosso ha una somiglianza con la proprietà del cinabro che suscita in me tale sensazione”. Tale adesione kantiana alla soluzione di Locke22 costituisce indubbiamente un tentativo di risolvere lo spinoso problema teoretico-conoscitivo della relazione fra causa fenomenica ed effetto psicofisiologico; più in generale: della relazione fra oggetto e soggetto. In tal modo, Kant è in grado di evitare sia la tesi della corrispondenza punto per punto fra esterno e interno sia la tesi, ancora più arcaica, del trasferimento materiale mediante il canale sensoriale dall’oggetto percepito al soggetto percipiente. L’obiettivo, comunque, non è certamente stabilire cosa in realtà accada nel nostro sistema percettivo, quali meccanismi psicofisiologici vi vengano attivati sul piano empirico al momento della sensazione; è piuttosto mostrare come l’accusa di idealismo à la Berkeley mossa alla I ed. della Critica nella famosa recensione di Garve-Feder che irritò oltre misura Kant presupponga un’erronea teoria della verità come corrispondenza biunivoca fra interno ed esterno. Anche per questo motivo, inter alia, rielaborando il passo sulla distinzione fra intuizione e sensazione nella II ed. della Critica, Kant insiste in modo particolarmente incisivo sulla differenza fra carattere e funzione oggettivi della rappresentazione dello spazio e carattere e funzione meramente soggettivi delle sensazioni. D’altro canto, rinunciando a trattare la teoria dei colori come un capitolo dell’ottica, Kant può tranquillamente prescindere dal problema della sua fondazione trascendentale: non si dà legittimazione teoretica a priori di ciò che costituisce un mero gioco dei sensi, attivato dalla presenza di un medio di tipo fisico come la luce. La condizione davvero necessaria per fondare filosoficamente la conoscenza (e dunque anche quella scientifica della Fra le qualità cosiddette primarie Kant annovera qui: “l’estensione, il luogo [Ort] e in generale lo spazio con tutto ciò che ad esso inerisce (impenetrabilità, materialità, figura)”. 22 Cfr. J. Locke, Essay, cit., § 15 (in Works, vol. I, London 1823 [Reprinted by Scientia Verlag, Aalen 1963]; trad. it. di C. Pellizzi, Laterza, Bari 1972, p. 53): “... le idee prodotte in noi da queste qualità secondarie non hanno alcuna somiglianza con esse. Nei corpi stessi non esiste nulla di simile alle nostre idee. Nei corpi che denominiamo muovendo da esse c’è solo un potere di produrre in noi quelle sensazioni; e ciò che è dolce, blu o caldo nell’idea non è altro che una certa grandezza, figura e movimento delle particelle insensibili nei corpi stessi che noi chiamiamo così”. Sulle affinità fra la concezione di Kant e quella di Locke cfr. H. Putnam, Reason, Truth and History, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1985, pp. 66 e 71. 21 38 natura) sono le intuizioni pure a priori; tutto il resto costituisce l’aspetto accessorio, per così dire ornamentale, del programma “fenomenologico” di Kant23. 2- Percezione cromatica e costruzione delle scienze sperimentali. Dal secondo fondamentale momento dell’indagine compiuta intorno al colore, ossia dal paragrafo dell’Analitica dei principi dedicato alle “anticipazioni della percezione”24, provengono sia un’ulteriore conferma della preminenza assunta nella I Critica dall’interpretazione in chiave psicofisiologica dei fenomeni cromatici sia (ed è questo l’aspetto di maggiore interesse) un’apertura in direzione di una loro diversa valutazione sul piano epistemico. Il presupposto del discorso kantiano è costituito dalla precedente esposizione degli schemi dei concetti puri dell’intelletto, giacché soltanto grazie alla mediazione offerta dagli schemi sono possibili i teoremi della matematica e le leggi della fisica. Sensatio [est] realitas phaenomenon25: è questa la definizione dello schema della categoria della realtà, ossia della classe delle categorie della qualità in generale. Mentre, in quanto suo contenuto è lo 0 o mero nulla, la categoria della negazione corrisponde al vuoto, al non essere, la realtà corrisponde ad una sensazione, e ciò è sufficiente a conferire essere al suo contenuto. E’ evidente che, senza un’apprensione continua nel tempo tendente ad un limite, non si ha costruzione della realtà percettiva, e dunque neppure costruzione di quella realtà che le scienze sperimentali della natura hanno a loro oggetto. In sostanza, lo schema, proprio in virtù della sua intrinseca temporalità, garantisce l’assenza di lacune o interruzioni nell’esperienza, che si caratterizza così come un flusso continuo; ne consegue, per la coscienza unitaria, l’assenza di lacune nell’oggetto esperienziale. Su tale garanzia trascendentale si fonda l’indagine volta a stabilire quale sia il principio a priori (l’unico) all’opera nella percezione. Che l’aspetto fisico sotto cui una cosa si presenta fenomenicamente nel mondo sia qualitativamente accertabile e discriminabile è un fatto empirico: una mela rossa appare immediatamente (oggi diremmo: è ostensivamente) diversa rispetto ad una mela verde, ecc. Ma altrettanto evidente è il fatto che vi è nei fenomeni e nella sensazione, indipendentemente dal confronto fra le qualità, un’intensità della qualità di volta in volta presa in considerazione. Ora, conformemente alle premesse teoretiche fissate nel capitolo sullo schematismo e sulla base del principio del continuum, che – in buona scolastica leibniziana – è concepibile da un punto di vista Alcuni dei riferimenti al colore di KrV B situantisi nell’ambito problematico affrontato nella prima parte del presente lavoro non compaiono in KrV A, ma non contengono aggiunte teoretiche significative. Nell’Introd. (KrV B 30; it. 43) Kant afferma che, in quanto attributo empirico, il colore (così come la durezza o la tenerezza, la pesantezza e l’impenetrabilità) può essere tralasciato quando ci si forma un concetto esperienziale di corpo. In una nota delle Osservazioni generali all’Estetica trasc. (KrV B 71; it. 90) il colore è considerato come predicato fenomenico delle cose. 24 KrV A 115 sgg./B 151 sgg. (it. 183 sgg.). 25 KrV A 104/B 139 (it. 169). 23 39 sia estensivo sia intensivo26, Kant cerca qui di dimostrare a priori proprio l’esistenza della grandezza intensiva o del grado della sensazione che nel fenomeno le corrisponde. La lex continui di Leibniz applicata all’intensità di un fenomeno esige che sia sempre possibile reperire una quantità più piccola di qualsiasi quantità data, sicché la transizione dal tutto al nulla (dalla realtà o realitas phaenomenon alla sua negazione = 0) avvenga per passaggi impercettibili27. Il colore, il calore, il peso, ecc. sono realtà fenomeniche di questo genere, ossia tali da presupporre un quantum o grandezza intensiva che può crescere o diminuire, pur rimanendo invariata la grandezza estensiva del sostrato cui si riferiscono (per es., nel caso del colore, la superficie illuminata) e pur venendo meno nella percezione del loro grado la distensione temporale, giacché esso “indica solo la quantità la cui apprensione non è successiva, ma istantanea”28. Da queste osservazioni discenderà l’affermazione della III Critica secondo cui la “valutazione della grandezza degli oggetti di natura”, proprio in quanto essi sono colti immediatamente “a occhio”, è estetica e non matematica, ossia intuitiva e non costruttiva (sorretta da processi logici), soggettiva e non oggettiva29. E poiché consapevolmente Kant, fondandosi su quel procedimento per analogia che costituisce l’ossatura logico-formale della III Critica30, fa subire al termine “estetico” uno slittamento semantico che produce la fusione dell’idea di valutazione e di comprensione percettiva unitaria dell’oggetto con l’idea di valutazione e di comprensione emozionale dell’oggetto stesso, si potrebbe ipotizzare – sulla scorta delle affinità con le considerazioni dell’Analitica dei principi – che anche i fenomeni cromatici abbiano diritto di cittadinanza nell’ambito del giudizio sulla bellezza. L’idea dell’unità immediata della grandezza oggetto della sensazione costituisce il termine di mediazione per la formulazione di quest’ipotesi interpretativa, anche se – come si vedrà – la via seguita da Kant è meno diretta e assai più difficoltosa. Poiché egli mette in evidenza che la nostra percezione, purché l’oggetto sia abbastanza piccolo, ha la possibilità di coglierlo nella sua interezza, se ne potrebbe inferire: sul piano 26 Sul retaggio della scuola leibniziana cfr. G. Böhme, Über Kants Unterscheidung von extensiven und intensiven Grössen, in “Kant-Studien”, 1974/3, pp. 254-258. Sulla coerenza fra la concezione leibniziana del punto e la sua teoria topologica da un lato e la lex continui dall’altro cfr. O. Meo, Osservazioni sulla teoria leibniziana dello spazio, in “Epistemologia”, 1998/1, pp. 17-40. Ivi pure alcune riflessioni sull’interesse di Kant per l’analysis situs. 27 Fortemente debitrice a questa impostazione è evidentemente la teoria della soglia di coscienza, che poggia sulla possibilità di instaurare un parallelismo fra grado della realtà e grado della sensazione, una corrispondenza fra processi oggettivi e processi soggettivi. Eccessiva è comunque la tesi esposta da Karl Bühler in Die Erscheinugsweisen der Farben, Fischer, Jena 1922, pp. 143-144, secondo cui Kant costituirebbe l’anello di congiunzione fra l’oggettivismo leibniziano e la legge psicologica di Weber-Fechner: l’istituzione di una corrispondenza fra processi oggettivi e processi soggettivi (il cosiddetto parallelismo psicofisico) è idea ben presente a Leibniz. Giusta è l’osservazione di Bühler secondo cui, per ciò che concerne i colori, aumento e diminuzione del grado possono essere intesi sia nella dimensione della saturazione che in quella della chiarezza. 28 KrV A 117/B 153-154 (it. 186). 29 Cfr. KU, § 26, 251 (it. 100). Sulla correlazione fra i due testi cfr. G. Böhme, op. cit., pp. 247-249. 30 Come è noto, e come ho già ricordato nel saggio La logica del comico, il principio dell’analogia sostiene l’impianto teoretico di KU dalla definizione della reflektierende Urteilskraft nel § IV dell’Introd. fino alla teoria del 40 gnoseologico, che il soggetto, affrancato dallo sforzo consistente nell’esplorazione attentiva della superficie dell’oggetto alla ricerca dei suoi limiti spaziali, affrancato cioè dai problemi connessi con la costruzione della Gestalt, può impegnarsi tutto nello sforzo di esplorare attentivamente la superficie per cogliere le qualità “accidentali” o “secondarie”; sul piano estetico (inteso nel senso proprio del termine), che il soggetto ricava da questo peculiare approccio percettivo un godimento, giacché la dottrina classica – che Kant come è noto condivide – concepisce la bellezza esteriore proprio come ordine, proporzione e misura, come ciò che è possibile abbracciare con sguardo onnicomprensivo. D’altro canto, anche se non è indispensabile allo scopo di riconoscere gli oggetti percettivi e appare mutevole (in funzione della luminosità, della distanza, ecc.), l’esperienza del colore non può mai mancare31. Se è vero infatti che al reale si contrappone la negazione assoluta = 0, è vero altresì che la nostra esperienza non è del tipo tutto o nulla, ma è fatta di piccole transizioni e che, secondo il chiarimento già fornito da Kant nel corso dell’esposizione dello schematismo trascendentale, noi non possiamo avere una percezione del nulla: “Se ogni realtà nella percezione ha un grado, fra il quale e la negazione si estende una serie infinita di gradi sempre minori, e se tuttavia ogni senso non può non avere un grado determinato di ricettività delle sensazioni, non è possibile alcuna percezione, e perciò nemmeno alcuna esperienza, che provi una totale mancanza di qualsiasi reale nel fenomeno, sia immediatamente sia mediatamente (mediante qualsivoglia mai rigiro nel sillogismo), cioè non si può mai trarre dall’esperienza una prova dello spazio vuoto o di un tempo vuoto. Infatti la totale mancanza del reale nell’intuizione sensibile, in primo luogo, non può essere direttamente percepita come tale; in secondo luogo, non può essere dedotta da nessunissimo fenomeno e distinguendo il grado della sua realtà, né è mai lecito ammetterla per la spiegazione del fenomeni. Infatti, anche se l’intuizione globale di uno spazio o di un tempo determinato è tutta reale, cioè nessuna sua parte è vuota, tuttavia, poiché ogni realtà ha un suo grado, che – rimanendo immutata la grandezza estensiva del fenomeno – può decrescere per infiniti gradi fino al nulla (al vuoto), è necessario che ci siano gradi infinitamente diversi di cui sia riempito lo spazio o il tempo ed è necessario che la grandezza intensiva possa essere minore o maggiore nei diversi fenomeni, sebbene la grandezza estensiva dell’intuizione sia uguale” 32. In altri termini: dal fatto che gli oggetti percettivi presentano sempre un grado nella sensazione (in positivo o anche in negativo) discende che non esistono cose non colorate, o che non siano né calde né fredde, né pesanti né leggere. Poiché, in buona filosofia kantiana della matematica, lo 0 non è il vero negativo, che è piuttosto l’opposto positivo del positivo, ma l’indifferente e astratto nulla, la mera privatio, dovunque mi rivolga, avrò sempre la percezione di uno spazio pieno e di una realtà33. Il fatto che l’obiettivo di Kant sia quello di legittimare sul piano bello come simbolo della moralità. Secondo l’indicazione esplicita contenuta nel § 84 della Logik, la Präsumption analogica caratterizza il tipo di “sillogismo” proprio della reflektierende Urteilskraft nell’uso logico-teoretico. 31 Cfr. su questo punto K. Bühler, op. cit., pp. 6-7. E’ però eccessiva, e sicuramente influenzata dalla fenomenologia e dalla Gestalttheorie, l’affermazione secondo cui in KrV Kant contesta expressis verbis la possibilità di una percezione spaziale non cromatica: questa posizione è soltanto indirettamente inferibile. 32 KrV A 119/B 155-156 (it. 188). 33 La teoria kantiana delle “grandezze negative” suscita in realtà gravi problemi, giacché - commentando la celebre “tavola del nulla” che conclude l’Analitica trasc. - come esempi di negazione (ossia come “concetto della mancanza di un oggetto” o nihil privativum) Kant adduce l’ombra, il freddo, il buio. Sennonché in questo caso Kant ha 41 trascendentale la matematica e la scienza della natura, prendendo una posizione inequivocabile nel dibattito epistemologico allora in corso sull’esistenza del vuoto, non muta ovviamente l’importanza psicologica del risultato desumibile dalle sue considerazioni: l’impossibilità di prescindere dal grado34 in una serie continua tendente verso l’infinitamente piccolo o l’infinitamente grande (per quanto concerne in particolare il colore, non importa se nella scala della saturazione o in quella della chiarezza) impedisce di concepire un essere dotato di un apparato sensoriale normale come privo della capacità di assegnare una qualità alle cose. Il che non è sicuramente in contraddizione con la tesi secondo cui essi sono inessenziali alla costruzione dell’oggetto percettivo; significa soltanto che – in considerazione anche dell’inseparabilità empirica di calore, peso, ecc. – la realtà non ha, dal punto di vista della materia della sensazione, buchi. D’altro canto, tale continuità corrisponde a quella reperibile nella realtà mediante l’accertamento sperimentale delle sue proprietà fisico-chimiche compiuto con opportuni strumenti di misura35. 3- L’esperienza estetica del cromatismo, ovvero prolegomeni ad una teoria del colore come fenomeno fisico. L’esame delle riflessioni dedicate al colore nella III Critica conduce a rilevare una certa modifica dell’orientamento fin qui emerso, quasi come se la considerazione estetica dei fenomeni consentisse – per lo meno a tratti – di lasciarli apparire nella loro indipendenza dalla soggettività della sensazione, senza più le costrizioni imposte dalle esigenze teoretico-conoscitive ed epistemologiche. Ad attirare per primo l’attenzione è il § VII dell’Introduzione. Sebbene non vi compaiano riferimenti espliciti al problema delle qualità, vi si trova una chiara delineazione della differenza fra materia e forma della rappresentazione, che coincide con la distinzione fra la sensazione come elemento meramente soggettivo della rappresentazione e lo spazio come intuizione pura a priori della I Critica. Questa prima osservazione serve ad introdurre alcune considerazioni intorno al piacere connesso con l’apprensione della forma di un oggetto dell’intuizione; serve cioè da in mente per l’appunto la semplice privatio, il non essere che ricade sotto la categoria della negazione: freddo e buio significano (soprattutto soggettivamente) solo mancanza di calore e luce. Altra cosa sono evidentemente il freddo e il buio di cui si può con opportuni strumenti misurare l’intensità e che ricadono sotto la categoria della realtà e, di conseguenza, sotto lo schema della qualità. 34 Kant osserva in KrV A 121/B 158 (it. 190): “... tutte le sensazioni sono date in quanto tali solo a posteriori, ma la loro proprietà di avere un grado può essere conosciuta a priori”. 35 Che sia possibile condurre esperimenti controllati non solo sul calore e sul peso, ma anche sui fenomeni cromatici lo hanno mostrato le ricerche che hanno permesso di giungere a risultati scientificamente attendibili dal punto di vista fisico, fisiologico e psicologico (curve spettrofotometriche, risposte dei ricettori nervosi, metrica delle sensazioni soggettive, ecc.). 42 preambolo per la trattazione di questioni di interesse più direttamente estetico36. Nel continuo gioco delle facoltà conoscitive su quel ponte di passaggio fra la natura e la libertà che è garantito dalla particolare costituzione della reflektierende Urteilskraft accade facilmente che l’analogia funzionale di determinati elementi si trasformi in analogia strutturale. Cosa dunque meglio di una struttura formale della conoscenza può permettere di cogliere la disposizione gestaltica degli elementi percepiti e condurre ad un piacere che è a sua volta formale? “Un tale giudizio è un giudizio estetico sulla finalità dell’oggetto che non si fonda su alcun concetto dato dell’oggetto e non ne fornisce alcuno. Si giudica la forma di tale oggetto (non l’elemento materiale della sua rappresentazione, in quanto sensazione) nella semplice riflessione su di essa (senza aver di mira il conseguimento di un concetto dell’oggetto) come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tale oggetto. E questo piacere viene anche giudicato come necessariamente connesso con la rappresentazione dell’oggetto” 37. Il fatto che esistano accidenti inseparabili dal reale, o dalla Gestalt sotto cui il reale si manifesta, non incide sulla natura puramente astratta del diletto estetico, al quale – come è noto – non è commisto alcunché di extraestetico. In sostanza, continuando a sostenere l’inferiorità gerarchica delle qualità “soggettive” rispetto a quelle “oggettive”, Kant non muta rotta per quanto concerne la collocazione ontologica della materia della sensazione. E ciò, alla luce di talune riflessioni rinvenibili nel corpo della III Critica, insinua il sospetto che sul tema delle cosiddette “qualità secondarie” Kant difetti di linearità di pensiero. Le prime perplessità sulla coerenza interna del pensiero di Kant sorgono allorché ci si addentra nella lettura della prima parte dell’opera. Nel § 3, tentando di isolare in vitro il concetto di “bello” rispetto ai concetti teoretici, pratici e pragmatici, Kant definisce il “gradevole” (angenehm) come “ciò che piace ai sensi nella sensazione”. La sorpresa giunge allorché, per evitare confusioni teoretiche, Kant propone di distinguere fra due significati del termine “sensazione”: “Quando si chiama ‘sensazione’ una determinazione del sentimento di piacere o dispiacere, questa espressione significa qualcosa di completamente diverso da quando chiamo ‘sensazione’ la rappresentazione di una cosa (mediante i sensi, in quanto ricettività di pertinenza della facoltà conoscitiva). Infatti, nell’ultimo caso, la rappresentazione è riferita all’oggetto, mentre nel primo è riferita esclusivamente al soggetto e non serve affatto a nessuna conoscenza, nemmeno a quella con la quale il soggetto conosce se stesso. Ma, nella definizione sopra data, con la parola ‘sensazione’ intendiamo una rappresentazione oggettiva dei sensi; e per non correre sempre il pericolo di essere fraintesi, vogliamo chiamare con il nome, per altro abituale, di ‘sentimento’ ciò che non può non rimanere sempre semplicemente soggettivo e non può assolutamente costituire alcuna rappresentazione di un oggetto. Il colore verde dei prati appartiene alla sensazione oggettiva, in quanto percezione di un oggetto del senso; la sua gradevolezza appartiene invece alla sensazione soggettiva, con la quale non è rappresentato alcun oggetto, cioè al sentimento mediante il quale la cosa è considerata come oggetto della soddisfazione (che non è una conoscenza di essa)”38. Che l’altra intuizione pura a priori, il tempo, venga ignorata non può stupire: si è già constatato che l’apprensione delle qualità (e il pattern configurazionale è una qualità) è istantanea e che il godimento del bello presuppone l’offerenza globale dell’oggetto. 37 KU, Introd., § VII, 190 (it. 31). 38 KU, § 3, 206 (it. 46-47). 36 43 Kant conferisce dunque qui un valore oggettivo – sia pure limitato – a quella sensazione che sia nella I Critica sia nel § VII dell’Introduzione alla III Critica, veniva contrapposta, in quanto meramente soggettiva ed empirica, allo spazio. L’esigenza è abbastanza comprensibile: la necessità di separare nettamente la funzione di riconoscimento e la funzione estetica della sensazione costringe Kant a concedere qualcosa di più, sul piano dell’oggettività, alla sensazione che si pone al servizio delle finalità percettive. Di conseguenza, interviene anche una, sia pur lieve, modifica nella concezione del colore in quanto elemento della percezione dei fenomeni. Mentre sia nella I sia nella II ed. della I Critica le cosiddette “qualità secondarie” apparivano come modificazioni del soggetto inessenziali ai fini del riconoscimento, e in quanto tali diverse da uomo a uomo, esse accompagnano ora l’oggetto sensoriale come predicati essenziali, ma solo se paragonate alla totale soggettività idiosincratica della sensazione cromatica (o meglio: del sentimento), in cui si prescinde dalla rappresentazione dell’oggetto e che solo dà luogo all’esperienza del “gradevole”. E tuttavia l’introduzione del termine “oggettivo”, sia pure accompagnata da tutte le cautele di cui Kant è capace, è sufficiente a spostare l’orizzonte, sicché si illumina retrospettivamente pure la distinzione della I ed. della I Critica fra sensazione e sentimento. L’avvertire (sia esso raffinato o grossolano) in cui consiste il sentimento di piacere, in quanto contrapposto alla sensorialità della sensazione, ma pur sempre su di essa poggiante, non può essere confuso con quest’ultima proprio perché esso è qualcosa di intimamente idiosincratico: base sensoriale non significa sostanza sensoriale. Tale tendenza è confermata nel § 7, dedicato alla comparazione del bello con il gradevole e con il buono. Il colore è collocato interamente dal lato del gradevole. Donde discendono la sua estrema soggettività, la limitazione al singolo giudicante dell’estensione del gradimento che esso arreca e la validità del principio secondo cui “ciascuno ha il proprio gusto legato ai sensi”. La soggettività della sensazione impedisce ogni possibile apertura comunitaria e causa la singolarità del giudizio di gusto su di essa fondato: il fatto che lo stesso colore susciti reazioni contrastanti, che appaia delicato ed amabile ad uno, smorto e cupo ad un altro, dipende in fin dei conti, anche se Kant non lo afferma esplicitamente, da disposizioni psicologiche momentanee ed estremamente volatili, da una costellazione caratterologica mobile ed invicariabile, da oggettive condizioni fisiologiche di benessere o di malessere39. A Kant non interessa comunque in questa fase trarre dalle preferenze soggettive indicazioni sulle caratteristiche psicologiche di chi emette il giudizio; gli interessa piuttosto combattere ogni pretesa del gusto per il meramente gradevole di valere oggettivamente ed 39 Sulla valenza di simbolo della sfera morale propria delle reazioni psicologiche ai colori (fondata ancora una volta sul principio dell’analogia e espressa con accenti che richiamano le posteriori considerazioni di Goethe) cfr. KU, § 59, 354 (it. 218). 44 universalmente (quand’anche si trattasse di un’universalità soltanto soggettiva, ossia di una cosoggettività trascendentale, come quella esigita dal giudizio di gusto sul bello)40. Un passo decisivo verso un radicale mutamento nell’interpretazione dello status ontologico del colore Kant lo compie allorché, nel § 14, cerca di esemplificare la tesi secondo cui al puro giudizio di gusto non sono commiste attrattive ed emozioni. Ancora una volta egli insiste inizialmente sul fatto che a fondamento del colore (e del suono) sta la materia della rappresentazione, ossia la sensazione; ma ammette anche che si possano considerare belli, e non soltanto gradevoli, certi colori e certi suoni. Ciò accade quando le sensazioni corrispondenti sono pure, perché la purezza riguarda la forma (ed è comunicabile universalmente). Dunque, con uno strano ossimoro, si ammette che esistono materie che sono anche forme e che un colore può anche essere bello, ma non in quanto si badi alla materia cromatica in quanto tale, bensì al suo carattere di purezza, ossia a quel lato per il quale esso partecipa dell’elemento formale. Sennonché parlare di “sensazione di colore”, anziché di “colore” sic et simpliciter, accresce le difficoltà: se è ancora ammissibile parlare di sensazione (empirica e materiale) di un colore puro, è impossibile parlare di sensazione pura di un colore, giacché la sensazione è per definizione empirica41. Occorre tuttavia ricordare a questo punto che Kant aveva già operato un passo in direzione del conferimento di una certa quale oggettività alla sensazione e che l’oggettività presuppone, se non proprio che la struttura coinvolta sia pura e a priori, che essa si collochi quanto meno dal lato di qualcosa che sia puro e a priori. In quell’occasione questo qualcosa era lo spazio; ma nella III Critica la teoria della conoscenza fenomenica della I Critica cede il posto ad una considerazione dell’oggetto come più autonomo, e pertanto si può ipotizzare una maggiore attenzione alle evidenze sperimentali in quanto tali. Di conseguenza, si potrebbe supporre che, per Kant, una sensazione cromatica sia “pura” quando abbia per correlato oggettuale uno dei colori appartenente allo spettro newtoniano, il quale verrebbe in tal modo a fungere da modello per discriminare i colori assolutamente originari o – per ricorrere ad un termine usato poco dopo nel testo – “semplici”42. In proposito è comunque d’obbligo un’estrema cautela, giacché i rilievi di Kant sono talmente carenti dal punto di vista tecnico ed Sulla possibilità di interpretare in senso semiotico-pragmatico la teoria kantiana dell’universalizzabilità del giudizio di gusto, cfr. O. Meo, Il contesto, cit., pp. 90-99. 41 Si potrebbe essere tentati di supporre che Kant intenda qui per “pura” una sensazione isolata di colore la quale faccia astrazione dal complesso delle sensazioni concomitanti, analoga per qualche aspetto all’arbitraria rappresentazione cromatica intrasoggettiva, che prescinde dai contorni e assume pertanto le caratteristiche di una vaga ed indefinita macchia. Non distratto dalla Gestalt e da altri fattori sensoriali, in questo caso il soggetto potrebbe immergersi totalmente nella percezione del colore, concentrando su di esso tutta la sua attenzione, e, inevitabilmente, la materia si trasformerebbe in forma di se stessa. Se le così stessero così, la distinzione in gioco sarebbe analoga a quella, abituale nelle indagini psicologiche contemporanee sui fenomeni cromatici, fra colori “liberi” (le Flächenfarben degli studiosi tedeschi) e colori appartenenti agli oggetti o “di superficie” o “locali” (le Oberflächenfarben). Sennonché mi sembra francamente dubbio che Kant sarebbe stato disposto ad associare la purezza con la nebulosità, l’indefinitezza e l’instabilità che caratterizzano i colori “liberi”. 42 E’ chiaro che, se così stanno le cose, i colori puri o semplici non sono quelli fondamentali né della sintesi additiva né della sintesi sottrattiva. 40 45 imprecisi da quello terminologico da non consentire la formulazione di alcuna ipotesi sufficientemente attendibile. In particolare, mal si concilia il principio – in seguito vigorosamente sostenuto da Kant – della preminenza gestaltica e della conseguente determinatezza dei colori con l’insensibile trapasso dell’uno nell’altro e con lo sfumato avvertibile quando si analizza percettivamente lo spettro cromatico. Non pago di aver radunato in poche righe una tal somma di complessi problemi teoretici ed estetici, Kant ne imposta subito dopo un altro: “Se si ammette con Eulero che i colori sono una sequenza di pulsazioni (pulsus) isocrone dell’etere, così come i suoni sono pulsazioni acustiche dell’aria messa in vibrazione, e, ciò che più importa, che l’animo non solo ne percepisce mediante il senso l’effetto sulla vitalità dell’organo, ma anche, mediante la riflessione (del che non dubito affatto), il gioco regolare delle impressioni (e dunque la forma nella connessione delle diverse rappresentazioni), colore e suono non sarebbero mere sensazioni, ma già una determinazione formale dell’unità di un molteplice di esse e potrebbero perciò essere annoverati anche per sé fra le bellezze”43. Nel contesto specifico il riferimento alla scansione temporale, ossia ad una delle determinazioni indispensabili alla costruzione di una conoscenza oggettiva e della scienza della natura, assume particolare rilievo, giacché grazie ad esso la discussione assume un più marcato carattere epistemologico Manca solo un passo, dopo questa importante osservazione e dopo l’espressione della propria preferenza per la teoria ondulatoria della luce, perché Kant abbandoni la concezione psicofisiologica e consideri i colori come fenomeni oggettivi causati dal passaggio della luce in un mezzo elastico, ossia che consideri come una legge della natura il loro processo di formazione. E un ulteriore contributo a questo passo, davvero decisivo, viene compiuto alla fine del capoverso testé citato: in quanto determinazione formale dell’unità di un molteplice delle sensazioni, si ammette che i colori e i suoni possano non essere soggettivi, ma oggettivi, e obbediscano perciò agli stessi criteri epistemologici validi per tutti gli eventi oggettivi della natura. 43 KU, § 14, 224 (it. 68). Originariamente, Eulero aveva esposto le sue idee, sviluppando la teoria di Huygens, nella Nova Theoria lucis et colorum del 1746. Le aveva poi riprese nelle Lettres à une princesse d’Allemagne del 17681772. Sulla ripresa delle tesi euleriane in KU cfr. P. Giordanetti, La fondazione matematica della musica nella Critica del Giudizio di Kant: un aspetto della ricezione kantiana di Leonhard Euler, in AA.VV., Prospettive sull’estetica del Settecento, a cura di E. Franzini, Cuem, Milano 1995, pp. 138-149. Come è noto, il passo riportato nel testo ha suscitato parecchie perplessità, giacché l’inciso parentetico woran ich doch gar nicht zweifle (“del che non dubito affatto”) compare solo a partire dalla III ed., quella del 1799, in sostituzione del precedente woran ich doch gar sehr zweifle, che si può tradurre sia “del che dubito davvero moltissimo” sia “sulla qual cosa ho davvero moltissimi dubbi”. Si può cioè intendere l’inciso originario come una decisa presa di posizione di Kant contro le conseguenze estetiche della teoria di Eulero (lo si può interpretare cioè in senso “forte”) oppure come l’espressione di un dubbio autentico (e questa sarebbe l’interpretazione “debole”). Come mostra persuasivamente W. Windelband nella lunga nota alle pp. 527-529 dell’ed. dell’Accademia, la correzione, che fu operata sicuramente dal revisore del testo e non personalmente da Kant, concorda comunque con altre affermazioni di quest’ultimo nella stessa KU. Certamente, però, come rilevano E. Garroni e H. Hohenegger in una nota della loro trad. it. (I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, pp. 59-60), quella del correttore è un’interpretazione e i dubbi non concernono affatto l’adesione di Kant alla teoria di Eulero, ben documentata fin dalla Meditationum quarundarum de igne succincta delineatio del 1755. In considerazione dell’andamento discontinuo della trattazione del problema in KU, proporrei di optare per l’interpretazione “debole” dell’inciso originario, che indicherebbe pertanto l’ammissione da parte di Kant di una seria e sincera difficoltà nel risolvere la complessa questione. In tal modo, si porrebbe forse finalmente rimedio all’annosa discussione. 46 Il fatto si è che, per legittimare una tale soluzione, non è sufficiente l’intervento delle intuizioni pure a priori e la considerazione dei dati sensoriali; occorre il concorso dell’attività intellettuale. Ma, poiché è inevitabile che questa strutturazione concettuale dell’intera materia sia presupposta da Kant44, il risultato è la scissione della teoria del colore in due parti distinte: da un lato, sta la considerazione teoretico-epistemologica, in base alla quale il colore, diventato anch’esso una sorta di “cosa in sé in senso empirico”, è fenomeno di pertinenza della scienza della natura 45; dall’altro lato, sta la considerazione estetica, che è ancora legata alla teoria gnoseologica della I Critica e in base alla quale il colore continua ad essere situato dal lato della mera attrattiva soggettiva e non trasmissibile. Per ottenere tale risultato non era sufficiente distinguere fra componente della sensazione funzionale al soddisfacimento soggettivo e componente funzionale al riconoscimento percettivo: questo Kant lo aveva già fatto, ma senza alcuna rilevante conseguenza sul piano della determinazione ontologica del colore. Per contro, il concreto confronto con la ricerca scientifica richiama più utilmente la sua attenzione sulla parzialità della teoria psicofisiologica del colore, giacché lo mette di fronte a quelle strutture che egli stesso aveva invocato come fondamentali nella I Critica e lo costringe pertanto a modificare la sua posizione in prò di una maggiore coerenza interna di tutto il sistema critico. Occorre poi sottolineare che questo mutamento nella concezione del colore sul piano teoretico ha un riflesso positivo sulla sua valutazione estetica: l’ordine e la rigorosa misura riscontrabili nella pulsazione che genera colori e suoni non possono non suscitare l’idea che gli armoniosi giochi cromatici e tonali abbiano una relazione profonda con l’armonia formale che regge l’universo e, al pari di questo, seguano una rigorosa legge46. Una conferma della tendenza inferibile dal passo viene dal capoverso immediatamente successivo: ”Ma la purezza di un tipo semplice di sensazione significa che la sua uniformità non è turbata ed interrotta da nessuna sensazione eterogenea, e appartiene solo alla forma, perché si può astrarre qui dalla qualità di quel tipo di sensazione (se essa rappresenti un colore, e quale, oppure un suono, e quale). Per questo motivo tutti i colori semplici, in quanto sono puri, sono ritenuti belli; i misti non hanno questo pregio, proprio perché, non essendo semplici, non si ha alcun criterio per giudicare se si debba chiamarli puri o impuri”47. Non è casuale che egli parli a questo proposito di “riflessione”. La riflessione sulla teoria di Eulero avrebbe in sostanza condotto Kant a privilegiare la dimensione propriamente epistemica rispetto al piano dell’esperienza fenomenica su cui, nel quadro dell’Analitica dei principi di KrV, si collocavano le sue indagini sull’intensità della sensazione. 46 La coerenza con i principi estetici del rococò è evidente a chiunque rammenti l’analogia fra la fuga delle stanze dipinte alternativamente in rosa e azzurro del padiglione di Amalienburg e la successione delle prime due note della scala musicale. La tendenza rococò del gusto cromatico di Kant è comunque esplicita nella Refl. n. 870: “I colori forti non sono così belli perché appartengono più alla sensazione che al fenomeno; essi debbono trapassare in un altro colore prossimo, e per la precisione nell’intermedio [nell’inferiore]” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., pp. 382-383). 47 KU, § 14, 224-225 (it. 68). Cfr. pure § 53, 330 (it. 192), ove la pittura è definita “arte del disegno” e per questo motivo è posta a fondamento delle altre arti figurative. 44 45 47 Se l’ipotesi formulata in precedenza è attendibile, per colori “puri” o “semplici” si dovrebbero intendere quelli distinguibili nello spettro newtoniano in condizioni ottimali di illuminazione, indipendentemente dal fatto che essi appaiano proiettati sullo schermo sperimentale o siano percepiti come appartenenti ad un corpo. Comunque stiano le cose da questo punto di vista, l’essenziale è che Kant ribadisce l’indissolubilità del binomio purezza-forma. Con il consueto slittamento semantico, esso indica indubbiamente una caratteristica empirica dell’oggetto e non il sistema delle condizioni a priori della possibilità dell’esperienza, ma – al tempo stesso – rinvia inevitabilmente all’elemento formale-puro che sempre contrassegna l’unità di un molteplice esperienziale: in questo caso, del molteplice costituito dalle successione delle onde luminose (o sonore) di pari frequenza. D’altro canto, poiché ipotizzare una configurazione cromatica (una materia che fosse di per sé forma, insieme ordinato) costituirebbe pur sempre – per lo meno nell’esperienza quotidiana abituale, anche se non in condizioni sperimentali controllate come quelle che consentono la generazione dello spettro di Newton – una contraddizione in termini, ne scapita lo statuto estetico dei pigmenti presenti sulla tavolozza o – più in generale – dei colori cosiddetti “di superficie” o “locali”, che riempiono una figura e obbediscono alle esigenze da essa imposte: “Nella pittura, nella scultura, e proprio in tutte le arti figurative, nell’architettura, nell’arte dei giardini, in quanto sono arti belle, l’essenziale è il disegno, in cui non ciò che contenta nella sensazione, ma soltanto ciò che piace per la sua forma costituisce il fondamento di ogni disposizione al gusto. I colori, che alluminano il costrutto, appartengono all’attrattiva; essi possono sì vivificare l’oggetto in sé per la sensazione, ma non renderlo degno dell’intuizione e bello: essi sono piuttosto il più delle volte molto limitati da ciò che esige la bella forma e, perfino dove è ammessa l’attrattiva, sono nobilitati solo dalla forma“48. Sarebbe superfluo sottolineare che, conferendo l’assoluto primato alla costruzione della Gestalt, Kant aderisce alla tradizione classicista che – rifacendosi alla Poetica di Aristotele – propugna la tesi della superiorità del disegno, se questa manifestazione di conservatorismo estetico non si rivelasse coerente con la concordanza con Locke sul tema delle qualità secondarie e non costituisse in tal modo un residuo della posizione psicofisiologica della I Critica. I colori “rendono più esattamente, precisamente e compiutamente intuitiva” la forma49. Ossia: il loro contributo alla bellezza consiste nel fatto che, qualora siano puri (cioè – sembrerebbe di capire – saturi e di 48 KU, § 14, 225 (it. 69). KU, § 14, 225-226 (it. 69-70). Secondo la tesi sostenuta da Georg Simmel in Rembrandt. Ein kunstphilosophischer Versuch (trad. it. in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, Il Mulino, Bologna 1985, p. 179), Kant privilegia la forma rispetto al colore perché il carattere prevalentemente “logico” dei suoi interessi andrebbe a scapito di quello “psicologico” e di quello “metafisico”: la forma esibirebbe l’“idea astratta del fenomeno; per contro, il collocarsi del colore dal lato della sensibilità sarebbe oggetto di più immediato apprezzamento, mentre il suo valore metafisico consisterebbe nell’effetto “più profondo e misterioso” che esso produce. In realtà, così facendo, Simmel giustifica le tesi di KU mediante il ricorso alla teoria dell’Estetica trasc. di KrV. 49 48 luminosità ottimale) o anche – afferma Kant con un accenno al problema del conseguimento del miglior effetto gestaltico - variati o contrastanti, migliorano la percepibilità della forma50. Nella riflessione successiva Kant riprende in considerazione la componente fisica del colore: “Le attrattive della bella natura, che così spesso si incontrano in certo modo confuse con la bella forma, appartengono o alle modificazioni luminose (nel colorito) o acustiche (nel suono). Infatti queste sono le uniche sensazioni che non danno luogo soltanto ad un sentimento dei sensi, ma anche ad una riflessione sulla forma di queste modificazioni dei sensi, e che contengono così in sé come un linguaggio che la natura ci rivolge e che sembra avere un senso superiore. Così il colore bianco del giglio sembra disporre l’animo all’idea dell’innocenza e, seguendo l’ordine dei sette colori, dal rosso fino al viola: 1) all’idea della sublimità, 2) dell’ardimento, 3) della franchezza, 4) della cortesia, 5) della modestia, 6) della costanza e 7) della delicatezza”51. La formulazione con la quale Kant introduce il suo ragionamento ricorda quella della I ed. della I Critica: dalla complicata costruzione sintattica e dall’abituale modo ellittico di esprimersi si ricava che colori e suoni sono modificazioni dei sensi (ossia fenomeni psicofisiologici) che hanno un’origine fisica. Per questo motivo è possibile riflettere sulla loro forma e considerarli come se fossero un messaggio della natura, ossia – conformemente alla peculiare declinazione che il concetto di “riflessione” assume nella III Critica – come se fossero espressione della finalità soggettiva della natura corrispondente ad un nostro bisogno di unità sistematica. Soltanto se si tiene presente quanto Kant chiarisce nell’Introduzione intorno alla funzione specifica del Giudizio riflettente di operare in prò della riconduzione dei molteplici fenomeni e leggi della natura ad un systema naturae, si può infatti comprendere il senso dell’uso, in questo luogo specifico, di termini fortemente connotati in senso teleologico soggettivo come “forma” e “natura”, che rinviano implicitamente alle precedenti considerazioni intorno al porsi dei colori come unità formale di un molteplice esperienziale. Per quanto concerne poi l’interpretazione in chiave quasi semiotica del cromatismo52, vi è da dire che essa è coerente con l’atmosfera generale del contesto in cui è inserita: in questo stesso § 42 Kant non solo fa esplicito cenno al “linguaggio cifrato con il quale la natura ci parla nelle sue forme belle”, ma – più in generale – abbozza una connessione fra gli ambiti teleologico, morale e simbolico che appare conforme alla tesi, una delle più importanti della prima parte della III Critica, secondo cui l’espressione estetica è nella sua essenza simbolica. In tal modo Kant riesce a combinare qui il lato oggettivo, ossia il riconoscimento della validità della teoria scientifica del colore (e non a caso il numero e la successione dei colori corrispondono a quelli 50 Sulla base di quanto è fin qui emerso, non mi pare sottoscrivibile il giudizio di L. Pareyson, secondo il quale Kant “non prospetta nemmeno la possibilità” che le attrattive “possano essere, non dico legittimamente scambiate con la bellezza, ma anche soltanto legittimamente incluse nella bellezza, come suo ingrediente. Kant presenta le attrattive come giustapposte alla bellezza, e facilmente distinguibili da essa” (L’estetica di Kant. Lettura della “Critica del Giudizio”, Mursia, Milano 1984, p. 106). Sull’uso ornamentale del colore e sulla funzione sociale dell’ornamento in generale Kant si soffermerà in KU, § 41, 297 (it. 154-155). 51 KU, § 42, 302 (it. 159-160). 52 Sulla connessione fra “linguaggio” in senso lato (ossia fra “codice” o “sistema di opposizioni”) e forma nel passo citato nel testo cfr. pure C. La Rocca, Forme et signe dans l’ethétique de Kant, in AA.VV., Kants Ästhetik – Kant’s Aesthetics – L’esthétique de Kant, hrsg. v. H. Parret, De Gruyter, Berlin-Nw York 1998, p. 538. 49 individuati da Newton nello spettro, con l’aggiunta del bianco, ossia della loro somma nella sintesi additiva)53, con quello soggettivo, ossia con l’apertura in direzione teleologico-metafisica suggerita dalla concezione dell’arte e del bello in generale come simbolo della moralità. In qualche modo, i colori assumono un valore analogo, e svolgono un ruolo analogo, a quello delle idee e degli attributi estetici discussi nel § 49: anche quelli infatti sembrano esibire, sia pure in modo ancora più inadeguato, indiretto ed ellittico di questi ultimi, i concetti della ragione nel fenomeno54. Se considerata da questo punto di vista, l’enumerazione dei rapporti fra la scala cromatica di Newton e i valori morali che rinviano al noumeno tiene, per così dire, luogo di deduzione di quelle modificazioni sensoriali che sono i colori. L’ultimo rilievo teoreticamente importante intorno ai fenomeni cromatici è inserito nel § 51, dedicato alla suddivisione e alla gerarchia delle arti. Ivi l’“arte del bel gioco delle sensazioni” (ossia la musica e il cromatismo) occupa il posto più basso55. Dalla contorta delucidazione che Kant offre emergono diversi spunti problematici. In primo luogo, ritorna in gioco il tema delle quantità intensive: tale arte “non può riguardare se non la proporzione dei diversi gradi della disposizione (tensione) del senso cui la sensazione appartiene, cioè il tono di questo senso”56. Il riferimento, sia pure assai oscuro ed impreciso, al tema del continuo e delle variazioni cromatiche e tonali (che chiama nuovamente in causa la temporalità, per altro expressis verbis menzionata poco dopo) fa presagire che Kant voglia attribuire ora una rilevanza maggiore che in precedenza alla questione della collocazione di colori e suoni nell’ambito della scienza della natura e che, nuovamente, connetta colori e note al bello, anziché al meramente gradevole, proprio in virtù di tale presupposto di carattere oggettivo presente nella loro produzione, oltre che in virtù della presenza di precisi rapporti armonici nella musica e nel cromatismo. Ma che egli oscilli fortemente fra le due soluzioni lo rivela il passaggio immediatamente successivo, in cui sostiene che non si può decidere se il possesso di una sensibilità cromatica o musicale “abbia a fondamento il senso o la riflessione”. A far pendere la bilancia in questa seconda direzione starebbe il fatto che esistono casi di cecità per i colori e di assoluta incapacità di discriminare i suoni, pur in presenza di apparati 53 Il “newtonismo” di Kant in questo contesto è sottolineato, ma senza alcun accenno alla sua preferenza per la teoria di Eulero, da M. Élie, op. cit., p. 91, nota 2. Si osservi inoltre che il passo in questione corrobora l’ipotesi formulata in precedenza sull’identificazione dei colori puri o semplici con quelli spettrali. Alquanto diversa è l’origine della correlazione fra numero dei colori e delle note secondo l’Aggiunta al § 39 di ApH (cfr. p. 194; trad. it., p. 81): sarebbero state le credenze religiose intorno alle proprietà sacre del numero sette ad indurre gli uomini a conferire ad esso un carattere di necessità fatale e di segno magico. 54 Sul concetto di “simbolo” in KU e sulla sua connessione con la tematica del sublime cfr. O. Meo, Il tragico nell’estetica di Kant, cit. 55 Sui debiti storici della gerarchia istituita da Kant ha attirato l’attenzione E. Migliorini, Il paragrafo 51 della Critica del giudizio: Batteux e Kant, in “Rivista di storia della filosofia”, 1984, pp. 283-291. 56 KU, § 51, 324 (it. 185). 50 sensoriali perfetti57. D’altro canto, però, Kant non può neppure porsi in aperta contraddizione con quanto ha affermato fin dall’inizio dell’opera, ossia che il colore concerne esclusivamente l’attrattiva e non vi è incluso il piacere per la forma. Quale sarà dunque la soluzione? Se si guarda all’incapacità di cogliere analiticamente la scansione temporale della luce e del suono, ossia i fattori empirici oggettivi su cui si basa la teoria ondulatoria (per la quale Kant mostra ancora una volta la sua preferenza rispetto a quella corpuscolare di Newton)58, si dovranno collocare musica e cromatismo da lato del gradevole. Se però si guarda alla possibilità di operare una scansione analitica, ossia di procedere con il rigore matematico richiesto in ambito scientifico, allora è giocoforza che intervenga la riflessione (ossia: le facoltà conoscitive, in senso del tutto vago) e che – grazie alla scoperta delle leggi dell’armonia tanto cromatica quanto musicale – l’interesse si sposti dal gradevole al bello. Ma a supporto dell’ipotesi che Kant propenda per quest’ultima soluzione, più conforme per altro non solo all’impostazione teoretica generale del suo pensiero, ma anche alla Stimmung specifica della III Critica (tutta tesa a rilevare il rapporto fra le facoltà e le dimensioni “ontologiche” consentito da quel Mittelglied che il Giudizio riflettente rappresenta), si può addurre la definizione iniziale della musica e del cromatismo come arte del bel gioco delle sensazioni e non anche come arte delle sensazioni gradevoli. E ricordando che bellezza significa sempre in Kant ordine gestaltico, proporzione fra le parti dell’oggetto, regolare misura59, potremmo ora chiederci: che cosa può dare il senso dell’armoniosa disposizione, meglio della scoperta del rigoroso carattere matematico della composizione cromatica e musicale, che è così conforme all’oggettiva legge di natura consistente nella regolare frequenza delle onde luminose e sonore nell’etere60? In virtù del progressivo conferimento di oggettività al colore, tende dunque ad attuarsi la sua trasformazione da fenomeno gradevole a fenomeno bello, che – sul piano estetico – non si traduce comunque in presa d’atto dei limiti della tradizionale teoria dell’assoluta supremazia del disegno. Tuttavia, proprio grazie a questa tendenziale collocazione del colore dal lato degli eventi oggettivi 57 Gli esempi su cui Kant basa la sua affermazione sono menzionati nella lettera a C.F. Hellwag del 3 genn. 1791 (in Kant’s ges. Schriften, Bd. XI, De Gruyter, Berlin 1922, n. 461, pp. 244-247; trad. it. in Epistolario filosofico (1761-1800), a cura di O. Meo, Il melangolo, Genova 1990, pp. 248-255). Hellwag fu sicuramente il primo a rilevare le difficoltà provocate dal contrasto fra la definizione di musica e cromatismo come bel gioco di sensazioni e come gioco di sensazioni gradevoli (cfr. la sua lettera a Kant del 13 dic. 1790, n. 460). Vi è poi da aggiungere che nella sua risposta Kant non si soffermò affatto sul tentativo di soluzione proposto da Hellwag, e, come si sa, i suoi silenzi su punti spinosi della dottrina sono più eloquenti delle giustificazioni esplicite. 58 Conforme a Newton è tuttavia la tesi dell’analogia fra divisione dei colori e divisione delle note musicali. Nella sua lettera Hellwag cita altri due notevoli precursori: Athanasius Kircher (autore nel 1646 di una Ars magna lucis et umbrae e apprezzatissimo da Goethe per la sua definizione del colore come lumen opacatum) e Louis Bertrand Castell (che inventò un pianoforte cromatico e pubblicò nel 1740 L’optique des couleurs). 59 All’affinità fra musica e cromatismo come “gioco regolare di sensazioni” Kant accenna pure nel § 18 di ApH (p. 155; trad. it., p. 40). Il passo è molto interessante sotto il profilo semiotico, perché connette, sia pure oscuramente ed imprecisamente, il carattere di gioco aconcettuale delle due arti e il fungere di note e colori come veicolo di “comunicazione dei sentimenti a distanza” con l’arbitrarietà del segno. 60 Limitatamente alla musica, cfr. pure KU, § 53, p. 329 (trad. it., p. 190): l’accordo proporzionato dei suoni è riconducibile a regole matematiche in quanto poggia su rapporti quantitativi delle vibrazioni dell’aria. 51 di natura, si possono considerare le frammentarie osservazioni di Kant come tappe del cammino che egli sta percorrendo in direzione del reperimento di un principio a priori che funga da fondamento trascendentale, ma che al tempo stesso abbia una validità esplicativa riconosciuta dalla comunità scientifica. In sostanza, poiché, nell’estremo tentativo di costruire il sistema della fisica costituito dalle pagine sparse dell’Opus postumum61, questo principio capace di collegare come Mittelglied il piano delle condizioni a priori con il piano epistemico è da lui individuato per l’appunto nell’etere62 (ossia in quel mezzo elastico ipotizzato dai fisici che consentirebbe a luce e suono di propagarsi e di sviluppare in tal modo il loro gioco) l’analisi della struttura del colore e del suono sembra inserirsi con perfetta coerenza, sia pure con le cautele richieste dalla mancanza di organicità delle riflessioni di Kant, nel suo estremo tentativo di attuare il “passaggio dai principi metafisici della fisica alla fisica”. 61 Spetta a G. Lehmann (Kants Nachlaßwerk und die Kritik der Urteilskraft, in Beiträge zur Geschichte und Interpretation der Philosophie Kants, De Gruyter, Berlin 1969, pp. 295-373) il merito di aver richiamato l’attenzione sulle profonde connessioni fra KU e l’Opus postumum. Sui complicati problemi interpretativi (anche testuali) posti da quest’ultimo lavoro kantiano cfr. V. Mathieu, La Filosofia trascendentale e l’“Opus postumum” di Kant, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1958. 62 Come è noto (cfr. l’Introduzione di V. Mathieu alla trad. it. da lui curata dell’Opus postumum, Zanichelli, Bologna 1963, p. 31), l’oscillazione dell’ultimo Kant fra la preferenza per l’etere e quella per il calorico indica un’incertezza terminologica più che sostanziale. In uno degli scarni accenni al problema del colore contenuti negli appunti dell’ultimissimo Kant, il “calore come materiale [Stoff]” è contrapposto, in quanto unità al pari dello spazio (e dunque in quanto trascendentale e a priori), alla luce, che - con chiara risonanza newtoniana - risulta qualitativamente scomponibile in una pluralità: i colori, appunto (cfr. Kant’s ges. Schriften, Bd. XXI, De Gruyter, Berlin 1936, p. 93; trad. it., p. 370). Come si può facilmente constatare da questa e da un’altra annotazione in cui, dopo aver accostato il “gioco dei colori” alla musica e al canto, Kant menziona la luce, la distinzione fra actus continuus e interruptus nonché Newton (ibid., p. 68), il suo interesse si è ormai spostato decisamente verso le questioni più strettamente epistemologiche e dunque verso il lato dell’oggettività. Occorre comunque aggiungere che in altri pensieri sparsi dello stesso torno di tempo viene tenuto saldo il fondamento gnoseologico di KrV: la luce, ossia l’elemento oggettivo, presuppone il vedere, ossia l’elemento soggettivo (cfr. per es. ibid., pp. 24 [trad. it., p. 350] e 69). 52 III VERITA’ LOGICA E LOGICA DELLA VERITA’ Secondo Ernst Cassirer, il “problema” di Kant in relazione alla teoria della verità è il seguente: “Come è possibile, nonostante la finitezza che proprio Kant ha messo in luce, che ci siano verità universali e necessarie? Come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Ossia giudizi che nel loro contenuto non sono unicamente finiti, ma universalmente necessari?”1. In tal modo Cassirer fa coincidere assai opportunamente le riflessioni kantiane intorno alla verità con il problema fondamentale della I Critica intesa come teoria generale della conoscenza. In effetti, il suo giudizio appare giustificato qualora si conceda il valore di un’affermazione di principio dotata di fondamento alla dichiarazione del § IV dell’Introd. alla Logica trascendentale secondo cui l’Analitica trascendentale (s’intende: nel suo complesso) è “una logica della verità”2. In questo caso, infatti, si attribuisce effettivamente al sistema delle strutture a priori della conoscenza nel loro complesso l’universalità e la necessità che si esigono per una teoria esplicativa generale dell’esperienza, sia dal punto di vista gnoseologico sia da quello epistemologico; ossia si concepisce il sistema come un orizzonte tale, da garantire valore nomologico ai giudizi sintetici a priori. Perché Kant fa una dichiarazione così impegnativa sotto il profilo logico, gnoseologico e ontologico-metafisico? Perché si compromette fino a sottoporre imprudentemente a giudizio globale il sistema dei fondamenti a priori della conoscenza, quasi che fosse possibile collocarsi al di fuori di esso e abbracciarlo a volo d’uccello, varcando il limite di demarcazione assoluto che egli stesso ha fissato al conoscere? Quale è, in sostanza, il suo obiettivo e quali ne sono le premesse logicoepistemologiche? Per rispondere a queste domande, è indispensabile addentrarsi nei meandri dell’analisi dei passaggi testuali in cui Kant discute expressis verbis il concetto di “verità”. 1- La “definizione nominale” di verità. Il punto di partenza per l’analisi è costituito dal § III della già citata Introd. alla Logica trascendentale, su cui l’attenzione di alcuni interpreti si è a torto esclusivamente appuntata. Come ricorda Gerold Prauss in un articolo non privo di qualche eccesso di zelo filologico, nessuno dei lettori “storici” della I Critica, da Hegel a Heidegger, passando per Brentano, ha mai messo in dubbio che Kant desse per “ammessa e presupposta” nella sua opera la concezione della verità come adaequatio intellectus et rei3. Soprattutto in area angloamericana si è per contro diffusa l’idea 1 Cassirer fece questa osservazione nel 1929 durante la Davos Disputation con Heidegger (trad. it. in M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 222). 2 KrV A 55/ B 82 (it. 101). 3 Cfr. G. Prauss, Zum Wahrheitsproblem bei Kant, in “Kant-Studien”, 1969, p. 167. 53 che Kant non si limiti affatto ad accogliere acriticamente la vecchia prospettiva corrispondentista, ma propenda piuttosto (non importa se consapevolmente o inconsapevolmente) per una teoria coerentista della verità. Tale interpretazione fa leva sul principio fondamentale della fenomenicità della conoscenza e si presenta in due varianti principali: la prima, più diretta, afferma il coerentismo di Kant sulla base della tesi del reciproco sostegno fra strutture cognitive e oggetti esperienziali in funzione della costruzione di giudizi sintetici a priori4; la seconda, più indiretta, nega il corrispondentismo di Kant sulla base della tesi dell’assoluta inaccessibilità della cosa in sé alla conoscenza finita5. Come stanno veramente le cose? Kant inizia il suo discorso ricordando che con la domanda “che cosa è la verità?” si credeva in antico di mettere in imbarazzo i logici, in modo da costringerli a cadere in un “misero diallelo [Diallele]” o da convincerli a riconoscere la propria ignoranza, non minore per altro di quella degli stessi interroganti, ossia degli scettici. A questo punto segue la frase che costituisce l’oggetto preferito delle attenzioni degli interpreti: “La definizione nominale [Namenerklärung] della verità, ossia che essa sia la concordanza [Übereinstimmung] della conoscenza con il suo oggetto, è qui ammessa e presupposta” 6. Ora, senza entrare nel merito delle sottili argomentazioni linguistiche e grammaticali con cui Prauss si sforza di mostrare che in realtà l’avv. “qui” ha valore temporale e non locativo e che si riferisce perciò alle antiche discussioni fra scettici e dogmatici e non al contesto della Critica7, si può senz’altro convenire che Kant non è soddisfatto della sola “definizione nominale”. Subito dopo, egli aggiunge infatti che quello che davvero si esige (o, seguendo Prauss, che gli scettici esigevano) Cfr. a questo proposito N.K. Smith, A Commentary to Kant’s “Critique of pure Reason”, Humanities Press International, Atlantic Highlands (NJ) 1992 (rist. dell’ed. London 1923), pp. XXXVI-XXXIX e 36-37: poiché sono sintetici a priori, i principi fondamentali dell’esperienza non possono essere fondati né sull’autoevidenza né sull’induzione; l’unica soluzione possibile è che essi si autoconfermino mediante la loro capacità di dar conto dei fenomeni e che questi ultimi siano conformi ai principi. Così facendo, Smith centra a suo modo il problema che, come si vedrà, anche Kant pone esplicitamente: quello della circolarità della verità. 5 Così, per es., si esprime N. Rescher: “In considerazione della pesante ombra gettata sulla concezione della adaequatio intellectus et rei dalla critica scettica di Kant alla cosa in sé, non è sorprendente che la tradizione filosofica postkantiana abbia cercato la propria teoria della verità altrove che nella corrispondenza” (Die Kriterien der Wahrheit, in AA.VV., Wahrheitstheorien, hrsg. v. G. Skirbekk, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1980, p. 346). A questa posizione si può affiancare quella di H. Putnam, Reason, Truth and History, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1985, p. 72: Kant potrebbe essere considerato un sostenitore della teoria della verità come corrispondenza se pensasse ad una rassomiglianza diretta fra le nostre rappresentazioni e le cose in sé e/o sostenesse un “isomorfismo astratto” fra i fenomeni e i noumeni. Si potrebbe obiettare però che, oltre a questo corrispondentismo forte o radicale, che Putnam considera caratteristico dei “realisti metafisici”, è possibile ipotizzarne un altro, più debole, in cui l’adaequatio sussista fra i giudizi e le cose in quanto fenomeni. Da questo punto di vista, si potrebbe sostenere che la posizione di Kant implica una doppia teoria della verità come corrispondenza: la prima, metafisica, relativa al rapporto con le cose in sé; la seconda, critica, relativa alla conoscenza dei fenomeni. 6 KrV A 52/B 79 (it. 98). La terminologia qui usata mostra che Kant ha presente la duplice valenza logica e grammaticale del greco dia/llhloj (sott. tro/poj), che assume sia il significato di “circolo vizioso” sia quello di “definizione nominale” o “esplicitazione verbale”. Per quanto concerne la trad. it. del termine Diallele, lo scrupolo filologico mi induce a preferire il masch. “diallèlo”, attestato nei vocabolari della lingua italiana, rispetto alla forma “diallele” (per lo più al femm.), riportata nelle versioni italiane di Kant e nei lessici filosofici. 7 L’interpretazione di Prauss è stata contestata da H. Wagner, Zu Kants Auffassung bezüglich des Verhältnisses zwischen Formal- und Transzendentallogik. Kritik der reinen Vernunft A 57-64/B 82-88., in “Kant-Studien”, 1977, pp. 71-76. 4 54 di sapere è “quale sia il criterio universale e sicuro della verità di ogni conoscenza”. Dato per scontato che, nella sua tradizionale formulazione, la risposta alla domanda “che cosa è la verità?” sia quella che così poco piaceva agli scettici e che si risolveva in un diallelo, il problema è propriamente procurare un fondamento alla definizione nominale mediante quella che, conservando i termini della scuola leibniziana, potremmo chiamare la definizione reale della verità; in altre parole, si tratta di stabilire non quale sia l’essenza della verità (questione per altro poco consona allo spirito della Critica), ma quali siano le condizioni della sua possibilità. Per questa ragione si può concludere con Cassirer che la domanda intorno alla verità coincide con il senso stesso dell’impresa critica, i cui presupposti universali e necessari sono fissati nell’Analitica trascendentale: stabilire le condizioni a priori della possibilità della verità equivale a stabilire quali siano le condizioni a priori della possibilità della conoscenza in generale, dal momento che – come Kant non si stanca mai di ripetere – essa è tale soltanto in rapporto ad oggetti esperienziali. E’ evidente, dunque, che si presenta implicitamente qui un riferimento alla domanda che significativamente Kant pone come centrale nell’Introd. generale all’opera: “come sono possibili giudizi sintetici a priori?”. Ma per quale ragione la vecchia definizione nei termini dell’adaequatio non è sufficiente? E come si può davvero stabilire un “criterio universale e sicuro” della verità? Per rispondere alla prima domanda, occorre innanzitutto vedere in che consista il “diallelo” rimproverato dagli scettici ai logici, cui sarebbe forse più pertinente aggiungere l’attributo “dogmatici” o “scolastici”. Un’indicazione esplicita ce la fornisce il § VII dell’Introd. alla Logik, dove, più chiaramente che nella Critica, la domanda “che cosa è la verità?” significa “se e in quale misura vi sia un criterio della verità sicuro, universale ed utilizzabile nell’applicazione”8. Il circolo sorge, sostiene qui Kant, perché io posso confrontare l’oggetto con la conoscenza solo per il fatto che lo conosco. Dunque la mia conoscenza deve confermarsi da sé. Ma ciò non è sufficiente per stabilire la verità: poiché l’oggetto è fuori di me e la conoscenza è in me, posso giudicare soltanto se la mia conoscenza dell’oggetto concorda con la mia conoscenza dell’oggetto 9. E’ noto come Hegel abbia rivolto allo stesso Kant l’accusa di non essere in grado di uscire dalla soggettività con la sua ricerca di un fundamentum inconcussum e di non approdare a nulla con la sua pretesa di chiarire il metodo prima di applicarlo. Se a questa obiezione affianchiamo il paradosso rilevato da Cassirer, sembra lecito nutrire qualche dubbio sulla buona riuscita dell’impresa critica: a Kant 8 Logik, p. 50 (trad. it., p. 44). Cfr. pure la Reflexion n. 2143, in Kant’s gesammelte Schriften, Bd. XVI, De Gruyter, Berlin 1924, p. 251: “Il mio giudizio deve concordare con l’oggetto. Ora, posso confrontare l’oggetto con la mia conoscenza solo per il fatto che lo conosco. Diallelo”. 9 55 l’oggettività dell’oggetto sarebbe sempre sfuggita e alla pretesa fondazione trascendentale della conoscenza sarebbe possibile muovere la stessa accusa degli scettici ai logici dogmatici 10. In realtà, sul piano logico, il vizio rilevato da Kant è soltanto uno dei problemi posti dalla definizione della verità come adaequatio. A complicare ulteriormente le cose interviene, nella sua stessa formulazione della teoria corrispondentista, la confusione fra due accezioni diverse del termine “conoscenza”, che significa talora “giudizio” e talora “sapere”: esiste un’evidente differenza fra proferire l’enunciato (asserire che) ‘s è p’ e sapere che s è p. Indipendentemente da ciò, è chiaro che Kant si è bene avveduto almeno di alcune delle difficoltà logiche connesse con il concetto di verità: la sua insistenza sulla necessità del reperimento di un “criterio” sicuro della verità costituirebbe una sorta di exhortatio rivolta a se stesso e la menzione del diallelo avrebbe la funzione di una sorta di promemoria del pericolo da evitare11. Il fatto è che egli questo “criterio” pensa proprio di averlo trovato e di differenziarsi in tal modo sia dai logici dogmatici sia dagli scettici. In tal modo, un chiaro legame unisce queste considerazioni introduttive sul problema della verità alla Confutazione dell’idealismo inserita nel corpus della II ed. della Critica, allorché egli si preoccuperà di superare lo scetticismo intorno alla realtà dell’esistenza degli oggetti fuori di noi imputato a Cartesio, ossia di colmare lo iato fra conoscenza dell’esterno e conoscenza dell’interno, conformemente all’intento generale della sua gnoseologia, che non è certo quello di ridurre il fenomeno al noema di una noesis o al positum di un ponere. In attesa di precisare meglio i caratteri dell’indagine sulla verità compiuta da Kant nel corso del confronto che in diverse riprese egli ebbe con l’idealismo nelle sue varie versioni, si può fin d’ora anticipare che l’errore di Cartesio (ossia dell’idealismo cosiddetto “problematico”) consiste nel presupporre necessariamente ciò che intende dimostrare, ossia che è impossibile accertare inconfutabilmente la realtà degli oggetti esterni. Ciò, perché un tale idealismo intriso di scetticismo presuppone che la conoscenza sia qualcosa di meramente interno al soggetto, e – muovendo da un tale presupposto – è assolutamente impossibile provare qualsiasi cosa che stia al di fuori di esso. Per realizzare un tale obiettivo, occorrerebbe che il soggetto potesse proiettarsi letteralmente fuori di sé oppure introiettare materialmente l’oggetto. Il che è per principio assurdo. In realtà, secondo Kant, ciò di cui l’idealismo à la Cartesio non tiene 10 In realtà, la versione kantiana del diallelo costituisce un accomodamento della più generale formulazione concernente il problema criteriologico reperibile in Sesto Empirico, che costituisce la sua fonte diretta. Su questi aspetti storico-filosofici cfr. G. Schulz, Veritas est adaequatio intellectus et rei. Untersuchungen zur Wahrheitslehre des Thomas von Aquin und zur Kritik Kants an einem überlieferten Wahrheitsbegriff, Brill, Leiden 1993, pp. 115-118. 11 Ciò giustificherebbe l’ipotesi di Prauss, secondo il quale la domanda “che cosa è la verità?” Kant la rivolge più a se stesso che ai logici dogmatici. Tuttavia, come ho già rilevato, Kant non è affatto interessato a stabilire l’essenza della verità: la sua preoccupazione è piuttosto quella di stabilirne la possibilità (o meglio: le condizioni della possibilità), ossia di darne appunto una definizione reale. Secondo H. Schnädelbach (Thesen über Geltung und Wahrheit, in AA.VV., Gedankenzeichen. Festschrift für K. Oehler, Stauffenburg, Tübingen 1988, p. 103), la trasformazione della domanda intorno all’essenza in domanda intorno ai criteri indica il fondamentale orientamento “normativo” di Kant e il suo interesse per il problema della “validità” più che per quello della verità, ossia il passaggio da una logica dei predicati ad un posto ad una logica dei predicati a tre posti. 56 conto è che l’esperienza interna e la conoscenza, per essere tali, presuppongono un’esperienza esterna, possibile soltanto in virtù del senso esterno e della sua forma: lo spazio. In mancanza di ciò, la presunta conoscenza dell’oggetto esterno è soltanto una rappresentazione soggettiva, che – in quanto tale – è insufficiente a provare l’esistenza reale di alcunché. In conclusione, il criterio cartesiano, quello dell’assoluta indubitabilità del cogito come fundamentum inconcussum, non gode affatto di forza probatoria e non riesce affatto a sollevarsi dal diallelo. Che la questione del criterio sia per Kant quella centrale lo mostra la riflessione immediatamente successiva a quella storico-teoretica con cui inizia il § III dell’Introd. alla Logica trascendentale. La domanda intorno all’essenza della verità “è assurda e richiede risposte inutili”12. Ci si chiede: la domanda è assurda perché è ovvia e perché scontata è la risposta, oppure perché costringe l’interrogato a cadere in un circolo vizioso? Secondo Prauss, la domanda è assurda perché è posta alla persona sbagliata: al logico formale anziché al logico trascendentale13, il quale – evidentemente si suppone – saprebbe bene come rispondere. In realtà, però, come mostrano anche altri luoghi della Critica in cui è riaffermata la validità della concezione della verità come adaequatio, Kant non vuole dire che la definizione nominale è sbagliata e che totalmente altra è l’essenza della verità. Anche se di fatto, come si vedrà, la definizione nominale copre soltanto una parte (e non certo quella fondamentale) del campo semantico del concetto di verità, Kant non la mette mai davvero in discussione14; né può farlo, considerato che il suo obiettivo fondamentale, quello di legittimare la validità della conoscenza scientifica, non può essere realizzato con gli strumenti della logica intensionale di Leibniz, ma esige l’adozione del criterio estensionale. Sottolineando l’incongruità della domanda e l’inutilità della risposta, Kant vuole soltanto dire che né il logico dogmatico né lo scettico sono in grado di soddisfare i requisiti per il reperimento di quel criterio di cui si va in cerca e che solo garantisce il possesso definitivo della verità; si intende: rimanendo entro l’orizzonte all’interno del quale è concesso all’uomo esercitare il controllo sulle proprie operazioni mentali, entro l’orizzonte cioè della metafisica intesa come “scienza dei limiti dell’umana ragione”. Se, per quanto concerne la posizione dello scettico, possiamo riferirci utilmente alla Confutazione dell’idealismo della II ed. della Critica e ad altri luoghi con essa collegati, la dimostrazione dell’inefficacia del criterio del logico dogmatico (ossia dell’irrealizzabilità delle sue pretese olistiche) Kant la dà in questo stesso contesto. Due sono i passi del suo ragionamento. Il 12 KrV B 79 (it. 98). Cfr. G. Prauss, op. cit., p. 170. 14 Cfr. in proposito anche la perentoria affermazione reperibile in una riflessione rapsodica in tema di “semantica trascendentale” appartenente alla collezione Kiesewetter (la Refl. n. 5663, sicuramente posteriore a KrV B e pubblicata originariamente con il titolo Sul significato formale e materiale di alcune parole): “Verità al singolare (usato 13 57 primo consiste nel negare che vi sia un criterio universale della verità per quanto concerne la sua materia. Nel tentativo di dimostrarlo si insinua infatti una contraddizione: “Se la verità consiste nella concordanza di una conoscenza con il suo oggetto, per ciò stesso questo oggetto dev’essere distinto dagli altri; infatti una conoscenza è falsa se non concorda con l’oggetto cui si riferisce, sebbene contenga qualcosa che potrebbe magari valere per altri oggetti. Ora, un criterio universale della verità sarebbe quello che fosse valido per tutte le conoscenze, senza distinzione dei loro oggetti. E’ tuttavia chiaro che, poiché si astrae in esso da ogni contenuto della conoscenza (riferimento al suo oggetto) e poiché la verità riguarda proprio questo contenuto, è affatto impossibile ed assurdo andare in cerca di una marca della verità di questo contenuto delle conoscenze, ed è dunque chiaro che è impossibile addurre un contrassegno sufficiente e tuttavia al tempo stesso universale della verità. Poiché sopra abbiamo già chiamato il contenuto di una conoscenza la materia di essa, si dovrà dire: non si può pretendere un contrassegno universale della verità della conoscenza quanto alla materia, poiché ciò è in se stesso contraddittorio”15. In altri termini: coerentemente con l’assunto secondo cui conoscere è giudicare, e il giudicare consiste nell’attività di distinguere e comparare, conoscere presuppone un criterio di differenziazione. Asserire che non esiste un criterio universalmente valido di verità significa dunque che la questione della verità va decisa caso per caso, in relazione ai singoli oggetti cui ci si riferisce nel giudizio conoscitivo. Con l’introduzione di questo criterio finito di verità è già ampiamente prefigurato il ruolo dell’Analitica trascendentale, che avrà il compito di stabilire quali sono le condizioni di possibilità della conoscenza in relazione alla concreta esperienza, cioè in funzione gnoseologica ed epistemologica. Ma sono anche prefigurati la polemica contro lo Schein dell’Introd. alla Dialettica trascendentale e, più in generale, il ruolo della Dialettica trascendentale nel suo complesso, che è quello di delimitare le pretese conoscitive della ragione in relazione ad alcuni determinati “oggetti”: vi si accerterà infatti proprio quanto Kant qui sostiene, ossia che la conoscenza a noi possibile contiene “qualcosa” che vale per oggetti diversi da quelli noumenici, in relazione ai quali essa si rivela fallimentare. Di pari impegno logico-ontologico è il secondo passo del ragionamento kantiano, concernente la forma della conoscenza e dunque l’esposizione della validità formale dei criteri di verità: “Ma per ciò che concerne la conoscenza quanto alla mera forma (mettendo da parte ogni contenuto), è parimenti chiaro che una logica, in quanto espone le regole universali e necessarie dell’intelletto, proprio in queste regole deve esibire criteri della verità. Infatti ciò che le contraddice è falso, poiché l’intelletto contrasta allora con le sue regole generali del pensiero, e perciò con se stesso. Ma questi criteri concernono solo la forma della verità, cioè del pensiero in generale, e sono dunque affatto corretti, ma non sufficienti. Infatti, sebbene una conoscenza possa essere perfettamente conforme alla forma logica, cioè non contraddica se stessa, nondimeno essa può sempre contraddire l’oggetto. Dunque il criterio meramente logico della verità, ossia la concordanza di una conoscenza con le leggi generali e formali dell’intelletto e della ragione, è bensì la conditio sine qua non, dunque la condizione negativa della verità; ma la logica non può andare oltre, e non può scoprire mediante alcuna pietra di paragone l’errore che non colpisca la forma, ma il contenuto” 16. formaliter e qualitative) è la concordanza della nostra conoscenza di un oggetto con esso; verità al plurale (usato materialiter e quantitative) sono le proposizioni vere” (Kant’s ges. Schriften, cit., Bd. XVIII, 1928, p. 323). 15 KrV A 52-53/B 79 (it. 99). 16 KrV A 53/B 80 (it. 99). 58 Con ciò sono fissati i limiti rigorosi che una logica formale non può assolutamente varcare. La condizione di cui parla Kant vale, secondo la lezione di Leibniz, per qualsiasi intelletto in generale (sia esso finito o infinito), indipendentemente dal contenuto cui si applica la conoscenza (e dunque cui si applica il giudizio teoretico), ed è senza dubbio analitica, giacché definisce a priori la situazione del nostro intelletto, ne è costitutiva. Ma sappiamo bene che Kant guarda con sospetto la dimensione meramente analitica del conoscere. Da questo punto di vista, le sue considerazioni fanno da pendant a quelle intorno all’insufficienza del sapere universale e necessario garantito dai giudizi analitici a priori. Ma la critica all’analiticità della logica formale (e dunque la critica a Leibniz e alla scolastica leibniziana) costituisce soltanto uno degli aspetti dell’opposizione di Kant nei confronti della tradizione. Vi è, implicita fra le righe del discorso, una più sottile venatura polemica, che intende colpire, attraverso l’impianto logico della scolastica leibniziana, la sua ontologia. Da un lato, il mero “criterio logico della verità” (ossia la concordanza di una conoscenza con le leggi universali e formali di intelletto e ragione) rinvia alla tradizionale dottrina dei “trascendentali”, che – come si vedrà più avanti – Kant criticherà esplicitamente nel § 12 della II ed. della Critica, senza tuttavia riuscire definitivamente a liberarsene. Dall’altro lato, sul principio di contraddizione si fonda – come è noto – il concetto leibniziano di possibile, il quale costituisce a sua volta la base per la prova ontologica. Ma basando la sua versione della prova ontologica sulla mera possibilità logica, identificando cioè il possibile con ciò la cui esistenza non implica contraddizione, Leibniz non esce in realtà dalla sfera della “forma”. L’esame del criterio logico della verità serve dunque a Kant per contestare la definizione reale nel senso leibniziano del termine. Per Leibniz la definizione nominale è l’enumerazione dei caratteri di un’idea, è un aggregatum notarum che consente di distinguere il definitum da tutto il resto; alla definizione reale corrisponde per contro una conoscenza adeguata. E ciò implica la possibilità a priori, perché il conseguimento di una conoscenza adeguata presuppone che si sia condotta l’analisi del concetto fino alla fine senza incontrare contraddizioni (la cui assenza costituisce per l’appunto la possibilità). Un’idea è in sostanza adeguata quando è interamente risolta nei suoi elementi semplici; ed è allora vera, cioè non contraddittoria. E poiché non contraddittorio equivale a possibile, “vero” in questo senso non significa nulla più che possibile nel senso logico. Ma se stabilire la verità (di un concetto o di un enunciato) significa risalire al suo fondamento assoluto, ossia al principio di identitàcontraddizione, essa risulta alla fin fine determinata dalla natura logica dei termini analizzati. Detto altrimenti: la verità è già sempre insita in essi, in modo tale che ogni dimostrazione si può ridurre a definizione, giacché è sufficiente analizzare i termini per scoprirla. In tal modo, si istituisce una stretta relazione fra la teoria della verità e il principio fondamentale della logica di Leibniz: praedicatum inest subjecto. La conseguenza è ovvia: ogni conoscenza è, de jure e de facto, 59 analitica17. Ora, Kant non può certo condividere una concezione come questa, per la quale tutte le verità (sia quelle di ragione sia quelle di fatto) sono dimostrabili a priori, ossia si risolvono in identità. E’ chiaro che la conoscenza vera sul piano logico formale, consistente proprio in una dimostrazione fondata sull’analisi dei termini, non è altro che una conoscenza non autocontraddittoria e, in quanto tale, coincidente con la “consistenza” nel senso che i logici danno al termine, ossia con la coerenza18. Come si vedrà, Kant non respinge questo risultato, ma nemmeno giudica esaustivo il criterio della coerenza. E ciò proprio in nome della definizione reale di verità. Come egli stesso chiarisce nella I ed. della Critica in una nota del capitolo sul “fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in generale in phaenomena e noumena”, mentre la definizione nominale sostituisce al nome di una cosa altre e più comprensibili parole, la definizione reale “contiene in sé una chiara nota, grazie a cui l’oggetto (definitum) possa essere sempre riconosciuto con sicurezza, e che renda utilizzabile il concetto definito in vista dell’applicazione. La definizione reale sarebbe dunque quella che chiarisce non soltanto un concetto, ma al tempo stesso la sua realtà oggettiva. Le definizioni matematiche, che esibiscono nell’intuizione l’oggetto conformemente al concetto, sono di quest’ultima specie”19. La definizione reale si identifica cioè con quella che Wolff chiamava definitio genetica e che chiariva con un esempio ricorrente anche in Kant: la costruzione del cerchio mediante la rotazione di una linea intorno ad un punto fisso20. Ora, come si è visto, poiché si fonda sul principio di contraddizione, il criterio logico (universale e necessario) non è in grado di fornire questa definizione reale né dell’oggetto né della verità, giacché – come mostra il primo passo del ragionamento kantiano – vi si astrae dal rapporto della conoscenza con l’oggetto, ossia dal contenuto. Poiché dunque non vi si riesce a trovare una “nota” che funga da “marca della verità”, essa non risulta affatto definita in senso reale, né tanto meno risulta definito l’oggetto della conoscenza. Al criterio formale si può dunque continuare a muovere quella stessa obiezione di circolarità che lo scettico muoveva alla definizione nominale del logico dogmatico antico. Ciò significa che occorre abbandonare questo modo di procedere nell’ambito di una logica trascendentale, la quale intende dar ragione della validità oggettiva della nostra conoscenza (entro 17 Per una ricostruzione dei concetti di definizione e di verità analitica in Leibniz, cfr.: L. Couturat, La logique de Leibniz d’après des documents inédits, Olms, Hildesheim 1961 [rist. anast. dell’ed. Paris 1901], pp. 184-200 in particolare; G. Funke, Der Möglichkeitsbegriff in Leibnizens System, Köllner, Bonn s.d. [1938], pp. 42-43; Y. Belaval, Leibniz. Initiation à sa philosophie, Vrin, Paris 1975, pp. 110-111. 18 Cfr. G. Prauss, op. cit., p. 172. 19 KrV A 158 (it. 247). In KrV B 205 (it. 246) si trova un chiarimento assai più breve: definire in modo reale le categorie significa “rendere comprensibile la possibilità del loro oggetto”. 20 Cfr. C. Wolff, Logica, §§ 191, 194 e 195. In particolare: “definitio modum exponens, quod aliquid fieri potest, realis est” (§ 194). Per le premesse di questa concezione nel pensiero di Leibniz, cfr. L. Couturat, op. cit., p. 190, n. 3. Sul rapporto fra la logica di Leibniz e quella di Wolff, cfr. W. Lenders, Die analytische Begriffs- und Urteilstheorie von G.W. Leibniz und Chr. Wolff, Olms, Hildesheim 1971. Per quanto concerne in particolare la differenza fra il duplice concetto di definizione in Leibniz e Wolff, cfr. M.G. Lombardo, La forma che dà l’essere alle cose. Enti di ragione e bene trascendentale in Suárez, Leibniz, Kant, IPL, Milano 1995, pp. 233-235. 60 cui soltanto ha senso il concetto di realtà di una cosa in generale) e presenta proprio quel carattere di “costruttività” che costituisce il contrassegno della definizione reale. Cosa significa dunque “costruire” la verità, esibendo le sue note definienti, in modo tale che siano garantite la sua “realtà oggettiva” e più ancora (considerando che ci troviamo all’interno di una riflessione trascendentale) le condizioni della sua possibilità? L’intera questione è ripresa nel § VII dell’Introd. alla Logik. Dopo aver riportato per esteso l’argomentazione circolare in cui si risolve la definizione della verità come adaequatio, Kant sostiene che il vero punto in questione è se si dia un criterio di verità sicuro, universale, e utilizzabile nell’applicazione21. Sennonché la ricerca del criterio conduce agli stessi risultati raggiunti nella Critica. Alla domanda “c’è un criterio universale materiale?” la risposta è negativa. Alla domanda “c’è un criterio universale formale?” la risposta è positiva, giacché “la verità formale consiste esclusivamente nella concordanza della conoscenza con se stessa, facendo totalmente astrazione da tutti gli oggetti nel loro complesso e da ogni differenza fra di essi” 22. Ma ciò significa ribadire che il criterio formale di verità non giunge ad un risultato diverso rispetto al diallelo. Di conseguenza, esso coincide con la definizione nominale. A livello dei principi supremi della logica: non contraddizione significa autoidentità. In sostanza, si conferma l’identificazione leibniziana dei due principi23. Ad integrazione di quanto sostenuto nella Critica, si precisa ora che due sono i criteri formali della verità: il principio di contraddizione e il principio di ragion sufficiente. Mediante il primo si determina la possibilità logica, nel senso già chiarito secondo cui possibile è ciò la cui esistenza non implica contraddizione. Come nella Critica, si aggiunge anche qui che questo contrassegno della verità logica interna è soltanto negativo: “una conoscenza che si contraddice è bensì falsa, ma se non si contraddice, non è sempre vera” 24. Quest’ultima nota costitutiva del criterio di verità rappresenta una novità rispetto a KrV, giacché qui veniva attribuita alla definizione reale. 22 Logik, p. 51 (trad. it., p. 45). 23 Sull’accettazione da parte di Kant della regola leibniziana secondo cui il principio di identità-contraddizione è il fondamento della logica (formale) nel suo complesso cfr. J. Vuillemin, Reflexionen über Kants Logik, in “KantStudien”, 1960/61, p. 327. 24 Logik, p. 51 (trad. it., p. 45). Non mi pare che – come suggerisce Prauss (op. cit., p. 172, nota 35) – si possa desumere da questo passo che Kant ignora il problema della validità degli schemi di funzioni di verità semplicemente perché la giudica ovvia e banale e che per lui la logica formale ha a che fare solo con la “falsità logica” (cioè con la contraddizione) o con la “consistenza” (cioè con la non contraddizione). La tematizzazione della validità è infatti implicita nella congiunzione del principio di contraddizione e del principio di identità: ogni enunciato analitico è valido. Lo si vede chiaramente in quel caso limite di analiticità che è costituito dalla tautologia: p  p o (x) (Fx  Fx) sono tali da non veicolare alcuna informazione ulteriore sui membri dell’implicazione. E questo particolare caso Kant lo menziona esplicitamente nella nota al § 37 della Logik (p. 111; trad. it., p. 105): gli enunciati tautologici (cioè quei giudizi in cui l’identità è explicita) sono “virtualiter vuoti o vuoti di conseguenze; infatti sono inutili e inutilizzati”. Si potrebbe addirittura sostenere, con F. Barone (Logica formale e logica trascendentale. I. Da Leibniz a Kant, Edd. di Filosofia, Torino 1957, p. 158) e H. Schnädelbach (loc. cit.), che quelli logici sono per Kant criteri di validità formale e non di verità. Sull’analiticità delle forme logiche e delle loro relazioni cfr. pure P.F. Strawson, The Bounds of Sense. An Essay on Kant’s Critique of Pure Reason, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 64 e 66. 21 61 E nella I sez. dell’opera, con riferimento ai giudizi ipotetici: “In questi ultimi posso… congiungere fra loro due giudizi falsi, poiché qui importa soltanto la correttezza del legame – la forma della conseguenza, su cui poggia la verità logica di questi giudizi”25. Il che precisa meglio rispetto alla Critica il senso in cui si debba intendere che la non contraddizione è condizione negativa della verità. In primo luogo, le parole citate equivalgono ad affermare che la coerenza è condizione necessaria, ma non sufficiente della verità. In secondo luogo, ad essere sottolineato è lo scarto fra possibilità e realtà e, di conseguenza, vi è uno slittamento semantico nell’uso del termine “vero”. Emergono ora due concezioni della verità. Secondo la prima, essa coincide con la non contraddizione logica: si tratta del corrispondente del moderno livello sintattico26. In virtù della seconda, si esige la conformità rispetto all’oggetto: si tratta del corrispondente del moderno livello semantico. Poiché ciò che è vero rispetto alla forma risulta soltanto possibile quanto al contenuto, si riconferma quanto si era in precedenza anticipato, ossia che il ricorso al semplice concetto di possibilità non dà alcuna garanzia in relazione alla conoscenza sintetica e , dunque, alla costruzione dell’oggetto esperienziale. Il secondo criterio formale, il principio di ragion sufficiente (Satz des zureichenden Grundes)27, fornisce la fondazione logica, garantisce cioè che la verità di una conoscenza abbia le sue ragioni e che non abbia conseguenze false. Kant afferma che si tratta di un criterio “positivo” e lo espone ricorrendo alle due forme del modus tollens e del modus ponens: “1) Dalla verità della conseguenza si può concludere alla verità della conoscenza intesa come premessa, ma solo in modo negativo: se da una conoscenza deriva una conseguenza falsa, allora la conoscenza stessa è falsa. Infatti, se la premessa fosse vera, anche la conseguenza dovrebbe esserlo, perché la conseguenza è determinata dalla premessa. – Non si può però concludere inversamente: se da una conoscenza non deriva nessuna conseguenza falsa, allora quella è vera; infatti da una premessa falsa si possono trarre conseguenze vere. 2) Se tutte le conseguenze di una conoscenza sono vere, anche la conoscenza è vera. Infatti, se ci fosse anche solo qualcosa di falso nella conoscenza, si dovrebbe avere anche una conseguenza falsa” 28. 25 Logik, § 25, pp. 105-106 (trad. it., pp. 98-99). L. Menzel (Il problema della logica formale nella “Critica della ragion pura”, in “Il pensiero”, 1966, pp. 113-114) mette in relazione il concetto di verità formale di Kant con il “principio di tolleranza” di Carnap e con il più generale carattere di gioco governato da regole proprio della logica. Su quest’ultimo aspetto cfr. in particolare KrV B 17, nota (it. 26): “Per conoscere un oggetto si esige che io possa provare la sua possibilità (o muovendo dalla sua realtà sulla base della testimonianza dell’esperienza, oppure a priori mediante la ragione). Ma posso pensare ciò che voglio, purché non mi contraddica, cioè quando il mio concetto è soltanto un pensiero possibile, sebbene non possa decidere se, nel complesso di tutte le possibilità, ad esso corrisponda anche un oggetto, oppure no”. 27 Il termine Grund, che Kant usa in abbondanza in questo capoverso, significa “ragione” (e in questo senso è usato come trad. del latino ratio), “premessa”, “fondamento”, “principio” o addirittura, in un’interpretazione tecnicamente non troppo raffinata, “causa”. Ciò genera inevitabilmente qualche confusione. In particolare, la polisemia del termine non deve portare a confondere la ratio con la premessa di un sillogismo e l’antecedente di un’implicazione. 28 Logik, p. 52 (trad. it., p. 46). L’ultima proposizione del punto 1) mostra che Kant ha presente il problema del valore logico di verità di un giudizio. Se, come ha suggerito Menzel (op. cit., pp. 111-112), il modello dell’affermazione di Kant è costituito dall’implicazione materiale, ne risulta la corrispondenza con la tavola dei valori di verità, ove p  q risulta vero per p falso e q vero, nonché per p falso e q falso, ossia per la situazione cui si riferisce il passo sui giudizi ipotetici del § 25 della Logik poc’anzi riportato. Vi è comunque da notare che, conformemente alla tradizione, Kant applica il modus ponens e il modus tollens sia ai giudizi ipotetici sia ai sillogismi ipotetici, anche se non è affatto 26 62 Poiché, come è noto, il principio di ragion sufficiente è il fondamento delle verità di fatto, Kant è coerente con la tradizione leibniziana affermando nel compendio che conclude il § VII dell’Introd. che su di esso si fonda la “realtà (logica) di una conoscenza”29. A temperare la concessione, egli sostiene però che, nel caso del modus ponens non si può conoscere in modo apodittico la totalità delle conseguenze e che ci si deve pertanto accontentare di una conoscenza verisimile e ipotetica nella presupposizione che valga la regola di generalizzazione secondo cui “là, dove molte conseguenze sono vere, anche le rimanenti possano essere saranno tutte vere” 30. Oltre ai due principi fin qui discussi, Kant indica come terzo criterio logico il principio del terzo escluso: una conoscenza risulta necessaria poiché il suo contrario è contraddittorio e perciò impossibile. Il giudizio è in questo caso apodittico. L’autonomia del principio del terzo escluso rispetto a quello di ragion sufficiente (di cui era presentato come una sorta di specificazione nel corso dell’esposizione dettagliata dei criteri formali della verità) è data dal fatto che vi sono casi di disgiunzione finita in cui è possibile giungere per divisione del concetto alla determinazione di tutte le conseguenze possibili di una premessa. In questo senso già si esprimeva per altro il commento ai giudizi disgiuntivi nella Critica: gli enunciati conoscitivi che li compongono si escludono reciprocamente, e tuttavia “determinano nel loro complesso la vera conoscenza”, in quanto – presi tutti insieme – “costituiscono l’intero contenuto di un’unica conoscenza data”31. Al di là delle obiezioni che si possono muovere a Kant a proposito della mancata distinzione fra “conoscenza” e “giudizio” e di quella fra rapporto premessa-conseguenza e antecedenteconseguente, il risultato più evidente di questo giro d’orizzonte nell’ambito della logica formale in versione kantiana è l’insufficienza dei suoi principi ad una fondazione della conoscenza sintetica, e dunque della verità in senso non più formale, ma trascendentale-costitutivo. E’ quanto Kant si sforza di chiarire nella residua parte del § III dell’Introd. alla Logica trascendentale, respingendo il presunto uso sintetico della logica generale: essa è un “canone” e diventa logica dello Schein, ossia dialettica, quando pretende di trasformarsi in “organo” della conoscenza, esponendosi in tal modo alla salutare critica della Dialettica trascendentale. L’obiettivo, nonostante le conclusioni negative cui conduce il tentativo di fondazione logica, rimane infatti pur sempre quello di conseguire la verità, ossia – nei termini del dibattito convinto che questi ultimi siano veri e propri sillogismi (cfr. Logik, § 75 e le Refl. 3263-3265 in Kant’s ges. Schriften, Bd. XVI, cit., pp. 746-747). 29 Logik, p. 53 (trad. it., p. 47). 30 Ibid., p. 52 (trad. it., p. 46). Sul problema dell’ipotesi ritornerò più diffusamente nel § 3 con particolare riferimento ai suoi aspetti epistemologici. 31 KrV A 62/B 89 (it. 110). Sulla connessione fra i tre principi logici, le tre categorie della modalità (possibilità, realtà, necessità), i tre giudizi modali (problematico, assertorio, apodittico) e i tre di relazione (categorico, ipotetico, disgiuntivo) cfr. pure la lettera a K.L. Reinhold del 19 maggio 1789 (I. Kant, Briefwechsel, Bd. II, in Kant’s ges. Schriften, Bd. XI, cit., p. 45; trad. it. in Epistolario filosofico, cit., pp. 197-198). 63 contemporaneo – passare da una sorta di posizione “falsificazionista” ad una “verificazionista”. E’ possibile, in questa nuova prospettiva, un criterio universale e sicuro della verità? La risposta positiva a questa domanda è prospettata da Kant allorché definisce come una “logica della verità” l’Analitica trascendentale, ossia quella parte della Logica trascendentale che “espone gli elementi della conoscenza intellettuale pura e i principi senza i quali nessun oggetto può assolutamente essere pensato”32. La giustificazione kantiana della definizione merita di essere letta con attenzione: “Infatti nessuna conoscenza può contraddirla senza perdere al tempo stesso ogni contenuto, cioè ogni relazione con un oggetto qualsiasi, e quindi ogni verità” 33. In primo luogo, rientra qui in gioco il principio di contraddizione, ma con una significativa variante: la non contraddizione deve aver luogo fra la conoscenza da un parte e gli elementi e i principi della conoscenza in generale dall’altra. Ossia, a fornire ora il criterio di verità non sono i principi generali della logica classica (formale) filtrati attraverso la scolastica leibniziana, ma le strutture individuate dallo stesso Kant come presupposti a priori indispensabili della validità del conoscere. Sono queste strutture, e in primo luogo (ma non esclusivamente) le categorie, a garantire il valore oggettivo delle conoscenze esperienziali34. La soluzione adottata da Kant è però assai curiosa. Come si è visto, la non contraddittorietà è soltanto una condizione negativa della verità, nel senso che: 1) è condizione soltanto necessaria, ma non ancora sufficiente; 2) la conoscenza (o meglio: l’asserzione) contraddittoria è falsa, ma non abbiamo alcuna garanzia che quella non contraddittoria sia vera. Ragionando per analogia, dovremmo aspettarci qui qualcosa di simile: la conformità alle strutture cognitive (e in particolare alle categorie) dovrebbe essere un criterio negativo35. Ora, invece, nel caso della logica trascendentale non contraddizione non significa semplicemente possibilità nel senso logico, ma realtà, e per di più necessaria. La soluzione della difficoltà non è però lontana: soltanto mantenendo la propria aderenza alle strutture intellettuali, la conoscenza si pone infatti in rapporto con gli oggetti, ossia conserva il proprio contenuto. Non che il “canone” diventi “organo”, perché altrimenti si dovrebbe ammettere che la possibilità di emettere giudizi sintetici a priori sia illimitata, contro la tesi centrale della finitezza della conoscenza umana; oppure si dovrebbe ammettere che l’intelletto umano è in grado di creare i propri oggetti, contro la tesi della collaborazione di intelletto e sensibilità nella costruzione dell’oggetto esperienziale. E tuttavia il 32 KrV A 55/B 82 (it. 101). Ibid. 34 Sulla base delle esplicite dichiarazioni di Kant, pecca di unilateralità la tesi secondo cui la deduzione trascendentale sarebbe il luogo di fondazione della verità come adaequatio. Per questo problema, cfr. R. Hiltscher, Kants Begründung der Adäquationstheorie der Wahrheit in der transzendentalen Deduktion der Ausgabe B, in “KantStudien”, 1993, pp. 426-447. Sull’equazione fra verità e valore oggettivo della conoscenza e sulla coincidenza di quest’ultimo con il carattere di forme dell’unità dell’esperienza che è proprio delle categorie cfr. H.J. De Vleeschauwer, La Déduction transcendantale dans l’oeuvre de Kant, Garland Publ., New York-London 1976 [rist. anast. dell’ed. Antwerpen 1934/37], vol. II, p. 366. 33 64 contenuto dell’Analitica trascendentale è la verità; e poiché, secondo la nota definizione kantiana, “trascendentale” è ciò che concerne non direttamente il nostro rapporto con gli oggetti, ma il rapporto a priori fra la conoscenza e le strutture cognitive, è assai agevole concludere che la verità di cui egli sta parlando può essere chiamata “verità trascendentale”. In secondo luogo, sembra riaffermarsi la validità della definizione nominale di verità: se la conoscenza stesse in contraddizione con le strutture messe in luce dall’Analitica trascendentale, perderebbe ogni contenuto, cioè – aggiunge Kant – ogni verità intesa come riferimento ad un oggetto qualsivoglia. Ma occorre prestare bene attenzione alla formulazione della tesi. Egli non sta dicendo che la verità (quella oggetto dell’Analitica trascendentale) consiste nella concordanza fra conoscenza e oggetto in generale; sta dicendo piuttosto che la verità è il contenuto della conoscenza, cioè che la conoscenza si qualifica per il suo essere in relazione con l’oggetto, che la conoscenza è conoscenza di oggetti. E, nonostante la genericità dell’espressione, si tratta di oggetti ben determinati: quelli esperienziali. In caso contrario, si dovrebbe infatti ammettere che si possa avere conoscenza di quegli oggetti che – per definizione – sfuggono alla capacità conoscitiva dell’intelletto. In questo caso particolare, dunque, sebbene la verità sia colta nella rarefatta atmosfera trascendentale delle strutture a priori, non sussiste agli occhi di Kant alcun diallelo, né quel regressus in infinitum che – come si vedrà meglio in seguito – alcuni hanno rilevato. Come è possibile ciò? E’ possibile perché in realtà è qui da Kant “ammesso e presupposto” che l’unica conoscenza sia quella esperienziale (ossia quella propria della scienza), e che gli oggetti di questa conoscenza siano reali tanto quanto lo è il nostro atto conoscitivo mediante la sintesi a priori. Ossia: da Kant (s’intenda: da un Kant incurante delle difficoltà che la sua definizione di “trascendentale” procura) è ammesso e presupposto, in risposta ante litteram all’obiezione di Hegel, che non si può conoscere prima di conoscere. Ma se questa interpretazione è plausibile, è ancora possibile considerare la verità come adaequatio? E, di fatto, Kant la considera come tale, a dispetto delle numerose dichiarazioni sparse per la Critica? La risposta è insieme positiva e negativa. Positiva lo è in duplice senso. In primo luogo, perché il legame con l’oggetto esperienziale è condizione imprescindibile per la validità dei giudizi conoscitivi, e dunque per la costruzione di una scienza della natura fondata: come è stato da più parti rilevato, per un certo verso vi è una stretta correlazione fra il “criterio” logico-formale di Kant e la semantica di Tarski, giacché – in un senso abbastanza generale, ossia prescindendo dalle precisazioni e dalle restrizioni introdotte dalla “Convenzione V” – per entrambi vale che l’enunciato ‘s è p’ è vero se e solo se s è p 36. In secondo luogo, perché l’ancoraggio all’oggetto esperienziale Per l’obiezione, ibid., p. 367. Cfr.: G. Prauss, op. cit., pp. 176-177; D. A. Rohatyn, Commento critico al concetto di verità in Kant, in “Rivista di filosofia”, 1974, p. 223. E’ tuttavia opportuno ricordare che il concetto tarskiano di vero-in-L esclude la 35 36 65 impedisce lo sconfinamento nel noumenico e, in quanto tale, costituisce un argine sicuro al di qua del quale si ha universalità e necessità. La risposta è infine negativa, perché ciò che assume rilievo essenziale a questo punto è il concetto di oggetto. E’ questa una conclusione già sfiorata in precedenza: quando si dice che la conoscenza vera non riguarda il possibile, ma il reale, si ha in mente un’interpretazione del termine “verità” in forza della quale ad essere in questione non è il rapporto fra l’enunciato e la cosa, ma la struttura ontognoseologica di questa cosa stessa. Detto altrimenti: verità coincide con realtà. A ben vedere, è questo l’unico modo che Kant ha per sottrarsi all’identificazione leibniziana fra possibilità e realtà, fra verità e risoluzione analitica dei termini, sia essa attuale o soltanto attuabile in linea di principio. La contestazione della teoria dell’adaequatio non ha dunque di mira la logica formale in quanto tale (che conserva comunque una sua validità in quanto si occupa di principi necessari), ma quel tipo di logica che ignora lo scarto fra possibilità e realtà, e che anche quando istituisce una differenza fra di esse (e con la necessità), rimane pur sempre ancorata al piano della teoria tradizionale. 2- Idealismo e “verità trascendentale”. Un’interessante chiave per l’approfondimento della prospettiva che sottende l’idea di una “logica della verità” (evidentemente irriducibile a quella formale, sufficientemente munita contro gli attacchi degli scettici antichi e moderni e ben distinta dallo Schein trascendentale della Dialettica) ce la offre la critica, da Kant più volte ripresa, all’idealismo di Cartesio e di Berkeley. Se la celebre recensione di Garve-Feder aveva potuto rimproverare alla I ed. della Critica una certa inclinazione verso il soggettivismo esasperato di Berkeley, era giocoforza per Kant chiarire in modo opportuno il senso del proprio idealismo, allo scopo di sgombrare il campo da ogni equivoco ed allontanare il pericoloso sospetto di confusione fra realtà e mera parvenza, che l’affinità semantica, sonora ed etimologica fra Erscheinung e Schein contribuiva a nutrire. Affrontando – prima nei Prolegomena e successivamente nella II ed. della Critica – l’obiezione, Kant torna a parlare di verità e tenta pure di sottrarsi a quel circolo in cui inevitabilmente si risolve la definizione nominale. Nella nota III al § 13 dei Prolegomena egli cerca di mostrare come la distinzione di natura fra sensibilità e intelletto da lui istituita in contrapposizione a quella soltanto quantitativa o di grado dei leibniziani non autorizzi a pensare che il punto di approdo della teoria del fenomeno sia l’idealismo di Berkeley: “Quando ci è dato un fenomeno, siamo ancora del tutto liberi riguardo a come vogliamo giudicare la cosa. Quello, il fenomeno, poggiava sui sensi, ma questo giudizio poggia sull’intelletto, e ci si chiede solo se nella determinazione dell’oggetto vi sia o meno verità. Ma la differenza fra verità e sogno non possibilità di elaborare una teoria della verità per il metalinguaggio dall’interno di esso e coincide quindi con una posizione antitrascendentalista. 66 è costituita dalla natura delle rappresentazioni che sono riferite all’oggetto, perché queste sono della stessa specie in entrambi, ma dalla loro connessione secondo le regole che determinano il collegamento delle rappresentazioni nel concetto di un oggetto, e nella misura in cui esse possono coesistere o meno in un’esperienza” 37. Non dovrebbe costituire una difficoltà comprendere che in tutto questo contesto il termine “verità” è sinonimo di “realtà”: il senso dell’affermazione di Kant è ovviamente che il fenomeno è realtà, e non una proiezione fantastica del soggetto38. Ma alla base della scelta terminologica sta comunque la consapevolezza che la verità si trova nel giudizio conoscitivo, ossia in un’operazione di carattere squisitamente intellettuale39, e che è la conformità alle norme della sintesi esperienziale a garantire la corrispondenza fra giudizio conoscitivo e realtà. Con ciò Kant pensa di ottenere un primo risultato significativo: confutare la tesi che l’interpretazione della conoscenza come limitata ai fenomeni conduca ad equiparare l’esistenza ad una vita trascorsa in stato onirico, a confondere cioè la realtà con l’apparenza illusoria. In questo senso, continua l’autodifesa, a differenza dell’idealismo di Cartesio e di Berkeley, l’idealismo critico non mette in dubbio la reale esistenza delle cose, ma – affermando che la conoscenza è conoscenza di fenomeni – nega la conoscibilità delle cose in sé: i fenomeni non sono né cose, né proprietà di cose in se stesse, ma “modi di rappresentazione”40. A questo punto è tuttavia lecito chiedersi: se è vero che, secondo la ricostruzione che gli stessi Prolegomena ne fanno, per Cartesio la verità concerne l’indubitabilità del mio Io e la constatazione dell’impossibilità di provare l’esistenza del mondo, mentre per Berkeley concerne la riduzione delle cose a collezioni di predicati soggettivi (e pertanto la sua teoria della conoscenza comporta la distruzione e della cosa in sé e del fenomeno), quale via potrà seguire Kant per mantenere la denominazione di “idealismo” per il proprio sistema e salvaguardare al tempo stesso i criteri per giungere alla verità, ossia impedire l’assimilazione dell’idealismo critico a quello tradizionale? La sua risposta è, almeno per ora, soltanto indiretta: “La parola trascendentale, che per me non significa mai un riferimento della nostra conoscenza a cose, ma solo alla facoltà conoscitiva, doveva evitare questa falsa interpretazione” 41. Ma con ciò è davvero superata il diallelo? Proprio perché “trascendentale” non è la conoscenza immediata delle cose, ma – conformemente alla famosa definizione della II ed. della Critica – quella sorta di conoscenza di secondo grado che concerne il nostro modo di conoscere le cose, la 37 Prol., p. 290 (trad. it., p. 85). Per la distinzione fra Erscheinung e Schein, nonché per la polisemia del secondo termine, cfr. H. Vaihinger, Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, Scientia Verlag, Aalen 1970 [rist. anast. dell’ed. Stuttgart 19222], Bd. 2, pp. 488-492. 39 Cfr. KrV A 188/B 234 (it. 285) e Logik, p. 53 (trad. it., p. 47). Una declinazione particolare della teoria è reperibile nella Refl. n. 2124: “La verità e la falsità sono solo nei giudizi. Essa concorda con l’oggetto se concorda con se stessa” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XVI, cit., p. 244 ). Ciò equivale a dire che un enunciato è vero se è vero, ossia propone in versione rinnovata il circolo. 40 Prol., p. 293 (it. 89). 41 Ibid. 38 67 “verità trascendentale” non sarà forse qualcosa di valido solo soggettivamente, incapace di raggiungere l’oggetto nella sua realtà indipendente dall’oggetto? E anche se Kant si sottraesse alla circolarità da lui stesso denunziata nella Logik semplicemente perché non si ha a che fare qui direttamente con la conoscenza degli oggetti e dunque con la tradizionale teoria dell’adaequatio42, non sarebbe possibile rimproverargli un’altra forma di circolarità, che richiama da vicino la versione del diallelo in Sesto Empirico? Se infatti la conoscenza di oggetti (o conoscenza diretta, non trascendentale) è conoscenza vera, in quanto garantita da una serie di strumenti cognitivi adeguati, quella conoscenza che si occupa di tali strumenti cognitivi sarà trascendentalmente vera. Tuttavia essa sarà comunque costretta a fare i conti con la verità come adaequatio, perché io non ho nessuna possibilità di verificare se vi è conformità fra il mio modo di concepire tali strutture cognitive e la loro organizzazione effettiva se non verificando la mia ipotesi mediante la validità della conoscenza diretta, ossia – come direbbe Kant – mediante la verità delle conseguenze. In sostanza, però, accade che l’esperienza e la sua fondazione a priori costituiscono l’una la conferma dell’altra, in modo tale che la verità della mia conoscenza trascendentale (o verità trascendentale) garantisce la verità della mia conoscenza diretta (o verità nel senso classico), ma soltanto tramite la verità della mia conoscenza diretta ho la prova della verità trascendentale. A ciò si aggiunge l’obiezione di regressus in infinitum, anch’essa già presente in Sesto Empirico. In quanto si applica al nostro modo di conoscere gli oggetti, la conoscenza “trascendentale” dovrebbe essere certa di concordare con esso, essere cioè certa di essere davvero una conoscenza, la quale ha a sua volta a proprio oggetto una conoscenza. Ma, così suona l’obiezione43, se dev’essere certa della verità, la conoscenza dovrebbe conoscere anche l’accordo della conoscenza con l’oggetto. L’accordo sarebbe perciò il nuovo oggetto, e così via all’infinito. Emerge così il problema ontologico: nella riduzione dell’oggetto a fenomeno (ossia a nostro modo di rappresentazione) che ne è della sua oggettività? Esso non sarebbe infatti più “in sé”, ma per la conoscenza. Non può sfuggire a questo punto l’orientamento “hegeliano” dell’obiezione 44: se oggetto del sapere è la verità, non si esce alla fin fine dall’ambito intracoscienziale, giacché – in quanto oggetto del sapere – il vero è un saputo, e dunque la coscienza ha in sé sia il sapere sia la verità. Se da un lato la coscienza (che in Kant come in Hegel è sempre “coscienza di”) implica distanza dell’oggetto da sé e, dunque, concezione dell’oggetto come esistente in sé (come Gegenstand, cosa nella sua autonoma consistenza e indipendenza dal soggetto), dall’altro lato, In realtà, l’autodifesa di Kant rappresenta al tempo stesso un attacco indiretto a Garve-Feder: l’accusa di idealismo contenuta nella loro recensione presuppone un’erronea teoria della verità come rigida corrispondenza esternointerno. Su questo punto cfr. il saggio Il colore: quasi una teoria. 43 Cfr.: H. Rademacher, Zum Problem der transzendentalen Apperzeption bei Kant, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 1970, p. 28; R. Hiltscher, op. cit., p. 428. 44 Per quanto segue, cfr. in particolare l’Introd. alla Fenomenologia dello Spirito. 42 68 proprio in quanto il soggetto ne ha coscienza, l’oggetto è riferito al soggetto (diventa dunque Objekt). Hegel, come è noto, risolverà il problema facendo coincidere il vero con l’autodispiegamento della coscienza: sapere sé è sapere l’oggetto e sapere l’oggetto è sapere sé, in modo tale che – alla fine dell’itinerario – il sapere coinciderà con il saputo e la veritas sarà norma sui et falsi. Soltanto così Hegel ritiene possibile superare lo scoglio costituito dalla presunzione kantiana di anteporre il metodo al metodo, la conoscenza del nostro modo di conoscere alla conoscenza reale. In sostanza, l’obiezione del regressus, che rimprovera alla posizione di Kant quel “soggettivismo” contro cui nei Prolegomena con tanto ardore egli si sforza di difendersi, si situa nell’ambito di una concezione che dà già per acquisito il mantenersi ab origine della coscienza entro l’orizzonte della verità come totalità, e dunque anche come coincidenza di sapere e saputo, conoscere e oggetto del conoscere. Nell’ambito di una ricerca intorno al problema della validità oggettiva del conoscere condotta, come quella kantiana, muovendo dalla tesi della separazione fra soggetto e oggetto, una tale prospettiva è impossibile, giacché ci si deve muovere passo passo seguendo un determinato filo conduttore. Non si può dunque saltare sic et simpliciter alle conclusioni, ossia all’unificazione del sapere in virtù del potere sintetico delle strutture cognitive, ma occorre preliminarmente stabilire come queste strutture operino in funzione dell’unificazione, e dunque anche quali ne siano i contenuti. Il filo conduttore consiste proprio nella progressiva scoperta del modo in cui si organizza la sintesi esperienziale. Non c’è dunque in realtà nulla di nuovo nel “principio fondamentale” del proprio idealismo che Kant enuncia nei Prolegomena: “Ogni conoscenza delle cose che muova dal mero intelletto puro o dalla ragione pura non è altro che semplice parvenza [Schein], e solo nell’esperienza vi è verità”45. Il tema dell’insufficienza delle leggi della logica formale a fornire un criterio adeguato di verità si presenta qui con un’integrazione: l’accusa di illusorietà che colpisce ogni sconfinamento della facoltà di conoscere oltre i limiti dell’esperienza. Ciò, perché il genuino criterio della verità è trovato da Kant nelle leggi universali e necessarie che costituiscono il presupposto dell’esperienza46. Mette inoltre conto rilevare che la polemica contro l’idealismo, sia di Cartesio sia di Berkeley, è condotta muovendo dalla scoperta della preliminarità delle forme pure dell’intuizione rispetto all’esperienza concreta (percettiva o scientifica). L’“idealismo” à la Kant consisterebbe dunque essenzialmente nella dimostrazione della natura ideale (Idealität) dello spazio e del tempo, la quale sola garantirebbe alle conoscenze a priori realtà oggettiva. Sebbene costituisca soltanto uno degli aspetti della strategia complessiva di Kant, questa scoperta è la sola ad essere menzionata 45 Prol., Appendice, p. 374 (trad. it., p. 222). 69 nella polemica antiidealistica dei Prolegomena, perché il suo scopo fondamentale è qui contestare la confusione del proprio idealismo con quello di Berkeley, e tale risultato può essere conseguito solo insistendo sul carattere a priori delle intuizioni spazio e tempo contro la riduzione berkeleyana dello spazio a qualità secondaria. Nella II ed. della Critica l’obiettivo della Confutazione dell’idealismo è, secondo quanto chiarisce la formulazione del “teorema”, fornire una prova dell’esistenza “degli oggetti nello spazio fuori di me” (cioè una prova della verità della nostra conoscenza) a partire dalla “coscienza empiricamente determinata della mia esistenza”47. Il presupposto è ovviamente la tesi secondo cui nel concetto di una cosa non è contenuta l’esistenza. In sostanza, il problema di Kant è: come si passa dall’esistenza concettuale o possibilità all’esistenza empirica o realtà (Wirklichkeit)? Se la possibilità di una cosa consiste nella sua conformità alle condizioni formali dell’esperienza, secondo Kant si può già parlare di verità: “Se mi rappresento una cosa che è permanente in modo tale che tutto ciò che in essa muta appartenga solo al suo stato, non posso mai conoscere sulla base di un tale concetto soltanto che una cosa simile è possibile. Oppure, se mi rappresento qualcosa che sia siffatto che, se è posto, ad esso segue sempre ed immancabilmente qualcos’altro, ciò può essere senz’altro pensato senza contraddizione; ma non si può con questo giudicare se una tale proprietà (in quanto causalità) si possa riscontrare in una qualche cosa possibile. Infine posso rappresentarmi diverse cose (sostanze) che siano siffatte che lo stato dell’una comporti una conseguenza nello stato dell’altra e viceversa; ma se un rapporto siffatto possa convenire a qualche cosa, non può affatto essere ricavato da questi concetti, che contengono una sintesi meramente arbitraria. Dunque solo dal fatto che questi concetti esprimono a priori i rapporti delle percezioni in ogni esperienza si conosce la loro realtà oggettiva, cioè la loro verità trascendentale, indipendentemente, certo, dall’esperienza, ma non indipendentemente da ogni relazione alla forma di un’esperienza in generale e all’unità sintetica, in cui soltanto gli oggetti possono essere conosciuti empiricamente”48. Come si può agevolmente constatare, siamo ben oltre il piano della concezione logico-formale della possibilità come mera assenza di contraddizione: in questo caso l’accento è posto non sulla conformità alle leggi formali del pensiero in generale, ma sulla conformità alle condizioni formali della determinazione degli oggetti esperienziali. E per questo motivo la verità in gioco è chiamata “trascendentale”: se ne fa salvo il carattere a priori e al tempo stesso si subordina la rappresentazione della possibilità alla conservazione del rapporto con l’esperienza. Poiché però, come si è detto, nel mero concetto di una cosa non è implicita l’esistenza, il suo carattere di realtà è dato dalla concordanza delle condizioni formali a priori dell’esperienza con la percezione, ossia con il dato sensoriale filtrato attraverso la coscienza. In questo modo, cioè non perdendo mai di vista il legame con le condizioni a priori dell’esperienza e con la percezione, procedono secondo Kant i fisici quando dimostrano l’esistenza di realtà non immediatamente percepibili49. 46 Ibid., pp. 374-375 (trad. it., p. 222). KrV B 191 (it. 230). 48 KrV B 187 (it. 225-226. Il corsivo è mio). 49 L’esempio è quello della “materia magnetica”, inferita dalla percezione dell’attrazione della limatura di ferro in conformità ai principi sintetici denominati “analogie dell’esperienza”. 47 70 Proprio a questo punto della riflessione Kant inserisce nel testo la Confutazione dell’idealismo, tutta giocata sul rapporto immediato fra coscienza della mia esistenza e coscienza dell’esistenza degli oggetti esterni. Poiché l’esperienza esterna è condizione dell’esperienza interna, la quale pertanto appare come qualcosa di mediato (al pari delle realtà coglibili per via soltanto inferenziale), si avrà anche che “la coscienza della mia propria esistenza è ad un tempo coscienza immediata dell’esistenza di altre cose fuori di me”50. Ossia: l’autocoscienza è coscienza non inferenziale dell’oggetto. Non ci si può però in pari tempo sottrarre alla tentazione di pensare che essa fornisca una sorta di garanzia aletica di qeust’ultimo. Si parla qui ovviamente di autocoscienza empirica, come del resto lo stesso Kant si sforza di chiarire non solo nella già citata formulazione del “teorema”, ma soprattutto in una lunga nota esplicativa aggiunta alla Pref. della stessa II ed.51. In quanto empirica, l’autocoscienza è legata ad un’intuizione interna e non discende dalla semplice “coscienza intellettuale” della mia esistenza che si esprime nella rappresentazione “Io sono”. Sennonché, giunti a questo punto, ci si accorge che qualcosa non torna. Si dà infatti il caso che la “rappresentazione” (o meglio: autorappresentazione) intellettuale di un soggetto pensante, la quale non può racchiudere immediatamente in sé la coscienza della mia esistenza in quanto soggetto del pensiero “Io sono”, non può non fondarsi su una struttura assai più solida, che sia esente dalla mutevolezza ed instabilità di una mera rappresentazione psichica. E ciò significa che il presupposto inespresso di tutte queste considerazioni è un’altra, e anch’essa insopprimibile, determinazione del pensiero: quella che si esprime nell’enunciato “Io penso” e che notoriamente coincide con “Io esisto pensando” (Ich existiere denkend). In altri termini, la coscienza del mio Io è in pari tempo coscienza dell’esistenza di me stesso in quanto soggetto. Ora, nello stesso momento in cui l’identità (manifestamente analitica)52 fra “Io penso” e “Io sono” è affermata, ossia nel corso della confutazione del paralogismo psicologico, Kant si sforza di precisare che, sebbene l’enunciato in questione sia empirico, sebbene cioè l’atto “Io penso” non abbia luogo senza che una rappresentazione empirica gli fornisca la materia e sia dunque imprescindibilmente legato al senso interno e allo stato psicologico, l’Io è una rappresentazione intellettuale pura. E ciò ovviamente non mette per nulla in discussione il fatto che l’“Io penso” in quanto appercezione trascendentale è il fundamentum inconcussum di ogni sintesi, e pertanto di ogni giudizio e di ogni conoscenza sintetica a priori. In quanto punto supremo della filosofia trascendentale nel suo complesso, in quanto coincidente con la facoltà conoscitiva ut sic, è chiaro che non si può più chiedere su quale 50 KrV B 191-192 (it. 231. Il corsivo è mio). Cfr. KrV B 23-25 (it. 34-36). 52 Una conferma indiretta proviene dalle considerazioni “psicopatologiche” dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht: il pensiero “Io non sono” vi è giudicato contraddittorio, ossia contrario al principio logicoformale su cui si fondano i giudizi analitici, in forza dell’impossibilità dell’autonegazione. Su questa e altre questioni “ontoegologiche” della gnoseologia kantiana cfr. O. Meo, La malattia mentale nel pensiero di Kant, cit. 51 71 presupposto esso a sua volta si fondi. Ogni considerazione de jure (e tale è ogni operazione di carattere trascendentale) poggia su questo factum che è un actus. In quanto condizione a priori della possibilità di ogni esperienza in generale, è esso a rappresentare la fonte suprema di ogni verità, intesa sia come giudizio oggettivamente cognitivo sia come accertamento delle strutture a priori del conoscere. L’autoaccertamento della conoscenza, ossia la pretesa aletica che ogni atto conoscitivo porta con sé, trova la propria garanzia nell’“Io penso”; ciò, perché tale autoaccertamento è possibile soltanto in virtù della coscienza a priori della sintesi in cui la conoscenza consiste53. In tal modo, sembra proprio che il “sistema” trascendentale degli elementi e dei principi cognitivi si regga da sé e trovi in sé la propria verità, senza dover a sua volta dipendere da altro estraneo alle funzioni del pensiero, al loro corso, al loro ambito di applicazione specifico. Se così stanno le cose, anche Kant sembra condividere, ovviamente a suo modo (ossia senza pericolose inclinazioni teologizzanti), la tesi che uscire da sé è rientrare in sé o che in interiore homine habitat veritas. Proprio in forza di questa opzione “coerentista”, nella Confutazione dell’idealismo, dopo aver ribadito che la “rappresentazione Io” è una “rappresentazione meramente intellettuale della spontaneità [Selbsttätigkeit = attività de facto] di un soggetto pensante”54, conclude riprendendo la distinzione dei Prolegomena fra “verità” (= realtà) e “sogno” (cui accosta il “delirio” [Wahnsinn]): al rispetto dell’“accordo con i criteri di ogni esperienza reale” (cioè della verità nel senso trascendentale)55 fa da contrappunto il gioco rappresentazionale puramente idiosincratico dell’immaginazione soggettiva di cui il sogno e il delirio sono il prodotto. Siamo ora in grado di comprendere meglio cosa intenda Kant quando, nel § IV dell’Introd. alla Logica trascendentale presenta l’Analitica trascendentale come una “logica della verità”: ad essere chiamata primariamente in causa non è evidentemente la teoria dell’adaequatio, ma la verità che egli stesso chiama “trascendentale”, ossia la conformità delle rappresentazioni ad un’esperienza possibile, mentre la verità nel senso logico-formale si limitava all’accordo puramente intellettuale (analitico a priori) con il principio di contraddizione. E poiché contiene il complesso delle condizioni a priori di ogni esperienza a noi possibile in generale, l’Analitica trascendentale fornisce 53 Sulla subordinazione della logica all’unità sintetica dell’appercezione cfr. J. Vuillemin, op. cit., pp. 313 e 330. 54 KrV B 193 (it. 232). KrV B 193 (it. 233). E’ ovviamente adombrata in tutta questa discussione kantiana la distinzione fra “Io empirico” e “Io trascendentale”. Come è noto, la giustificazione e le modalità del loro rapporto costituiscono una delle difficoltà più spinose della tarda evoluzione della filosofia kantiana, da KrV fino all’Opus postumum (cfr.: G. Lehmann, Beiträge zur Geschichte und Interpretation Kants, cit., pp. 295-408; V. Mathieu, Introduzione a I. Kant, Opus postumum, cit., pp. 3-57). Il problema dell’autoaffezione dell’Io è esplicitamente affrontato in relazione al tema qui in discussione in un breve scritto della raccolta Kiesewetter, giuntoci con il titolo Confutazione dell’idealismo e pubblicato come Refl. n. 6311 nel vol. XVIII delle Kant’s ges. Schriften, cit., pp. 607-612 (trad. it. in I. Kant, Questioni di confine, a cura di F. Desideri, Marietti, Genova 1990, pp. 90-93). Sebbene E. Adickes ne abbia contestato con persuasive argomentazioni l’autenticità, esso costituisce inequivocabilmente la sia pur sciatta rielaborazione da parte di Kiesewetter di idee originali di Kant. 55 72 ai meri criteri formali della logica generale quel complemento che affianca alla loro necessità in vista del pensiero in generale il requisito della sufficienza e consente pertanto di discriminare i giudizi veri da quelli falsi56. Ciò di cui ne va ora è la questione non dell’universalità e necessità di un criterio logico-formale, ma dell’universalità e necessità delle conoscenza dell’uomo in quanto essere finito e tuttavia capace di raggiungere la certezza57. E’ per altro evidente che la definizione di verità come adaequatio intellectus et rei non viene meno come generalissimo punto di riferimento: essa rimane valida, e l’impianto concettuale della Critica ha il compito di fornirle l’indispensabile legittimazione a priori, contribuendo in pari tempo a mutare sostanzialmente il suo significato, ossia a riempirla di contenuto e ad evitare definitivamente il pericolo del diallelo. Questo sembra essere l’orientamento che scaturisce dal seguente passo del cap. sullo “schematismo”: “… nella totalità di ogni esperienza possibile stanno tutte le nostre conoscenze, e nel riferimento generale ad essa consiste la verità trascendentale, che precede ogni verità empirica e la rende possibile”58. La legittimazione trascendentale delle condizioni della conoscenza è, al tempo stesso, anche una legittimazione dei criteri di verità, giacché è in grado di battere in breccia d’un solo colpo l’accusa di circolarità e di regressus. La “totalità di ogni esperienza possibile” presuppone infatti la fondazione a priori di un sistema trascendentale, compiuto ed autofondantesi, in cui valga incondizionatamente che le condizioni della possibilità dell’esperienza in generale sono ad un tempo le condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza. Ciò significa che, all’interno del “sistema”, è garantito (verrebbe quasi da dire: automaticamente) quel riferimento agli oggetti esperienziali senza cui la verità come adaequatio risulta puramente vuota; o meglio: senza cui funziona solo come condizione negativa. Non è un caso che, proprio immediatamente prima di enunciare il “principio supremo di tutti i giudizi sintetici”, Kant precisi: “Poiché… l’esperienza, in quanto sintesi empirica, è nella sua possibilità l’unico modo di conoscenza che conferisca realtà ad ogni altra sintesi, quest’ultima, in quanto conoscenza a priori, ha anche verità 56 Cfr. su questo punto R. Stuhlmann-Laeisz, Kants Logik. Eine Interpretation auf der Grundlage von Vorlesungen, veröffentlichen Werken und Nachlaß, De Gruyter, Berlin-New York 1976, p. 29. 57 Per un’interpretazione in chiave teoretico-conoscitiva del concetto kantiano di verità, cfr. W.L. van Reijen, Die Wahrheitsfrage in der transzendentalen Deduktion der reinen Verstandesbegriffe, in “Kant-Studien”, 1970, p. 339. 58 KrV A 104/B 139 (it. 169). Significativamente tali parole seguono un chiarimento importante sul ruolo delle categorie in relazione all’“Io penso”: “Ora, risulta chiaro da ciò che lo schematismo dell’intelletto, mediante la sintesi trascendentale dell’immaginazione, non mira a null’altro che all’unità di tutto il molteplice dell’intuizione nel senso interno, e così indirettamente all’unità dell’appercezione come funzione che corrisponde al senso interno (ad una ricettività). Dunque gli schemi dei concetti puri dell’intelletto sono le vere ed uniche condizioni per procurare ad essi una relazione con oggetti, e dunque un significato, e le categorie non hanno perciò alla fine altro uso che quello possibile empirico, nella misura in cui servono semplicemente, sul fondamento di un’unità necessaria a priori (per mezzo dell’unificazione necessaria di ogni coscienza in un’appercezione originaria), a sottoporre i fenomeni alle regole universali della sintesi e a renderli in tal modo atti alla connessione completa in un’esperienza” (KrV A 103-104/B 138139; it. 168-169). 73 (accordo con l’oggetto) solo a patto che non contenga null’altro se non ciò che è necessario all’unità sintetica dell’esperienza in generale”59. L’ancoraggio ai fenomeni (e dunque la realtà della conoscenza e la validità della teoria dell’adaequatio) è garantito proprio in virtù del fatto che le regole dell’unità nella sintesi dei fenomeni sono condizioni della possibilità dell’esperienza. Il risultato della ricognizione fin qui condotta è che in Kant la declinazione, per così dire, “coerentista” e la declinazione “corrispondentista” della teoria della verità si trovano intersecate in un tale viluppo concettuale, che risulta assai difficile isolarle. Ciò, perché in realtà i due paradigmi si sorreggono reciprocamente: in considerazione del fatto che l’a priori è condizione genetica dell’esperienza, essi stanno o cadono insieme. Ma forse questa è un caratteristica inevitabile in una teoria finitista che – come quella kantiana – sia comunque alla ricerca costante di un fundamentum inconcussum. 3- Il verum e il problema epistemologico. Nella II ed. della Critica, Kant inserisce quasi incidentalmente, nell’intermezzo fra la deduzione metafisica e quella trascendentale, il § 12, dedicato alla discussione di una tematica presentata come ormai obsoleta: quella dei “trascendentali”60. Egli giustifica però l’interesse, sia pure marginale, nei loro confronti con la vetusta tradizione da cui provengono, che si condensa nella “famosa proposizione” quodlibet ens est unum, verum, bonum. L’obiettivo dichiarato è liberare rapidamente il campo dalla loro ingombrante presenza: “Questi presunti predicati trascendentali delle cose non sono null’altro che esigenze e criteri logici di ogni conoscenza delle cose in generale, e pongono a fondamento di essa le categorie della quantità, ossia unità, pluralità e totalità; solo che queste categorie, che dovrebbero essere propriamente prese in senso materiale, come pertinenti alla possibilità delle cose stesse, essi [sc.: gli scolastici] le usarono di fatto solo in senso formale, come pertinenti all’esigenza logica in relazione ad ogni conoscenza, e tuttavia di questi criteri del pensiero fecero imprudentemente proprietà delle cose in se stesse” 61. Considerando i vecchi trascendentali come mere “esigenze logiche”, confinandoli cioè nell’ambito della logica generale, la quale ha per l’appunto il compito di fissare i criteri necessari, ma non sufficienti, del pensiero, Kant evita di doverli annoverare fra le categorie e di contravvenire in tal modo alle rigide regole della deduzione metafisica da lui stesso fissate. La logica in cui la teoria dei trascendentali trova la sua collocazione è in sostanza quella che si fonda sul principio di contraddizione, ossia quella che stabilisce le condizioni negative della possibilità di pensare un 59 KrV A 110/B 145 (it. 176). Sulla verità trascendentale come criterio normativo della verità empirica e dell’esperienza cfr. F. Kaulbach, Objektwahrheit und Sinnwahrheit in Kants Perspektivismus: Die Transzendentale Deduktion der Ideen, in “Wiener Jahrbuch für Philosophie”, 1987, pp. 121-122. 60 Dell’argomento si occupa diffusamente, compiendo anche una panoramica dei testi complementari, De Vleeschauwer, op. cit., vol. III, pp. 71-79. Di “importanza non intrinseca” e come esempio del gusto architettonico di Kant giudica invece il § 12 N.K. Smith, op. cit., pp. 200-201. 61 KrV B 97-98 (it. 119-120). 74 oggetto in generale62. Se ci si pone sul piano dei “criteri universali”, tutto quello che si ottiene con i vecchi trascendentali non è altro che una serie di tautologie: di qualsiasi cosa in generale (quodlibet ens) vale che essa, in quanto una, non è molteplice (unum), che è ciò che è (verum), che ha tutto ciò che deve avere (bonum); ma si tratta di mere ovvietà, che non apportano alcun contributo alla conoscenza. Ciò esclude che i trascendentali possano essere interpretati come condizioni della possibilità reale di un oggetto, ossia che possano essere confusi con le categorie e dunque associati, mediante gli schemi, ai principi. La limitazione al piano formale fa sì che unum, verum e bonum costituiscano l’aspetto qualitativo del concetto, o – per meglio dire – il lato qualitativo della quantità, la quale – considerata da un punto di vista quantitativo – costituisce il quantum o grandezza reale. Così, l’unum è l’“unità della comprensione del molteplice delle conoscenze”, una sorta di unità tematica che è il fondamento logico di un concetto quantitativo, ma distinto da questo63. La differenza fra i due aspetti qualitativo e quantitativo risulta ancora più evidente nel caso del secondo trascendentale. Alla “molteplicità” (o “pluralità”) della tavola delle categorie corrisponde, dal punto di vista qualitativo, la “verità delle conseguenze”: “Quante più conseguenze vere da un concetto dato, tanti più indizi [Kennzeichen] della sua realtà oggettiva. Questa la si potrebbe chiamare la pluralità qualitativa delle note che appartengono ad un concetto come fondamento comune (e non sono pensate in esso come grandezze)”64. Queste “note” dovrebbero essere considerate come immanenti per essenza, ossia come predicati analitici, giacché si sta parlando di conseguenze di un concetto, ossia ci si mantiene all’interno del criterio logico-formale cui i trascendentali sono stati fin dall’inizio ricondotti. Né, d’altro canto, si può far riferimento ad un quantum, giacché non entra qui in gioco la costituzione di un oggetto reale. In terzo luogo, infine, si ha la perfezione, intesa come risultante dall’unione dei due trascendentali precedenti. Si tratta in sostanza dell’idea secondo cui la molteplicità delle note si 62 Ciò non significa che tali condizioni non siano positive, qualora ci si ponga sul piano del puro pensiero. Non mi pare pertanto persuasivo quanto sostiene De Vleeschauwer, op. cit., vol. III, pp. 78-79, ossia che – a differenza del principio di contraddizione – i trascendentali sarebbero criteri positivi risultanti dal principio di identità: come mostra la riflessione della Logik in precedenza discussa, Kant non si discosta dall’unificazione dei due principi fondamentali della logica classica operata da Leibniz. 63 Nel già citato scritto Sul significato formale e materiale di alcune parole Kant fornisce un esempio concreto: dal punto di vista qualitativo, al calore può essere attribuito – conformemente al principio delle “analogie dell’esperienza” – un grado, determinato secondo gli effetti che esso produce (unità in senso formale). Il rapporto in atto sarebbe dunque di premessa-conseguenza. 64 KrV B 98 (it. 120). Cfr. la definizione di Baumgarten: “Veritas metaphysica (realis, obiectiva, materialis) est ordo plurium in uno, veritas in essentialibus et attributis entis, transcendentalis” (Metaphysica, § 89). Il richiamo di Kant al rapporto premessa-conseguenze si collega al successivo § 90: “Cum omnis entis determinationes coniungantur, essentiales secundum principium contradictionis, …, et accidentales, attributa secundum principium contradictionis, …, et rationis, …, et sufficientis, …, modi secundum principium contradictionis, …, et rationis, …, essentialia et affectiones secundum principium rationati, …, hinc regulas communes, …, omnes ens est verum transcendentaliter”. Per una ricostruzione del rapporto fra l’interpretazione dei trascendentali in Kant e nei suoi autori di riferimento (Wolff, Meier e Baumgarten), con ampi riferimenti alle tesi esposte nelle lezioni di metafisica, cfr. G. Schulz, op. cit., pp. 153179. 75 accorda perfettamente con il concetto, in modo tale che – aristotelicamente – nulla debba essere aggiunto o tolto65. Le considerazioni più interessanti in funzione del tema discusso nel presente lavoro Kant le fa però allorché, avviandosi alla conclusione del suo excursus, si sforza di chiarire mediante esempi l’uso dei trascendentali, di cui viene per altro apprezzato il valore di concetti utili a collegare elementi derivati da un concetto (eterogenei) con il concetto stesso, indipendentemente – come già si è detto – dall’unità sintetica del quantum, che può essere conseguita soltanto per via categoriale. Il primo esempio è quello della possibilità di un concetto; il suo criterio è la definizione (evidentemente reale), in cui unità del concetto, verità di ciò che se ne può dedurre, compiutezza di ciò che se ne è tratto costituiscono quanto è necessario per la produzione del concetto stesso. Ma cosa si intende propriamente per “verità”? Una precisazione in questo senso proviene dal secondo esempio. Il criterio di un’ipotesi è triplice: l’intelligibilità del principio esplicativo assunto (corrispondente alla sua unità, senza l’aggiunta di ipotesi ausiliarie o sussidiarie)66, la verità delle conseguenze che se ne devono dedurre, ed infine la compiutezza del principio esplicativo, cioè il fatto che le conseguenze non richiedano nulla più e nulla meno di ciò che era stato ammesso, e dunque la loro analisi restituisca esattamente ciò che era stato presupposto. In questo contesto la verità è definita come “accordo fra loro stesse [sc.: le conseguenze] e con l’esperienza”67. Dall’esposizione di questo secondo esempio si possono trarre tre conclusioni. In primo luogo, il criterio ultimo della verità di un’ipotesi è pur sempre il raffronto con l’esperienza, e ciò non afferma nulla di più rispetto all’esigenza espressa dal paradigma corrispondentista68. In secondo luogo, le conseguenze debbono concordare inter se, cioè debbono possedere una coerenza interna. Ad essere invocato esplicitamente qui è un embrione di connessionismo (per altro conforme all’intento sistematico di fondo), cioè l’esigenza che l’insieme di determinati elementi costituisca un tutto solidale, tale che ciascuno sostenga l’altro. In terzo luogo, tale presa di posizione rivela una genuina esigenza epistemologica; e ciò insinua il sospetto che i vecchi trascendentali costituiscano per Kant qualcosa in più di un inutile ciarpame, dotato di senso soltanto all’interno della logica 65 In realtà, sul concetto di perfezione Kant è sempre stato piuttosto oscillante e talora fortemente ambiguo. Dal punto di vista storico, anche in questo caso il riferimento diretto è la Metaphysica di Baumgarten. 66 Il che presuppone che il principio esplicativo sia perfetto, ossia che contenga già la totalità delle condizioni dell’explanandum. Per la critica delle ipotesi subsidiariae, cfr. pure KrV B 504-505 (it. 592). 67 KrV B 98 (it. 120-121). 68 Sul paradigma corrispondentista poggia pure la tesi secondo cui l’accordo intersoggettivo è indizio presuntivo dell’accettabilità di una teoria scientifica. Infatti “la verità si basa sulla concordanza con l’oggetto, in relazione al quale di conseguenza i giudizi di ogni intelletto debbono essere d’accordo (consentientia uni tertio consentiunt inter se)” (KrV B 532; it. 622). Cfr. pure Prol., p. 298 (trad. it., p. 97): “… quando troviamo ragione per considerare un giudizio come necessariamente universale…, dobbiamo anche considerarlo come oggettivo; dobbiamo cioè ritenere che esso non esprima soltanto una relazione della percezione con un soggetto, ma una proprietà dell’oggetto. Infatti non ci sarebbe alcuna ragione per cui i giudizi di altri debbano necessariamente concordare con i miei, se non si riferissero tutti all’unità dell’oggetto, concordando con il quale debbono anche concordare tutti fra loro”. 76 intensionale della scolastica leibniziano-wolffiana. In sostanza, grazie alla mediazione operata dal concetto di “conseguenza”, si è verificato un surrettizio passaggio dal piano analitico a quello sintetico. Il concetto kantiano di ipotesi fa sorgere per la verità un certo numero di problemi. Un’ipotesi esplicativa non è infatti una conoscenza reale e completa: come si è visto, Kant stesso afferma che l’accumularsi di conseguenze vere non è una dimostrazione, ma solo un “indizio” della verità (= realtà oggettiva) di un concetto. Per questo motivo il § 12 termina con la riaffermazione della validità logico-formale dei trascendentali: “Mediante i concetti di unità, verità e perfezione la tavola trascendentale delle categorie non è dunque affatto completata, come se essa fosse carente; soltanto che, mettendo totalmente da parte il rapporto di questi concetti con gli oggetti, il loro impiego è ricondotto sotto le regole logiche generali della concordanza della conoscenza con se stessa”69. Sennonché il fatto che l’ipotesi non si identifichi con una conoscenza conclamata mette indirettamente in discussione il suo statuto di verità: conformemente alla già discussa presentazione del modus tollens e del modus ponens reperibile nella Logik, dire che le conseguenze di un’ipotesi debbono essere vere (non importa se in senso coerentista o corrispondentista) non significa che essa stessa sia vera. E proprio nella Logik sono fissati chiari limiti allo statuto aletico dell’ipotesi. La definizione generale suona: “Un’ipotesi è la credenza [Fürwahrhalten] del giudizio nella verità di una premessa in virtù della sufficienza delle conseguenze; o, più brevemente: la credenza in una presupposizione come premessa”70. Il presupposto è sufficiente a spiegare alcune conoscenze, intese come sue conseguenze, quando si conclude dalla verità di queste alla verità di quello. Ma, prosegue Kant, un’inferenza di questo tipo conduce alla certezza apodittica, ed è dunque criterio di verità, solo se tutte le possibili conseguenze sono vere. Poiché è impossibile determinare tutte le possibili conseguenze, allo stesso modo in cui è impossibile raggiungere l’omnimoda determinatio di una cosa, le ipotesi possono aspirare tutt’al più ad uno statuto di verisimiglianza, fino a giungere ad un analogon della certezza nel caso in cui tutte le conseguenze finora riscontrate siano riconducibili esplicitamente a quella premessa. Per quanto concerne le implicanze epistemologiche del ragionamento kantiano, questo passo può essere messo a confronto con il cap. I, sez. IV della Dottrina trascendentale del metodo, che affronta il problema delle dimostrazioni apagogiche o indirette. Il valore del modus tollens è inferiore a quello delle dimostrazioni che Kant chiama “ostensive” o dirette, e tuttavia è più chiaro 69 70 KrV B 99 (it. 121). Logik, p. 84 (trad. it., p. 77). 77 ed intuitivo71. La dimostrazione apagogica procura certezza, è facile e rigorosa, anche se non produce una “comprensibilità della verità in relazione alla connessione con i fondamenti della sua possibilità” 72. E’ un’altra buona ragione per parlare del modus tollens (e della dimostrazione per assurdo)73 come di uno strumento per l’acquisizione di una verità negativa, e di limitare dunque la portata del “falsificazionismo”74. Ma quello che più interessa è che il problema della verità è qui messo in relazione con i fondamenti logici della scienza: veri o falsi sono gli asserti che enunciano le conseguenze di un principio. Ennesima prova, se mai ve ne fosse stato ancora bisogno, che per Kant la verità si trova sempre e solo nei giudizi. Ci si chiede a questo punto: quali conseguenze ha per lo statuto ontologico della scienza il fatto che l’ipotesi si collochi al confine fra la sfera logico-formale e quella trascendentale? In realtà, all’obiezione si può rispondere in prospettiva kantiana che proprio solo nella scienza può essere consentito il criterio apagogico perché in essa è impossibile sostituire condizioni soggettive (rappresentazionali) alla conoscenza oggettiva75. Il problema sorge, semmai, là, dove si dà indecidibilità di fondo semplicemente perché le opzioni concorrenti sono entrambe false; e ciò accade, come è noto, nel caso delle antinomie: poiché si assume un presupposto errato, in esse viene infatti meno il principio del terzo escluso e dunque anche il criterio di demarcazione fra vero e falso76. In matematica e in fisica, ossia là, dove non è possibile alcuno Schein dialettico (ossia non è possibile confondere soggettivo con oggettivo), si può con assoluta tranquillità epistemologica far ricorso sia al modus tollens (e alla dimostrazione per assurdo) sia al modus ponens (sia pure mettendo in atto tutte le cautele del caso). Ma ciò significa che nelle scienze, ossia nei sistemi di sapere rigorosamente fondati la cui legittimità la critica della ragione ha il compito primario di garantire fornendo le condizioni a priori della possibilità del loro prodursi, risulta perfettamente plausibile servirsi di quel concetto di verum espulso dalla deduzione metafisica delle categorie (e a fortiori da quella trascendentale). Di qui il facile sospetto che almeno alcuni aspetti della teoria del verum (e precisamente quelli che inducono Kant a considerare l’ipotesi come esempio di uso dei 71 Cfr. KrV B 514-515 (it. 603). Ibid. 514 (it. 602). Chiarisce la Refl. n. 2139, in Kant’s ges. Schriften, Bd. XVI, cit., p. 249: “Possiamo concludere in modo apagogico dalle conseguenze alle premesse più facilmente che directe perché basta una conseguenza falsa per falsificare la conoscenza”. 73 Nella dimostrazione per assurdo si applica manifestamente il sillogismo che procede secondo il modus tollens. 74 Sui rapporti fra Kant e Popper cfr. H. Wagner, Poppers Deutung von Kants Kritik der reinen Vernunft, in “Kant-Studien” 1976, pp. 425-441. 75 Cfr. KrV B 514-515 (it. 603). 76 Ciò non è evidentemente sufficiente per affermare che Kant ammette una violazione del principio del terzo escluso. Lo mostra la sez. VII del cap. sulle antinomie: la tesi (“il mondo è infinito”) e l’antitesi (“il mondo è finito”) non sono veri e propri enunciati contraddittori, ma soltanto contrari. Ad un’analoga conclusione di non contraddittorietà 72 78 trascendentali) trovino la loro fondazione a priori nella verità trascendentale e che la prospettiva corrispondentista e quella coerentista non siano affatto in contrasto fra di loro: è giocoforza, quando ci si muove nell’ambito epistemico, recuperare gli aspetti positivi di un paradigma come quello dell’adaequatio. Il fatto che alla verità trascendentale spetti un rango superiore è perfettamente coerente con l’idea secondo cui la ricostruzione razionale della realtà e del procedere scientifico stesso è resa possibile dall’attività costruttiva dell’intelletto legislatore. Soltanto se ciò che Kant ne dice non potesse essere dimostrato trascendentalmente a priori, si ricadrebbe nel circolo e nel regressus. Ma l’impresa è secondo Kant possibile. E l’Analitica trascendentale è una “logica della verità” proprio perché egli pensa di essere in grado di mostrare in essa come sono possibili giudizi sintetici a priori, ossia di rispondere alla domanda che – come fa osservare Cassirer – coincide con quella intorno alla possibilità della verità in una filosofia contrassegnata dalla coscienza della finitezza del conoscere. si giunge allorché gli enunciati in competizione risultano entrambi veri perché si istituisce un confronto fra domini incommensurabili. 79 APPENDICE IMMANUEL KANT < SULL’ILLUSIONE POETICA > Nel 1776 si rese vacante all’Università di Königsberg la cattedra di Poetica. Fu chiamato a coprirla Johann Gottlieb Kreutzfeld, il quale – secondo gli statuti dell’epoca – era tenuto a discutere, nel corso di altrettanti pubblici dibattiti organizzati come veri e propri dibattimenti giudiziari, due dissertazioni in latino appositamente redatte per l’occasione: una pro receptione in ordinem philosophorum, cioè per essere accolto nella Facoltà di Filosofia, e una pro loco professionis poeseos ordinario rite sibi vindicando, cioè ai fini dell’insediamento ufficiale. Kreutzfeld scrisse un unico lavoro, diviso in due parti (o sectiones), raccolte sotto il titolo Dissertatio philologico-poetica de principiis fictionum generalioribus (Dissertazione filologico-poetica sui principi più generali delle finzioni). Le due disputationes pubbliche ebbero luogo, rispettivamente, il 25 e il 28 febbraio 1777. A quest’ultima parteciparono: il candidato, che aveva il ruolo di praeses, ossia di patrocinatore in prima persona o relatore; Christian Jakob Kraus, scolaro di Kant, in qualità di respondens (= “risponditore”, in tedesco Respondent), ossia di avvocato difensore; tre studenti cui fu affidato il ruolo di opponentes (= “opponenti”, in tedesco Opponenten), ossia di pubblici accusatori; Kant e un altro professore ordinario, i quali – anch’essi in qualità di opponentes – intervennero, come prevedevano gli statuti, dopo gli studenti. Kant lesse la controrelazione in latino di cui si presenta la traduzione italiana . Lo scritto ci permette di cogliere Kant in un momento particolarmente importante della vita accademica, nell’esercizio delle funzioni cui il suo ruolo di professore ordinario di Logica e Metafisica lo destinava. Ma si tratta pur sempre di uno scritto d’occasione, per quanto ufficiale, non destinato alla pubblicazione, la cui origine e la cui finalità sono chiaramente mostrate dalla non eccessiva cura dedicata alla disposizione degli argomenti e dalle ripetizioni che vi si incontrano. D’altro canto, il manoscritto originale conserva ampie tracce grafiche dei numerosi ripensamenti e correzioni. Come si addice alla requisitoria dell’accusa nel corso di un pubblico contraddittorio, la vis polemica – pur rimanendo nei limiti della notoria urbanità di Kant – è elevata, il tono è talvolta spigoloso e pungente, sempre puntiglioso nel sottolineare le mancanze del lavoro di Kreutzfeld e nel rivendicare la dignità della filosofia. Che cosa aveva scritto dunque Kreutzfeld, in modo a dire il vero un po’ confuso e senza mostrare grande rigore nello sviluppo delle sue argomentazioni? La prima sezione della sua dissertazione, che comunque non è oggetto delle obiezioni di Kant, muove dalla definizione di “finzione” (fictio), la quale comprende non soltanto le “personificazioni poetiche”, ma anche “qualunque opinione poetica, conforme non tanto alla verità oggettiva, o assoluta, quanto a quella apparente o relativa”. Mentre in precedenza si indagavano soltanto le cause esterne del ricorso alla finzione poetica, Kreutzfeld si propone di studiare le cause interne, ossia quelle che risiedono nella natura umana. L’obiettivo non è dunque compiere una ricerca storico-filologica, ma utilizzare lo strumento psicologico per reperire principi universali della mente umana. Per quanto infatti forma, rivestimento e struttura dei singoli miti mutino da popolo a popolo e da epoca a epoca, mostrando la loro origine “domestica” e “occasionale”, pure è possibile giungere a quei principi universali mediante un’indagine sull’origine della conoscenza in “animi rozzi” e primitivi e mediante la constatazione che i miti dei diversi popoli e delle diverse epoche soggiacciono tutti agli stessi errori. Secondo Kreutzfeld, le invenzioni poetiche sono riconducibili a due fonti. La prima, che costituisce oggetto specifico della seconda sezione, consiste nelle illusioni e negli inganni dei sensi. La seconda consiste nel dominio della sensibilità negli uomini primitivi. Poiché l’intelletto è condizionato dal tipo di impressioni sensoriali e poiché dalle loro modificazioni dipendono le modificazioni nella conoscenza, i sensi sono i primi educatori della mente umana. Per es., la mitologia e la cosmogonia di un popolo dipendono dall’elaborazione concettuale delle esperienze sensoriali. Dal fatto che l’uomo tende a trasporre nella natura ciò che esperisce in se stesso traggono origine non solo l’animismo e la credenza in demoni, ninfe, ecc., ma anche la poesia. Analoga è pure l’intima motivazione delle lingue, che attribuiscono agli enti astratti facoltà, capacità di azione, ecc. Anche la lingua, in generale, può dunque porsi all’origine dell’invenzione di miti. Il ricorso alle stesse fonti spiega l’origine dell’antropomorfismo, del politeismo, di taluni elementi religiosi. Come ho già anticipato, nella seconda sezione, che è oggetto specifico del discorso di Kant, Kreutzfeld sviluppa il tema delle illusioni e degli inganni dei sensi, intesi come fonti delle finzioni poetiche. Sono essi a fornire al poeta le più magnifiche immagini e i mezzi per ornare il suo canto. Molti miti sono nati da illusioni, per es. ottiche, come la leggenda degli scogli semoventi nella saga degli Argonauti (§ 1). Sennonché l’errore, sostiene Kreutzfeld assumendo una posizione non troppo lontana da quella di Kant, non è propriamente dei sensi, ma del giudizio, che trae con eccessiva precipitazione conclusioni sbagliate. Di conseguenza, egli indaga i diversi tipi di ragionamento sbagliato, iniziando da quello che conclude all’identità (o al reciproco influsso) di cose diverse perché si riscontra in esse qualche somiglianza (§ 2). Nei §§ 3-6 vengono forniti come esempi dell’errore la magia, l’idolatria, l’astrologia, l’interpretazione dei presagi, la mitologia. Nel § 7 vengono addotti esempi tratti da autori moderni. Nel § 8 vengono chiamati in causa i metafisici: si cita Giordano Bruno e il principio della coincidenza degli opposti, nonché i materialisti, che, dall’accordo funzionale fra anima e corpo, concludono alla tesi della materialità dell’anima. Nel § 9 comincia la discussione del secondo errore nel ragionamento: considerare due cose uguali come diverse a causa di 80 qualche loro differenza. Come esempi vengono citati il politeismo e, nel § 10, la distinzione operata dagli “psicologi” fra anima sensitiva e razionale. Il § 11 menziona un terzo tipo di fallacia: cose che coesistono o si succedono vengono considerate come trapassanti l’una nell’altra o come influenzanti l’una l’altra. Fino al § 13 si susseguono esempi di figure retoriche tratti da poeti antichi e moderni. Nel § 14 vengono citate le vicende di amore e guerra dei poemi cavallereschi. Nel § 15 l’esempio è costituito dall’amore di Petrarca per Laura, che assunse un carattere quasi religioso a causa dell’atmosfera mistica in cui il loro primo incontro avvenne. Nel § 16 si inizia a parlare della confusione fra “segno” e “designato”, che fa sì che si attribuiscano al primo le qualità del secondo. Nel § 17 si menzionano vari tipi di “segni”: geroglifici, numeri, statue e monumenti, cerimonie e riti, parole. Nei §§ 18-20 se ne forniscono esempi in gran copia. Nel § 21 si menzionano altri modi di confusione: astratto-concreto, causa-effetto, mezzi-fini. Infine, nel § 23 Kreutzfeld sostiene di non aver voluto fornire un’“ermeneutica” completa delle varie fictiones, ma soltanto indagare la ragione e il modo degli errori della mente umana, ossia elaborare una “metafisica della mitologia”. Per quanto concerne le tematiche affrontate da Kant nel suo scritto, la più importante è costituita dalla distinzione fra inganno (in tedesco: Betrug) e illusione (in tedesco: Illusion, o anche Schein): mentre il primo viene giudicato negativamente (come kantianamente si addice ad ogni forma di menzogna) e dilegua al manifestarsi della verità, la seconda, che è lo strumento proprio del poeta, può coesistere con l’accertamento della verità ed arreca uno specifico piacere estetico. C’è un solo testo pubblicato vivente Kant in cui compaia questa stessa distinzione: il § 13 di ApH. Tuttavia, come rilevano R. Brandt e W. Stark nell’Introd. al vol. XXV delle Kant’s ges. Schriften, De Gruyter, Berlin 1997, pp. XXXVII-XXXIX, non solo il tema è prefigurato nelle Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, ma soprattutto si riscontrano convergenze con altri due testi cronologicamente assai vicini: l’Anthropologie Friedländer, che riproduce il corso di antropologia del semestre invernale 1775/76 (ibid., p. 502), e l’Anthropologie Pillau, che riproduce il corso del sem. inv. 1777/78 (ibid., p. 745). Ad essi si possono aggiungere la Menschenkunde oder philosophische Anthropologie, ossia il corso del sem. inv. 1781/82 (ibid., pp. 928-929) e una delle Reflexionen zur Anthropologie: la n. 1482 (in Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, De Gruyter, Berlin 1923, pp. 683 sgg.). Sono ancora Brandt e Stark a sottolineare la rilevanza non soltanto antropologica ed estetica, ma anche teoretica ed etica della distinzione kantiana. Sotto il profilo teoretico, non si può non ricordare la dottrina dell’“illusione trascendentale” di KrV: proprio uno degli argomenti trattati anche nello scritto qui tradotto e nei §§ 8-11 di ApH, ossia in immediata prossimità a quel § 13 in cui si distinguono inganno (Betrug, fraus) e illusione (Täuschung o Illusion, illusio), è affrontato all’inizio del § I dell’Introd. alla Dialettica trasc. Rimarcando il proprio distacco dalla tesi della scolastica leibniziana secondo cui esiste una cognitio sensitiva, Kant vi afferma che i sensi non errano perché non giudicano; l’errore nasce semmai dall’influenza inavvertita della sensibilità sull’intelletto. Ma oltre ad un’apparenza (Schein) empirica, ve ne è pure una trascendentale, che non cessa anche quando la critica trascendentale la smaschera. Questa illusione (Illusion) è per altro inevitabile, così come lo sono quelle ottiche, ossia empiriche; in quanto tale, essa continuerà ad indurre in errore. Sotto il profilo etico, nella Menschenkunde (op. cit., pp. 930-931) la generale condanna della menzogna non impedisce a Kant di considerare illusione e non inganno l’apparenza di moralità che l’uomo assume nel commercio sociale: vedendo un esempio di rispettabilità si è indotti a emularlo. Allo stesso modo, anche l’autocontrollo (che, tecnicamente, non è altro se non una forma di dissimulazione) costituisce una sorta di addestramento al dominio sulle passioni. In sostanza, l’arte di stare in società produce almeno un analogon della virtù e l’apparenza che ne scaturisce è gradevole ed amabile. A queste segnalazioni è opportuno aggiungere la possibilità di un confronto con i §§ 53 e 54 dell’Analitica del Giudizio estetico (cfr., nella presente raccolta, il saggio La logica del comico). Si comprende da questi brevi cenni che la distinzione fra inganno ed illusione si pone come nucleo, almeno potenziale, di sviluppi filosofici estremamente interessanti, anche se – nel corso dell’intera opera di Kant – essa è trattata soltanto in maniera episodica e per lo più in esposizioni complementari e non destinate alla pubblicazione. Se si guardano le cose da questo punto di vista, accostarsi a scritti minori come il discorso contro Kreutzfeld consente di rintracciare i fili nascosti della meditazione kantiana, il quotidiano lavoro di tessitura da cui sarebbero scaturite le opere maggiori. Come riferisce A. Warda nella presentazione della prima edizione, apparsa in “Altpreussische Monatsschrift”, 1910 (47), pp. 663-670, il manoscritto kantiano è noto da moltissimo tempo: appartenuto originariamente al ricchissimo fondo raccolto da G.B. Jäsche, alla sua morte esso passò a K. Morgenstern e successivamente alla Biblioteca dell’Università di Tartu. Il testo è redatto sui fogli intercalati alla seconda sezione della dissertazione di Kreutzfeld e, in parte, sui fogli del testo. Kant usò caratteri di scrittura assai grandi, verosimilmente per poter leggere meglio mentre parlava. Poiché Kant non riporta le citazioni da Kreutzfeld e scrive che sta maneggiando la dissertazione, si può congetturare che egli – oltre a sfogliarla durante la lettura – apportasse magari qualche modifica orale al proprio manoscritto. La presente traduzione si basa sul testo pubblicato da E. Adickes nella prima appendice, intitolata Entwurf zu einer Opponenten-Rede [Progetto di un discorso come opponente], alle Reflexionen zur Anthropologie (Refl. n 1525, in Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., pp. 901-935. Una traduzione tedesca del testo, ma non dell’indirizzo a Kreutzfeld e a Kraus, fu pubblicata da B.A. Schmidt in “Kant-Studien”, 1911 (16), pp. 5-21 con il titolo Eine bisher unbekannte lateinische Rede Kants über Sinnestäuschung und poetische Fiktion [Un discorso latino di Kant finora sconosciuto sull’illusione sensoriale e sulla finzione poetica]. Schmidt corredò pure il testo con l’indicazione della maggior parte delle fonti delle citazioni kantiane e si premurò anche di segnalare che la distinzione inganno-illusione era stata ripresa da Schiller nella ventisettesima delle Lettere sull’educazione dell’uomo. Dall’ottima traduzione di Schmidt mi discosto in alcuni punti. Con il titolo Concerning Sensory Illusion and Poetic Fiction R. Meerbote ha pubblicato una traduzione inglese, anch’essa priva dell’allocuzione iniziale, nella raccolta Kant’s Latin Writings. Translations, Commentaries, and 81 Notes, ed. by L.W. Beck in collaboration with M..J. Gregor, R. Meerbote, J.A. Reuscher, Lang, New York 19922, pp. 161-183. Recente la prima traduzione italiana, pubblicata – insieme alla II sezione della Dissertatio di Kreutzfeld e ad una postfazione che fa il punto sul contesto storico-filosofico – con il titolo Inganno e illusione in I. Kant – J.G. Kreutzfeld, Inganno e illusione. Un confronto accademico, a cura di M.T. Catena, Guida, Napoli 1998, pp. 41-62. La curatrice dà anche notizia dell’esistenza di una traduzione russa. Contrariamente a quanto accade spesso negli scritti di Kant non destinati alla pubblicazione (e non di rado anche in questi ultimi), in questo caso la grammatica e la sintassi non pongono problemi gravissimi. Probabilmente il carattere ufficiale della circostanza e il fatto di dover usare il latino resero il suo stile più sorvegliato. Oltre che da alcune sconnessioni, per altro non in punti fondamentali dal punto di vista teoretico, il problema maggiore è costituito dal frequente passaggio dalla seconda pers. sing. alla seconda plur. nell’uso dei pronomi personali e dei possessivi. Anche se le formulazioni originali di Kant danno il senso di una maggiore immediatezza e non si prestano mai ad equivoci, ho preferito seguire Schmidt e uniformare l’uso, volgendo tutto alla terza pers. Mi pare infatti francamente improponibile far parlare Kant, che – come mostrano le lettere – era notoriamente attentissimo e precisissimo nell’uso dell’allocuzione, come un funzionario dell’impero romano. Per quanto concerne la notazione critica, ho indicato fra [ ] le integrazioni e le interpolazioni nonché i numeri di pagina dell’ed. dell’Accademia. Nelle note ho fornito le indicazioni filologiche indispensabili ed alcune informazioni sulle problematiche filosofiche toccate nel testo. Qui do conto soltanto della scelta di rendere uniformemente fictio e i termini connessi (usati prevalentemente da Kreutzfeld: in Kant si trovano soltanto rarissime occorrenze di fictus e confictus) con “finzione” (e “finto” o “fittizio”) nell’attuale accezione, corrispondente al tedesco Fiktion e all’inglese fiction (con cui si designa l’invenzione narrativa, il peculiare statuto di realtà dei prodotti artistici e infine, agostinianamente, l’illustrazione figurata della verità, che corrisponde all’“illusione” di Kant), e non nell’abituale accezione negativa di “simulazione” o “menzogna” (la fictio che nihil significat di Agostino, l’“inganno” di Kant). Seguo in ciò la soluzione adottata nelle tradd. itt. delle seguenti opere di A.G. Baumgarten, ossia di un autore che entrambi i contendenti avevano ben presente: Riflessioni sul testo poetico, a cura di F. Piselli, Aesthetica, Palermo 1985 (in particolare le note ai §§ 58 e 59, pp. 115-117) e L’Estetica, a cura di S. Tedesco, Aesthetica, Palermo 2000 (ivi, nel § 525, viene citata esplicitamente la distinzione agostiniana). Ho pensato opportuno assegnare allo scritto il titolo Sull’illusione poetica in considerazione delle tematiche specifiche che Kant vi affronta. Ringrazio infine Enrica Salvaneschi e Giorgio Bertone per le loro preziose informazioni storico-filologiche. [903] Nobilissimo, Illustrissimo, Eccellentissimo, Dottissimo Signore, Dottore in Filosofia, a pieno merito Professore Pubblico Ordinario di Poetica, Patrocinatore1 Autorevolissimo, Promotore [Fautor] stimatissimo di questa Dissertazione, e Lei, nobilissimo Risponditore, chiaro, dotto, Dilettissimo Amico, Disputatori entrambi onoratissimi! Stupefacente e quasi incredibile è la propensione della mente umana alle vane illusioni [ludibria]2 e alle apparenze fittizie di cose [fictas rerum species]3, a tal punto, che essa si fa 1 Il testo ha Praeses, che non ha un corrispondente esatto nelle lingue moderne e che fino al Settecento indicava, nel lessico della vita universitaria, il candidato a una carica accademica o anche il relatore di una dissertazione. Nel 1756 lo stesso Kant si qualificava come Praeses nella dedicatio della Monadologia physica. Per quanto concerne il campo semantico del termine, è opportuno rilevare che possono essere considerati sinonimi di praesideo i verbi defendo, che Kant utilizza nella titolazione della Principiorum primorum cognitionis metaphysicae 82 ingannare [falli] non solo facilmente, ma [905] addirittura volentieri. Donde il noto proverbio: “il mondo vuole essere gabbato [decipi]”, cui gli artefici di inganni [fraudum] aggiungono: “sia dunque gabbato”. Ma da questa arte di ingannare una massa ingenua a scopo di lucro, che l’esecrabile sete dell’oro4 insegnò ai ciarlatani, ai demagoghi e non di rado anche ai gerofanti, ammetto volentieri che l’ingegno dei poeti è alieno al massimo grado. Anzi, si riferisce che l’avidità dell’oro non assalga affatto i loro cuori; e di loro dice Orazio: “difficilmente il poeta ha il cuore avido; ama i versi, di questo solo si cura”5. [906] Ma si dà un certo tipo di inganno [fallendi genus], non lucroso, e tuttavia non inglorioso, che lusinga le orecchie con apparenze fittizie di cose [fictis rerum speciebus], commuove ed allieta l’animo. Ad esso i poeti hanno consacrato la loro opera. Poiché questa Dissertazione è interamente dedicata agli artifizi per ingannare i sensi, nella misura in cui essi servono ai poeti, non considero improprio sottolineare preliminarmente qualcosa concernente questo tipo di inganno piacevole ed esente da dolo. nova dilucidatio e della Monadologia physica, e tueor, che compare nella titolazione della De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis. 2 Scelgo “illusioni” al posto di altre soluzioni più radicali, ma anche troppo specifiche, per il fatto che, come illudo e i termini ad esso collegati, anche ludibrium denunzia chiaramente nella sua radice il carattere di ludus, ossia di “gioco dei sensi”, proprio del fenomeno. Schmidt rende con nichtiges Spiel e Meerbote con deceptive play. 3 E’ assai difficile rendere in italiano i termini di cui Kant fa uso per indicare le illusioni. Nelle sue prime occorrenze, species è sempre accompagnato dalla specificazione rerum e sembra pertanto designare più propriamente un’apparizione sensibile cui non corrisponde nulla di reale, mentre apparentia è usato da solo e sembra pertanto designare una qualità più astratta e generale. Sennonché, successivamente, apparentia compare accompagnato dalla specificazione rerum, mentre species occorre da solo. Dal contesto dei primi capoversi si intende poi abbastanza chiaramente che Kant non ha operato una radicale distinzione semantica e che pertanto i due termini vanno intesi per lo più come sinonimi. In particolare, l’indecisione lessicale delle pp. 907-908 del testo sembra indicare che egli ha in mente in entrambi i casi un unico termine tedesco: Schein. Ho pertanto risolto di tradurre sia species sia apparentia con “apparenza”, specificando di volta in volta il termine latino corrispondente. D’altro canto, anche Schmidt ricorre preferibilmente al termine Schein, rendendo apparentia con Erscheinung (ossia apparire della cosa nel senso fenomenico) soltanto nel quarto capoverso del testo di Kant, dove il discorso verte esplicitamente sulla manifestazione sensibile della verità nella poesia. Di diverso avviso è Meerbote, che – assai sottilmente – cerca di tracciare una linea di demarcazione più netta fra species e apparentia. Riassumo qui di seguito le sue argomentazioni. Species è termine generico, designante sia l’illusione sensoriale sia la finzione poetica sia gli errori percettivi. Meerbote lo traduce con semblance (“parvenza”), specificando che soltanto una sua specie è ingannevole. Egli rende poi con illusion la illusio propria della poesia, che non inganna, ma diletta. In generale, ricorre ad appearance (“apparenza” nel senso di “apparenza fenomenica” o Erscheinung) per indicare la apparentia di Kant, ossia quella forma di species che non inganna. Egli stesso ammette però che, a questo stadio della sua elaborazione teoretica, Kant non ha ancora distinto fra “parvenza” (Schein) e “apparenza” (Erscheinung) ed è costretto in singole occasioni a ricorrere a semblance per rendere apparentia. Per quanto concerne poi la illusio, Meerbote considera qui come sinonimi Täuschung e Betrug, che – come ho già rilevato nell’introduzione generale – corrispondono invece rispettivamente secondo il § 13 di ApH all’illusione e all’inganno: entrambi sarebbero compresi nella species che inganna e – in quanto tali – distinti dalla illusio, o species che non inganna. Le premesse di quest’ultima distinzione sarebbero da ricercare nella contrapposizione fra Schein “vuoto” (o ingannevole) e Schein reale operata da J.H. Lambert nella lettera a Kant del 13 ott. 1770 (cfr. Kant’s ges. Schriften, Bd. X, De Gruyter, Berlin 1922, pp. 103-111; trad. it. parziale in appendice a C. Wolff, Logica tedesca, a cura di R. Ciafardone, Patron, Bologna 1978, pp. 238-242).. Tuttavia, per quanto apprezzabile, lo sforzo di non equivoca classificazione compiuto da Meerbote si infrange contro la mancanza di rigore terminologico del testo kantiano, in cui palesemente i termini continuano ad intrecciarsi e a scambiare il proprio campo semantico. 4 Auri sacra fames: Virgilio, Eneide, III, 57. 5 Vatis avarus non temere est animus, versus amat, hoc studet unum: Orazio, Epistole, II, 1, 119 sg. 83 Ora, ci sono alcune apparenze di cose [rerum species], dalle quali la mente non è giocata, ma con le quali gioca. Per loro mezzo l’artefice non esibisce agli ingenui un errore, ma la verità abbigliata con la veste dell’apparenza [apparentiae], la quale non offusca il suo abito interiore, ma la mostra agli occhi decorata, non raggira con il belletto [907] e gli inganni gli inesperti e i creduli, ma – usando le luminose bellezze sensibili – porta in scena l’arida e secca immagine della verità tinta di colori sensibili. Se in tale apparenza di cose [in tali rerum specie] c’è alcunché mediante cui essa, come si dice comunemente, inganna, sarà piuttosto da chiamare illusione [illusio]. L’apparenza [species] che inganna, una volta scoperta la sua vanità ed illusorietà, svanisce; ma quella che illude, poiché non è se non la verità fenomenica [veritas phaenomenon], anche quando la si scopre nella sua realtà, non di meno dura e al tempo stesso mette gradevolmente in movimento l’animo, facendolo come fluttuare ai confini fra errore e verità; e lo lusinga mirabilmente, conscio come è della propria avvedutezza al cospetto delle seduzioni dell’apparenza [apparentiae]6. L’apparenza [species] che inganna [fallit] dispiace; quella che illude [illudit] piace assai e diletta. Così, quasi per saggiare la mia perspicacia contro la sua astuzia, in un primo tempo mi attira vedere l’illusionista, del quale si dice che fa giochi di scarsella7, dal momento che tenta di raggirami con l’inganno. [908] Ma, una volta scoperto l’inganno, lo disprezzo; se lo ripete, provo fastidio; se poi me lo tiene nascosto, lo detesto, continuando a non crederci8, stupito bensì, ma al tempo stesso indignato per essere stato vinto dall’astuzia di un impostore. Per contro, nelle illusioni ottiche, quantunque percepisca bene l’apparenza [apparentiam] e sia premunito contro l’errore, ogni volta mi diverto. In tale artifizio l’apparenza [species] diletta, proprio perché non inganna, ma induce con forza, ancorché invano, all’errore. Così le apparenze di cose [rerum apparentiae], nella misura in cui ingannano, ci arrecano fastidio; in quanto ci illudono 6 Il senso del passo, anche alla luce del capoverso che lo precede e di quello che lo segue, è sufficientemente chiaro. Kant intende sottolineare che, quando alla base dell’illusione percettiva c’è una realtà, il soggetto si avvede presto dell’errore e rimane piacevolmente sorpreso del fatto di non potersene comunque liberare. La veritas phaenomenon è dunque ciò che io continuo a percepire anche se sono informato che si tratta di un’illusione (per es. ottica); è ciò che non è né realtà oggettiva né transitoria impressione sensoriale e, in quanto tale, possiede un ambiguo status ontologico. Si tratta di un uso abbastanza singolare del termine “fenomeno”, che mi pare denunciare una certa difficoltà da parte di Kant a trovare collocazione adeguata alle illusioni percettive nel proprio sistema gnoseologico (almeno a questo stadio della sua evoluzione). Dilegua in tal modo l’impressione di equivocità provocata dal riferimento iniziale alla illusio come apparenza ingannevole: la illusio (che è sia quella offerta dalla poesia sia la vera e propria illusione ottica) non cessa di stupire piacevolmente il fruitore perché non è mai dolus intenzionale, ma è sempre manifesta e giocosa. 7 Il testo ha: qui e crumena ludere dicitur. La trad. it. suona inevitabilmente criptica, ma per capire che cosa qui intenda Kant è sufficiente osservare che il sintagma latino non è altro se non il calco del termine che in tedesco designa il prestigiatore: Taschenspieler = lett. “colui che gioca dalla borsa”, ossia che trae da un contenitore apparentemente vuoto oggetti di ogni sorta. Sebbene non si possa escludere una maliziosa allusione al rapporto fra l’estrazione di oggetti e l’intascare denaro, fa sospettare un fraintendimento la troppo decisa traduzione di Meerbote: who is said to practice his art for gain. 8 Incredulus odi: Orazio, Ars poetica, v. 188. 84 soltanto, ci arrecano piacere. E all’incirca questa differenza intercorre fra i comuni inganni dei sensi e le illusioni familiari ai poeti. [909] Non di meno la Dissertazione che sto rigirando fra le mani freme per il desiderio di far derivare tutte le attrattive e gli splendori dell’arte poetica da quella fonte impura e descrive la disposizione della mente come a tal punto incline alle vane illusioni [ludibria], da indurre a credere che, quanto più essa è giocata dalla vanità delle immagini, da tanto maggior gioia il cuore sia invaso. Ma se anche, nel caso del lodatissimo artifizio dei poeti, le cose stessero così, mi sembra che un tale segreto dovrebbe essere celato dall’alunno di Apollo, per non recare da se stesso pregiudizio alla propria arte mostrandolo pubblicamente e per non allontanare indignati, una volta scoperto l’inganno, gli ammiratori della poesia catturati in precedenza dall’incanto di quest’ultima. Certamente c’è un altro modo di ingannare i sensi, in virtù del quale la poesia sembra conquistarsi la palma sottraendola a moltissime altre arti; e perciò dev’essere celebrato con lodi anche dal filosofo, in quanto promuove il dominio della mente sull’ignobile volgo dei sensi e procura in certo modo obbediente rispetto [obsequium]9 alle leggi della sapienza. [910] Tanto grande è infatti la forza indomita dei sensi, di contro all’impotenza della ragione, anche di quella retta bensì, ma debole nell’imporsi, che è più avveduto indebolire con l’inganno quelli che non è concesso aggredire con aperta violenza. E ciò accade abituando l’animo alle lusinghe tanto delle belle lettere quanto delle belle arti e liberandolo in questo modo gradualmente dal desiderio bruto come da un padrone rozzo e dissennato. A questo disegno, che si può perciò con un certo qual buon diritto chiamare “onesto inganno”10, serve non poco l’arte poetica, che è annoverata fra le arti nobili e liberali, cioè che promuovono la libertà dell’animo, proprio perché, lusingando i sensi, inganna la loro avida attesa e, adescatili con i suoi splendori e spogliatili della loro rozzezza ferina, li rende tanto più rispettosi degli insegnamenti della sapienza. [911] Ma ora il riguardo per il tempo e per il luogo mi impongono di esporre non ciò che penso di questo argomento, ma quale tesi la Sua Dissertazione sviluppi intorno alla natura della poesia, in quanto germina dal grembo stesso dei sensi umani. Perciò mi accingo tosto ad esaminare i punti di questo per altro dotto ed elegante saggio che mi hanno lasciato perplesso, pregandoLa con il dovuto rispetto di concedermi benevolmente la libertà di cui è lecito servirsi in una contesa di tipo ludico e la licenza di controbattere a mio piacimento. I Obsequium è termine polisenso, che significa sia “rispetto” sia “obbedienza”. In considerazione del peculiare atteggiamento che, nell’etica del Kant più maturo, il virtuoso tiene nei confronti della maestà della legge, preferisco ricorrere ad una trad. articolata piuttosto che optare per uno dei due sostantivi italiani. Più radicalmente, Schmidt – seguito da Meerbote – sceglie Gehorsam [“obbedienza”]. 10 Pia fraus è espressione di valore proverbiale, attestata in Ovidio, Metamorfosi, IX, 711. 9 85 Poiché per la materia sottoposta ad esame possiamo tranquillamente tralasciare i rigiri sillogistici, condurrò la mia critica esponendo gli argomenti in un libero discorso. [912] Ho intenzione di sottoporre innanzitutto il Suo studio ad un esame generale, prima di procedere all’indagine speciale. E in primo luogo, nel titolo della Sua Dissertazione vedo appesa l’edera, ma nel corpo della trattazione non riesco a trovare del vino in vendita11. Il saggio dell’Eccellentissimo Signore si intitola: Dissertazione filologico-poetica. Ma qualsivoglia trattazione poetica deve necessariamente consistere di versi, e perciò un trattato sulla poesia non si può chiamare “poetico”, allo stesso modo in cui non chiameremo trattato “filosofico” una storia della filosofia o studio [“]matematico[”] un encomio della matematica. Il predicato assunto da un’arte o da una scienza non indica infatti l’oggetto, ma il modo in cui lo esponiamo. Una dissertazione filologico-poetica sarebbe quella che, al pari del celebre poema di Orazio sull’arte poetica, fosse stesa in versi, e al tempo stesso corredata di note filologiche assai abbondanti. [913] II Ma procedo alla seconda osservazione generale. Sostengo12 dunque che l’eccellentissimo Autore della Dissertazione ha immerso la falce nella messe altrui, poiché di fatto, mentre nel corso di questo saggio dovrebbe uscire in scena da poeta, repentinamente interpreta la parte del filosofo. Infatti questa medesima Dissertazione sarebbe potuta servire in modo assai idoneo anche per il conseguimento, secondo la forma prescritta, di una cattedra di ordinario di Metafisica: sarebbe stato sufficiente mutare il titolo in Dissertazione sulle fallacie dei sensi e sul loro influsso sulle arti e sulla conoscenza comune degli uomini. In modo davvero abile e arguto, da p. 3 a p. 8 l’Autore espone le fallacie dei sensi in generale e poi, d’un solo colpo, le vane illusioni della mente che ne scaturiscono: l’interpretazione di presagi, la magia, l’astrologia, il politeismo, il coacervo delle ipotesi filosofiche e molte altre cose; poi aggiunge anche i numeri pitagorici, [914] la cabala, il barbara e il celarent13 dei logici. Sennonché, di fronte a tutte queste cose, è lecito far sentire con Orazio un sonoro: “Ma non era questo il loro posto”14. Allusione al tralcio di edera (la pianta sacra a Bacco) che costituiva l’insegna delle taverne. Rendendo in questo modo lo arguo dell’originale, opto ovviamente per un’interpretazione più sfumata dello stile generale del discorso, che è certamente polemico ed ironico, ma non duramente requisitorio. Una soluzione di gran lunga più incisiva, adatta al tono dell’invettiva, sarebbe: “Accuso dunque l’eccellentissimo Autore di …”. 13 Sono le parole mnemoniche usate dai logici medievali per indicare i primi due modi del sillogismo di prima figura. 14 Sed nunc non erat his locus: Orazio, Ars poetica, v. 19. 11 12 86 Gli esempi poetici, che tuttavia nuotano rari nell’immenso gorgo15, poteva adattarli al suo scopo anche un filosofo, il quale per il resto ignorasse, alla pari dei più ignari, che cosa si richieda per comporre poesie eleganti. Perciò congetturo che, mediante questa dissimulata metábasis eis állo génos, con un titolo che ha un bel suono l’Autore della Dissertazione volesse dare proprio un esempio di artifizio per ingannare i sensi. Supponiamo che, interpretando il ruolo del filosofo, l’Autore della Dissertazione abbia fallito nella sua speranza; tuttavia ciò non toglierebbe nulla al Suo onore di poeta. [915] Proverebbe che Ella è un cattivo psicologo, ma un eccellentissimo poeta. Donde Ella vede che non ha sottoposto ad esame un saggio per il conseguimento della cattedra di professore di poetica16. III Procedo al mio terzo argomento generale. Dopo aver stabilito che le fallacie dei sensi sono una provvista assai importante dell’arte poetica, l’Autore della dotta Dissertazione paragona ripetutamente il filosofo con il poeta; in questo modo egli assegna ad entrambi una sorte molto simile in questo ambito malsicuro, mentre di fatto prova con i suoi esempi che essa è totalmente opposta. Come infatti il poeta inganna in modo eccellente con la vana apparenza sensibile [sensuum vana specie], così il filosofo ne è ingannato vergognosamente17. Donde il poeta riporta la corona d’alloro, di solito il filosofo trae disonore, [916] e ciò che all’uno vale come lode, all’altro reca ingiuria. Con questo paragone l’Autore ha commesso due colpe: in primo luogo, perché – ponendo sullo stesso piano cose che, per sua stessa testimonianza, sono opposte – contraddice se stesso; in secondo luogo, perché – innalzando i poeti (p. 2) e disonorando i filosofi (pp. 8 e 10)18 – è stato ingiusto nei confronti di una delle due parti. 15 Il chiaro riferimento al celeberrimo rari nantes in gurgite vasto di Eneide, I, 118 intende corroborare ironicamente quanto Kant dirà subito dopo. 16 Questo luogo in particolare, con l’inopinato passaggio dalla terza pers. all’allocuzione diretta, mostra il carattere di abbozzo del testo. La vis polemica di Kant è altissima: qui, come del resto più velatamente nel § III, egli sta semplicemente sostenendo che Kreutzfeld non capisce nulla di filosofia. 17 Kant tocca qui, con tono lieve e superficiale, alcuni argomenti teoretici per lui importantissimi in quegli anni di preparazione dell’opus magnum: l’errore dei sensi e il loro influsso sul giudizio; l’illusione trascendentale. E’ inevitabile pensare all’Introd. alla Dialettica trasc. di KrV. 18 A p. 2 della sua dissertazione Kreutzfeld scrive: “Dagli inganni dei sensi tutti poeti, talvolta per errore, più spesso intenzionalmente, traggono le immagini più splendide e il maggior ornamento del discorso”. A p. 8, dopo aver rimproverato alcuni studiosi (fra i quali Herder) di aver scambiato semplici analogie per prove di identità, trascurando le differenze a causa di un’illusione dei sensi, Kreutzfeld accusa anche i metafisici di soccombere a questo genere di inganno. In sostanza, “speculazione contemplativa” e “finzione poetica” trapassano l’una nell’altra. Un esempio è costituito dalla tesi di Giordano Bruno secondo cui effetti opposti derivano da una stessa causa e cause opposte originano lo stesso effetto. Analoga critica tocca ai materialisti (il cui rappresentante è Lucrezio): poiché le funzioni psichiche e corporee presentano evidenti affinità e l’anima patisce mutamenti insieme al corpo, essi concludono che l’anima è materiale e mortale, ossia “per nulla diversa dal corpo”. A p. 10, nel § 10, Kreutzfeld rimprovera ai filosofi di cadere vittime di un altro inganno dei sensi. I primi “psicologi” suddivisero l’anima in funzioni e separarono la parte sensitiva e vegetativa da quella razionale e immortale. 87 Per quanto concerne il primo punto, è certo che il filosofo è ingannato dai sensi in quanto non è filosofo, mentre il poeta inganna con le fallacie dei sensi in quanto è poeta. E quale è la somiglianza di destini così diversi? Qui si trova un rapporto non di somiglianza, ma di opposizione. Per quanto concerne il secondo punto, ossia l’ingiustizia fatta al filosofo, tanto più energicamente essa sembra dover essere biasimata, quanto più in questa Dissertazione lo stesso Autore ha deviato nei propri campi i ruscelletti dei filosofi. IV Il quarto argomento generale è diretto contro un’opinione dell’Autore che si spande per tutte le pagine della Dissertazione e in cui consiste il suo cardine, [917] ossia che il poeta si serve delle fallacie dei sensi come dei più eccellenti ornamenti delle poesie. A questa opinione sono apertamente contrarie tanto la retta ragione quanto una folla di importanti esempi. Per quanto concerne il primo punto, le fallacie dei sensi delle quali sarebbe lecito al poeta far uso dovrebbero essere tratte da quelle comuni e generalmente diffuse, legiferante Orazio: “Il materiale pubblico diventerà possesso privato”19. Ma le comuni fallacie dei sensi non hanno niente di piacevole. Infatti, essendovi abituato, l’intelletto se ne libera subito; pertanto, poiché la fallacia è già svanita da un pezzo, il poeta non può lusingare la mente mediante apparenze di cose [per rerum apparentias], nella misura in cui esse contengono fallacie. Per quanto concerne il secondo punto, ossia i poeti, gli esempi dei quali, secondo il mio parere, provano il contrario, è sufficiente citare quelli che l’Autore stesso riporta, per es. a p. 12. …20 Ne risulta evidente che, qualunque cosa abbiano scelto di cantare, i poeti sono totalmente dediti ad irrorarla con la massima [918] luminosità sensoriale possibile. A questo scopo, non vanno in cerca delle fallacie dei sensi intenzionalmente, ma perché non può far loro difetto l’apparenza della cosa Ciò accadde perché il “rozzo speculativo” avverte in se stesso la tensione fra impulsi opposti. Il § 10 si conclude con una domanda che più avanti attirerà nuovamente l’indispettita attenzione di Kant: “E sono forse più sobri certi psicologi della nostra epoca, che – quante diverse funzioni della mente avvertono – in altrettante piccole giurisdizioni per così dire separate l’una dall’altra spezzano l’anima umana?” [Et nostrae aetatis psychologi quidam magis sobrii, qui, quot diversas operationes mentis sentiunt, in totidem forulos quasi, seiunctos a se invicem animam humanam dissecant?]. 19 Publica materies privati iuris erit: Orazio, Ars poetica, v. 131. In realtà, la publica materies di cui parla Orazio è l’Iliade: è meglio mettere in scena un canto di quest’ultima che proporre novità in modo scriteriato. 20 A p. 12 la dissertazione di Kreutzfeld contiene diverse citazioni. Innanzitutto vi sono i vv. 194-196 del poema Mosella di Decimo Magno Ausonio (IV sec. d.C.), che narra un viaggio sul fiume da Birgen a Treviri. Si tratta della descrizione di un’illusione ottica: “Montagne intere nuotano con increspati movimenti; e, pur assente, tremulo è/ il pampino, e turgida è l’uva nelle vitree onde;/ ingannato, conta il marinaio le verdi viti”. Vi sono poi alcuni singoli sintagmi tratti da Virgilio: “frescura ombrosa” (frigus opacum), anziché “ombra fresca”; “il bosco è oscuro di paura” (caligere formidine lucum), anziché “l’oscurità del bosco incute paura”. Infine, vi è una più ampia citazione tratta dalla descrizione della fabbricazione dello scudo in Eneide, VIII, 429-432: “Tre raggi di grandine, tre di nube carica di pioggia/ avevano aggiunto, tre di rosso fuoco e di veloce austro;/ ora bagliori terrificanti, e strepito e spavento/ univano all’opera, e l’ira alle fiamme docili [sequacibus, che taluni interpretano come “persecutrici”]”. 88 [rei apparentia], che deve riprodurre la natura con perfetta somiglianza21. Ciò appare manifesto nell’esempio virgiliano da Lei addotto, dove, per accrescere l’ammirazione per l’opera di Vulcano e per commuovere l’animo con stimoli sensoriali tratti d’ogni dove, il poeta nomina molte cose che non si sarebbe potuto affatto introdurre nella fabbricazione di uno scudo22. Per es.: …23. Da ciò Ella vede che il poeta cerca questo soltanto, di cingere la propria idea fondamentale con un doviziosissimo corteggio di immagini aderenti, nelle quali le apparenze fallaci [apparentiae fallaces] si trovano solo accidentalmente, poiché non ne può fare a meno, quando vuole dipingere un’immagine al vivo. [919] Passo al secondo genere di argomenti, toccando alcuni singoli punti della Sua Dissertazione e, con il Suo permesso, segnandoli con la linea censoria24. Il paragrafo 1 comincia così: …25. L’Autore della Dissertazione [920] spiega nelle due parti della sua opera che l’animo umano dev’essere all’inizio istruito dai sensi e da questa educazione attinge al tempo stesso i primi stami dell’arte poetica. Nella prima parte sostiene che i sensi servono da maestri, mentre in questa seconda parte sostiene che sono degli impostori. In entrambe le parti però sostiene che essi sono usati in modo egregio ed elegante. Ma come queste cose si conciliano fra loro? Infatti, se siamo ingannati dai sensi, non ne siamo istruiti. Se la conoscenza umana è corrotta dalle fallacie, che cosa sarà il poeta, che ha istituito il loro commercio, se non un falsificatore? Avverto w(j e)n paro/d% [= di passaggio]26 che l’espressione “gli insegnamenti dei sensi”27 della prima riga della Dissertazione è presa in un senso affatto distorto. Infatti, presso gli antichi, mai i sensi esercitano un insegnamento, ma lo subiscono28, nella misura in cui sono piegati 21 Come spesso accade a Kant, il pensiero è espresso in modo ellittico. Per rendere perspicuo il passo, Schmidt interpola fra “fallacie dei sensi, ma” e “perché” le parole: “le usano soltanto”. Mi pare però una correzione inopportuna: come chiarisce la fine del capoverso, Kant vuole dire che i poeti non applicano la loro cura nel cercare le illusioni sensoriali, ma che esse si presentano loro accidentalmente, in quanto devono fornire al lettore – secondo il precetto quintilianeo che egli aveva assimilato da Baumgarten – una descrizione vivace e verisimile [vivida descriptio] delle immagini. Kant ha dunque soltanto posposto di qualche riga l’avverbio con cui sarebbe dovuta iniziare a mo’ di pendant l’avversativa. Se di interpolazione vi è dunque bisogno, essa dovrebbe consistere nelle parole “solo accidentalmente”. 22 Seguendo Schmidt, è anche possibile interpretare come una sineddoche il fabricam clypei ingredi del testo: “introdurre nell’officina di un armaiolo”. 23 A questo punto, nella sua allocuzione pubblica, Kant sicuramente citò (di nuovo, se già l’aveva fatto poco prima) i versi dell’Eneide. 24 La virgula censoria (o “obelo”) era un segno critico usato per indicare passi sospetti. Segnare con la linea censoria equivale pertanto a sollevare dubbi e a criticare. 25 “Abbiamo già stabilito che l’insegnamento dei sensi, dei quali ogni conoscenza umana si serve come dei suoi primi condottieri e maestri, è la prima fonte delle finzioni; ora passiamo alle fallacie dei sensi, il secondo principio delle creazioni della fantasia [phantasmatum]”. 26 Ripristino la corretta grafia greca. 27 In realtà Kreutzfeld aveva usato il sing.: disciplina. 28 Schmidt fa notare che l’errore di Kreutzfeld consiste per Kant nell’aver considerato il gen. ogg. sensuum disciplina come un gen. sogg. 89 [921] finché non obbediscano al dominio della mente. A questo scopo miravano gli esercizi telestici un tempo diffusi. Ella avrebbe potuto chiamarla “educazione” dei sensi, dalla quale ricaviamo i primi elementi della conoscenza. Ma di questo non mi occupo ulteriormente. § 3. L’Eccellentissimo Autore computa fra le fallacie dei sensi molte cose che non sono affatto pertinenti: magia, interpretazione dei presagi, astrologia, ecc. Alle fallacie dei sensi sono da ascrivere soltanto quelle cose che mi sembra di afferrare con gli occhi o di catturare in qualunque modo con un senso, sebbene di fatto siano errori del giudizio precipitoso29. Sennonché quelle cose che so con certezza di non percepire, mentre sono conscio di decidere intorno ai percetti [sensa] soltanto congetturando o comunque inferendo [ratiocinando], ebbene queste cose, per quanto siano erronee, tuttavia non possono essere chiamate fallacie dei sensi: comunemente si chiamano enti della ragione raziocinante [entia rationis ratiocinantis]30. Così, nel volo degli uccelli o nella posizione degli astri mai la superstizione pensò [922] di osservare e leggere i segni fatidici; sennonché l’uomo, fatto già dalla natura per il consorzio con esseri intelligenti e agitato dal timore o dalla brama, è incline ad errare a proposito dell’influsso di potenze invisibili che governerebbero il suo destino (errore, questo, che chiamiamo superstizione); e ha spontaneamente supposto che molte cose avvolte in simboli o da un Genio o da un Demone gli sarebbero rivelate, purché egli riesca ad intendere quei simboli, e che sia anche possibile istituire un qualche commercio con quegli esseri. Donde sono sorte tanto l’astrologia quanto la magia31. Ma per quanto concerne i sensi, essi sono tanto lontani dall’averlo tuffato in questi errori, che piuttosto, come guide fidate, lo preservano senz’altro da essi, e, costretto dall’esperienza, ne lo liberano completamente con certezza. Proseguo con il § 9, p. 9. [923] Qui l’Eccellentissimo Autore ascrive ancora alle fallacie dei sensi la moltiplicazione degli enti senza necessità e la precipitazione nell’assegnare a fenomeni in certo modo diversi altrettante cause diverse per genere, donde il grande numero di potenze divine nella teogonia e nella Che l’errore non stia nei sensi, ma nel giudizio, è tesi ben radicata in Kant. In questo caso specifico, essa riecheggia un’analoga espressione di Kreutzfeld e si accompagna all’affermazione immediatamente precedente che i sensi debbono essere educati con la forza ad obbedire alla ragione. E’ una delle diverse soluzioni che Kant tentò di dare ad un problema che gli appariva assai complesso. 30 La distinzione fra ciò che credo di percepire (ossia l’illusione sensoriale) e ciò che inferisco o congetturo con un processo razionale conscio è estremamente chiara. Poiché per Kant alla classe degli entia rationis appartengono anche i noumeni, non si può escludere – anche in considerazione del contesto generale – un embrione di critica allo Schein trascendentale. 31 La polemica contro i presunti rapporti con gli spiriti extraterrestri è costante nel pensiero di Kant fin dal periodo precritico e trova la sua espressione più chiara nello scritto contro Swedenborg del 1766. Non è poi escluso che l’obiettivo della sua critica alla credenza che fenomeni inspiegabili siano indizi di una loro origine soprannaturale sia non tanto la superstizione degli antichi, quanto piuttosto la Schwärmerei del suo ex allievo Herder, che – come si è già ricordato – è esplicitamente menzionato da Kreutzfeld nel § 7 come vittima di un’illusione dei sensi. In generale, Kant vuol fare intendere che l’esaltazione fanatica di ogni tempo non è un errore dei sensi, ma della ragione. 29 90 cosmogonia dei Greci. Ma che originariamente queste cose fossero non errori comuni sorti dalle illusioni dei sensi, bensì finzioni intenzionali dei poeti [de industria a Poetis conficta], lo testimonia anche Aristotele, il quale nella Metafisica, dopo aver detto che “alla natura divina non si addice essere invidiosa”, aggiunge: “ma i poeti, come dice il proverbio, mentono molto”32. Costoro infatti, senza lasciare intentato nulla che potesse suscitare il movimento della mente ed ammaliarla con la forza unita delle sensazioni, infusero la vita in ogni parte della natura e ripartirono i fenomeni, quanti essi sono, [924] in altrettanti domini governati da un dio. E non furono sedotti da altri, ma fabbricarono essi stessi l’inganno [doli]33. Ma non vi tratterrò oltre su queste cose. E ora al § 10. Sostenendo di nuovo che i filosofi sono soggetti insieme alla plebaglia alle stesse vane illusioni sensoriali34, l’Autore attribuisce a queste ultime la distinzione fra anima [anima] e animo [animus] diffusa fra gli antichi35. Ora, se questa distinzione è un errore, esso non può certamente essere imputato ad una comune fallacia dei sensi; piuttosto, fu accettato ponderatamente, non perché appaia [che le cose stanno] così, ma perché sembrava un’ipotesi necessaria a spiegare i fenomeni della natura umana. E sono in dubbio se gli psicologi che in questa incerta questione decidono sconsideratamente e audacemente qualcosa meritino di essere chiamati sobri, come 32 Cfr. Metafisica,. I, 2, 983 a, 2 sgg. Adickes riporta la trad. latina di Bessarione, dalla quale Kant si discosta soltanto marginalmente: la differenza di maggior rilievo sta nella sostituzione di ut in proverbiis est a secundum proverbium. Il proverbio in questione è attribuito a Solone. Superfluo ricordare che nelle parole di Aristotele risuona l’eco della dura posizione di Platone nei confronti dei poeti, in particolare Omero ed Esiodo. 33 Come si vede, Kant concorda qui con la posizione platonica, secondo cui – a differenza delle “apparenze sensoriali” di cui i poeti si servono accidentalmente per descrivere con vivacità – la teologia omerica ed esiodea è dolus intenzionale e non illusio. Quello che sembra davvero stargli a cuore in questo momento è non l’aspetto estetico, in merito al quale non può essere d’accordo con Platone, ma quello ontologico, in merito al quale assume un atteggiamento analogo. D’altro canto lo stesso Kreutzfeld aveva affermato nel § 1 della seconda sezione della dissertazione che i poeti traggono dalle fallacie sensoriali immagini splendide e, in generale, per quanto lascia scorgere il modo alquanto confuso di procedere, il tono della sua trattazione del problema non pare aderire totalmente al rigorismo platonico. 34 Il testo ha: Auctor iterum philosophos iisdem cum plebecula sensuum ludibriis obnoxios esse contendens. Come Meerbote, intendo il gen. sensuum (che costituisce per altro un’aggiunta successiva di Kant) come specificazione di iisdem ludibriis. Schmidt lo intende invece come riferito a plebecula. In realtà, entrambe le soluzioni sono accettabili. In favore della soluzione di Schmidt sta la costruzione della frase, ossia il fatto che il presunto sintagma cum plebecula sensuum è incastonato fra iisdem e ludibriis. In favore della soluzione qui adottata stanno due considerazioni: 1) per ragioni di senso cum plebecula sensuum non potrebbe essere un complemento di compagnia né un complemento di modo, mentre per ragioni grammaticali non potrebbe essere un complemento di mezzo; 2) poiché nei §§ 9 e 10 Kreutzfeld parla a più riprese di errori da parte di un intellectus rudis o di uno speculator rudis, non è improbabile che Kant abbia pensato, più che ad una mente filosoficamente primitiva, ad una mente primitiva in generale, ossia a quella della massa incolta. 35 Meerbote rinvia a questo proposito alla distinzione fra Gemüt (= animus) come facoltà di sentire e percepire in generale e Seele (= anima) come sostanza del § 24 di ApH e dell’Allegato alla lettera a S.T. Soemmerring del 10 ago. 1795 (in Kant’s ges. Schriften, cit., Bd. XII, 1922, p. 32; trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico, cit., p. 350). Nonostante il lungo intervallo trascorso fra il presente scritto e gli altri due, in tanto il rilievo di Meerbote è condivisibile, in quanto – come osservai a suo tempo nella nota al passo dell’Allegato a Soemmerring – l’opposizione fra Gemüt e Seele mostra un orientamento dell’indagine kantiana in direzione decisamente psicologico-fisiologica ed una tendenza ad interpretare in questo senso anche il fondamentale concetto di “composizione” delle rappresentazioni. In tal modo, Kant sembra recuperare l’impostazione di KrV A, ossia dell’opera cronologicamente più vicina al presente scritto. 91 sembra all’Autore, oppure inebriati dalla coppa dell’egocentrismo, avveduti oppure saccenti 36. Sta di fatto che nell’epoca nostra il celeberrimo Unzer, nel libro Physiologie [926] der tierischen Natur tierischer Körper [= Fisiologia della natura animale dei corpi animali] e, in tempi recentissimi, il dottissimo inglese Morgan nel libro Sulla natura dei nervi, che apparirà presto in versione tedesca, sono ricorsi alla stessa spiegazione della duplice vita come ad una sacra ancora di salvezza37. Ella vede dunque che qui non emerge una comune fallacia del senso, [927] ma un’ipotesi, ancorché erronea, non indegna di un filosofo. Ma proseguo con il § 15, p. 15. Qui l’Autore crede di aver trovato nell’amore concepito da Petrarca per Laura durante un esercizio di adorazione un fenomeno memorabile nella storia della poesia e un enigma degno di Edipo38. Ma l’infelice, come mi sembra, si affatica inutilmente a [928] spiegare sulla base dei propri principi la castità, l’ardore e la costanza di Petrarca. Qui sicuramente c’è bisogno solo di un Davo 39, non di un Edipo. La differenza fra amore fisico e poetico è infatti facilmente riconoscibile. L’amore fisico è il desiderio della persona amata, mentre del poeta Orazio dice: “ama i versi, di questo solo si cura”. Il poeta persegue una bella descrizione dell’amore; e questa gli riesce tanto meglio, quanto più è lontano dalla frequentazione con l’oggetto amato. Così Petrarca, guardando per la prima volta la sua Laura, non fu preso e irretito dall’avvenenza di lei; [929] ma, poiché il suo animo era già commosso dalla solennità festiva, come gli si mostrò una figura graziosa ed immersa in adorazione, dalla quale spirava, per la devota afflizione, un certo languore mentre bisbigliava preghiere dal 36 Secondo Schmidt, interpretando la domanda che conclude il § 10 dello scritto di Kreutzfeld (cfr. supra, nota 17) come se fosse un’affermazione, Kant equivoca sul senso della requisitoria di Kreutzfeld contro la distinzione fra anima sensitiva e razionale. Adickes ribatte, a ragion veduta, che tutt’al più Kant interpreta il magis sobrii di Kreutzfeld come attributo di psychologi e non come predicato, e di conseguenza vede comunque bene la pointe polemica da cui il suo avversario è animato. In realtà, il responsabile dell’equivoco, se di equivoco si tratta, è proprio Kreutzfeld, il quale – omettendo il sunt – può lasciar intendere che la sua domanda sia retorica ed ironica e dà adito ad un’interpretazione come quella kantiana. Considerata la posizione dell’inciso quemadmodum Auctori videtur nel testo di Kant, si potrebbe anche supporre che gli intenda riferirlo alla proposizione che precede (ossia alla temerarietà degli psicologi nel giungere a conclusioni) e non voglia perciò attribuire a Kreutzfeld un’affermazione che questi non ha fatto. Per quanto concerne poi l’aspetto teoretico, sicuramente – come nota Adickes – Kant si sentì punto sul vivo dalla critica alla divisione della mente in funzioni, giacché essa colpiva direttamente la sua teoria delle facoltà e, più in generale, la sua concezione antropologica. 37 L’opera menzionata da Kant, il cui titolo esatto è Primi principi della natura propriamente animale dei corpi animali, era stata pubblicata da Johann August Unzer nel 1771. Secondo Unzer, oltre al substrato fisico, alla struttura organica e alle forze meccaniche, i corpi organici possiedono forze governate da leggi proprie, diverse sia da quelle meccaniche sia da quelle di cui si serve l’anima per influenzare il corpo. La sede di queste forse speciali sono il cervello e i nervi. Per quanto concerne il presunto Morgan e la sua opera, Adickes comunica che dalle ricerche effettuate non risultano né un autore inglese con quel nome né un libro con quel titolo. Egli suppone che Kant si riferisca alle Considerazioni sui nervi e le malattie nervose di Samuel Musgrave, apparse nel 1776 e subito tradotte in tedesco. Musgrave era seguace della teoria di W. Cullens, come del resto quel John Brown particolarmente apprezzato da Kant per le sue tendenze vitaliste e per il tentativo di ricondurre ad un unico principio i processi organici. Secondo Musgrave, i nervi influenzerebbero il battito cardiaco e la circolazione sanguigna e le malattie somatiche sarebbero provocate da cause neurali. Anche Musgrave combatte la concezione materialista, secondo cui il ricorso a cause meccaniche e chimico-fisiche sarebbe sufficiente a spiegare ogni fenomeno corporeo. 38 Secondo Kreutzfeld, Petrarca avrebbe compiuto una sorta di transfert: avrebbe cioè riversato sulla persona di Laura l’impressione provocata in lui dall’atmosfera mistica del loro primo incontro. 39 E’ uno schiavo, personaggio dell’Andria di Terenzio. Quando il suo padrone fa una serie di allusioni che egli non capisce, o non vuole capire, esclama: Davos sum, non Oedipus (v. 194). 92 profondo del cuore, d’un tratto gli nacque il pensiero che questa sarebbe stata una materia adatta ai propri versi. Sennonché, dopo essere stato – per così dire – colpito da questa idea, non fece mai alcun tentativo per riuscire a conquistare un giorno Laura; ma, per poter protrarre più a lungo i lamenti ed i sospiri, fuggì l’amplesso di lei, tuffandosi esclusivamente nella propria afflizione poetica, cioè finta e organizzata in funzione dell’apparenza [ad speciem]. Perciò anche quella castità, santità e quella certa celestialità dell’amore che spirano dalle poesie di Petrarca e che sono esaltate dall’Autore [930] possono essere intese più che a sufficienza e con estrema facilità, senza ricorrere ad alcuna ipotesi che muova dalle fallacie dei sensi. Avendo abbracciato una nube al posto di Giunone40, egli abbellì a modo suo, cioè entusiasticamente, il simulacro che aveva una volta concepito nella mente, curandosi per altro non di Laura, ma dell'eleganza e dell'ardore dei propri versi e della celebrità del proprio nome. Le sarà noto un colloquio di Petrarca con il Papa. Avendogli questi detto una volta che era addolorato per la sua sorte, ma che si sarebbe adoperato per far sì che egli potesse prendere la sua Laura in moglie, il poeta esitò, e poi rifiutò apertamente, dicendo di temere che, se avesse sposato Laura, i propri versi avrebbero perduto ogni ardore ed eleganza41. [931] Nel matrimonio infatti accade ciò che Lucrezio dice della morte: “Allora appunto la vera voce prorompe: cade la maschera, rimane la realtà”42. Ma mi affretto alla fine, e poiché in molti altre questioni alquanto ostiche da me toccate la giurisdizione affidatami è stata se non altro posta fuori della portata dei dardi, ora mi rivolgo contro quel luogo della Dissertazione che può muovere la bile del logico in quanto filosofo. L’Eccellentissimo Autore, dopo aver abbondantemente discusso la fallacia del senso in forza della quale trasferiamo erroneamente nei segni la forza e i poteri dei designati [signatorum], così prosegue alla fine del § 18: …43. 40 Allusione al mito di Issione, che Zeus ingannò in questo modo per punirlo della sua inverecondia. La fonte dell’episodio, quasi sicuramente apocrifo, è probabilmente costituita dalla biografia petrarchesca di J.F. de Sade, che era all’epoca assai celebre. 42 Citazione imprecisa da Lucrezio, De rerum natura, III, 57-58: nam verae voces tum demum pectore ab imo eliciuntur, et eripitur persona, manet res. La stessa citazione compare pure in ApH, § 33, a proposito del matrimonio come terapia per il mal d’amore causato dall’immaginazione produttiva. Essa ritorna infine nell’Opus postumum Nel contesto di un’osservazione sul significato del termine latino persona (Kant’s ges. Schriften, cit., Bd. XXI, 1936, p. 142; trad. it., Zanichelli, Bologna 1963, p. 383). 43 L’erroneo scambio di signum e signatum, che conduce ad attribuire un valore magico a grafemi, numeri, parole, ecc., è discusso da Kreutzfeld nei §§ 16 sgg. Dopo aver considerato come vittime di questo errore anche i mistici moderni, da Jakob Böhme a Emanuel Swedenborg, alla fine del § 18 egli scrive: “Con un inganno poco diverso ha incantato i logici scolastici dell’epoca moderna la costellazione dei termini sillogistici: barbara, celarent, ecc.; a tal punto, che, trascurato il nesso interno delle premesse, essi hanno creduto che in quelle, per così dire, torture della mente, si trovi una grande forza occulta per strappare verità di ogni sorta”. 41 93 [932] Non dovrà forse l’Autore temere con questa accusa l’ira dei calabroni che ha stuzzicato44? Infatti la schiatta dei logici è assai bellicosa, e difficilmente uno la provoca impunemente. E qui certamente i logici sono accusati falsamente di inganno. Infatti non promettono formule “nelle quali si trovi una grande forza occulta per strappare verità di ogni sorta”, come viene qui loro rimproverato, ma mostrano soltanto un meccanismo concernente la posizione dei termini nei sillogismi, affinché – allo stesso modo di quanto fanno i grammatici a proposito delle lingue – divenga manifesta nell’uso generale dell’intelletto una formula generale per esprimere le conoscenze [signandi cognitiones] senza avere alcun riguardo per la materia in esse contenuta45. Ciò qui non può essere dibattuto46. Quando due [933] fanno la stessa cosa, non è la stessa cosa. Comunque, una contesa fra due logici è amichevole. Ma se irrompe un nemico esterno, tutti formano come una schiera e si gettano contro di lui. Ma, ormai esaurita la faretra, pongo fine alla contesa. E innanzitutto mi congratulo di cuore per l’impresa [da Lei] fin qui felicemente condotta. Poi auguro di cuore a Lei, Eccellentissimo Signore, che si accinge a provvedere egregiamente alla Sparta che ha ottenuto47, un inizio del Suo ufficio sotto gli auspici più favorevoli ed un felice successo. Abbondantemente istruito nelle belle lettere, lettore e critico esperto di poeti di diverse lingue, tanto antiche quanto moderne, cultore fervido e felice soprattutto delle magnifiche opere che ci sono state tramandate dai Greci, non può accadere che Ella non dispieghi alla gioventù accademica un ampio campo per coltivare l’ingegno, affinché, sconfitta la barbarie, essa stringa connubio con le Grazie, per quanto ciò possa aver luogo senza suscitare l’invidia di Minerva, protettrice delle scienze e delle arti più utili. Mi auguro che queste Sue fatiche 44 [934] e questi Suoi meriti siano ricompensati anche dalla prosperità domestica Irritare crabrones è espressione proverbiale, attestata in Plauto, Anfitrione, 707, cui corrisponde propriamente il nostro “stuzzicare un vespaio”. 45 Questa presentazione a grandi linee concorda con il più dettagliato esame della “logica dell’uso generale dell’intelletto” contenuto nel § I dell’Introd. alla Logica trasc. di KrV: essa astrae da ogni contenuto della conoscenza e dalla differenza degli oggetti, tratta solo della forma, non ha principi empirici (e perciò psicologici, come sembrerebbe per contro doversi ricavare dalle argomentazioni di Kreutzfeld), è una dottrina dimostrata e interamente a priori. Di conseguenza è chiaro che essa non può fornire quel criterio di verità che invece Kreutzfeld le rimprovera di voler perseguire. 46 Nel manoscritto di Kant questa frase e le tre successive sono collocate al margine inferiore del foglio contenente quanto le precede. Non mi sembra indispensabile congetturare, come fa Meerbote, che non sia sufficientemente chiaro a cosa si riferisca lo haec con cui essa inizia. 47 Kant trae probabilmente da Cicerone, Lettere ad Attico, IV, 6 (cfr. pure I, 20), ed adatta liberamente un frammento del Telefo di Euripide passato in proverbio: Spa/rtan e)/laxej, tau/tan ko/smei [“Ti è toccata Sparta; ora governala”]. Infondata la congettura di Schmidt (accolta da Meerbote), il quale – basandosi sull’iniziale minuscola di spartam – suppone che Kant abbia coniato un neologismo latino sul calco del termine spa/rth, che designa il filo di sparto usato per tracciare linee e, per metonimia, l’area tracciata, ossia – nel caso specifico – l’incarico ottenuto. Il senso generale e l’intento retorico evidentemente non mutano; ma occorre osservare che, se avesse voluto indicare lo strumento di misurazione o avesse equivocato sul referente di Spa/rtan, Kant avrebbe avuto a disposizione il latino spartum. D’altro canto, da un punto di vista strettamente tecnico, va notato che sparta non sarebbe affatto un neologismo, giacché veniva usato nel latino medievale come sinonimo di spelta. 94 come da una seconda fortuna e che al tempo stesso il sommo Nume Le conservi la vita e la salute, e in pari tempo mi raccomando alla Sua benevolenza ed amicizia. Mi rivolgo infine a Lei, esimio Risponditore, che – dotato dalla natura di eccellenti doti dell’animo, non superficialmente educato sia nelle belle lettere sia nelle scienze utili, e al tempo stesso amabile per la dolcezza del carattere – ho annoverato per lungo tempo fra i miei più uditori più eletti. Mi congratulo innanzitutto di cuore per il saggio di ingegno e dottrina che Ella ha fino a questo momento lodevolmente offerto. E poiché ormai si approssima il tempo che, conformemente ai Suoi meriti, l’opera cui Ella si è attivamente dedicato e la seminagione che ha sparso copiosamente siano ricompensate con una larga messe, auguro alla Sua speranza a buon diritto concepita un prospero e non esitante successo48. Inoltre, prego che il sommo Nume La protegga e La serbi incolume. Stiano in salute e siano benevoli [verso di me]. 48 Nell’originale il passo è fortemente sconnesso: Et cum iam tempus ingruat, quo, quam impiger collocasti operam et quam liberaliter sparsisti segetem, illa tibi pro meritis larga messe rependatur. Spei tuae iure conceptae fortunatos et non cunctantes successus opto. Adotto qui la proposta di Adickes di leggere il punto come una virgola e l’iniziale maiuscola seguente come un lapsus calami. Accettabile è però anche la soluzione di Schmidt, accolta da Meerbote: sostituire cum con tum e leggere pertanto: “E poi: venga presto il tempo in cui l’opera… e la seminagione… siano [o: saranno] ricompensate con una larga messe. Auguro alla Sua speranza…”. Meno sostenibile è l’obiezione di Schmidt, secondo il quale se si conservasse il cum, il primum del periodo precedente rimarrebbe sospeso. In realtà, come sostiene Adickes, al primum fanno da pendant i successivi Et dell’inizio e ceterum della fine del passo in questione. Christian Jakob Kraus (1753-1807) fu non solo uno degli scolari prediletti, ma anche amico di Kant e appartenne alla cerchia dei suoi commensali più assidui. Nel 1781 divenne ordinario di filosofia pratica e scienze dell’amministrazione dello stato [Kameralwissenschaften] nell’Università di Königsberg.