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OSCAR MEO
KANTIANA MINORA VEL RARIORA
IN APPENDICE: I. KANT, < SULL’ILLUSIONE POETICA >
Copyright © il melangolo, Genova 2000
ISBN 88-7018-419-6
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A Ilde e Ugo
INDICE GENERALE
Premessa
p.
I- La logica del comico
p.
II- Il colore: quasi una teoria
p.
III- Verità logica e logica della verità
p.
Appendice: I. Kant, < Sull’illusione poetica >
p.
3
Die Propädeutik zu aller schönen Kunst, sofern es auf den höchsten
Grad ihrer Vollkommenheit angelegt ist, scheint nicht in Vorschriften,
sondern in der Kultur der Gemütskräfte durch diejenigen Vorkenntisse
zu liegen, welche man humaniora nennt: vermutlich weil Humanität
einerseits das allgemeine Teilnemungsgefühl, andererseits das
Vermögen sich innigst und allgemein mitteilen zu können bedeutet;
welche Eigenschaften, zusammen verbunden, die der Menschheit
angemessene Geselligkeit ausmachen, wodurch sie sich von der
tierischen Eingeschränktheit unterscheidet.
[La propedeutica ad ogni arte bella, in quanto si ha di mira il grado
supremo della sua perfezione, sembra consistere non in precetti, ma
nella coltura delle facoltà dell’animo mediante quelle conoscenze
preliminari che si chiamano humaniora, presumibilmente perché
umanità significa da un lato il sentimento di compartecipazione
universale, dall’altro la facoltà di potersi comunicare nell’intimo ed
universalmente; proprietà che, unite insieme, costituiscono la
socievolezza appropriata al genere umano, mediante cui esso si
distingue dalla limitatezza animale.]
I. Kant
AVVERTENZE
.
Il secondo saggio costituisce la versione modificata di un articolo pubblicato con il titolo Kant e i colori in
“Epistemologia”, 1999/1 (XXII), pp. 3-36.
Per le opere di Kant citate più frequentemente ho utilizzato le seguenti sigle ed abbreviazioni:
= Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, in Kants Werke. Akademie Textausgabe, De Gruyter, Berlin 1968,
Bd. VII, pp. 117-334 (trad. it. di G. Vidari, Laterza, Bari 1969).
KrV A = Kritik der reinen Vernunft, 1. Auflage, ibid., Bd. IV, pp. 1-252.
KrV B = Kritik der reinen Vernunft, 2. Auflage, ibid., Bd. III (trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riv. da V.
Mathieu, Laterza, Bari 1969).
KU
= Kritik der Urteilskraft, ibid., Bd. V, pp. 165-486 (trad. it. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Laterza, Bari 1970).
Logik = Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, ibid., Bd. IX, pp. 1-150 (trad. it. a cura di L. Amoroso, Laterza, RomaBari 1984).
Prol. = Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, ibid., Bd. IV,
pp. 253-384 (trad. it. a cura di P. Martinetti, Paravia, Torino 1944).
Le “classiche” traduzioni italiane della I Critica, della III Critica e dei Prolegomeni indicate sono sempre state
confrontate con quelle più recenti (ormai numerose) e, al pari di quelle delle altre opere, in più punti modificate.
ApH
4
PREMESSA
Del pensiero di Kant mi hanno sempre attratto in modo particolare quelle tematiche verso le
quali solitamente anche gli specialisti filologicamente più agguerriti e dotati di maggior acume
venatorio mostrano scarso interesse, ritenendole di minore, se non addirittura nullo, peso teoretico
e/o di più facile interpretazione e soluzione: Kantiana minora vel rariora, appunto. A guidarmi in
questo lavoro di indagine non è mai stata la ricerca della novitas ad ogni costo o la mera curiosità
archeologica, ma la convinzione che illuminare certi angoli più in ombra delle opere maggiori di
Kant ed addentrarsi nel folto del suo complessivo percorso filosofico per rendere agibili certe piste
più intricate consenta di rintracciare meglio la tessitura fine del suo discorso e contribuisca, non
meno delle tematiche più studiate, ad affrontare con sempre rinnovata consapevolezza critica quelle
questioni filosofiche che erano centrali per lui e rimangono ovviamente centrali ancor oggi. Prima
fra tutte la domanda in cui, a suo stesso dire, si riassume l’essenza della filosofia: “Che cosa è
l’uomo?”. In questo senso, la frequentazione del pensiero kantiano, anche nei suoi aspetti più
marginali, costituisce un modo per mantenersi fedeli alla tradizione degli humaniora, e dunque a
quella Humanität cui il filosofo ormai morente aveva ancora la forza di rendere omaggio.
A ciò si aggiunga che alle radici della mia insistenza nel colloquiare criticamente con Kant
stanno pure ragioni teoretiche essenziali: il rapporto con lui, quella di sorta di feeling intellettuale
che fa sì che un filosofo divenga il filosofo, è stato ed è tuttora il fondamento imprescindibile per le
esplorazioni che ho compiuto in ambito gnoseologico, estetico e semiotico da una prospettiva
“costruttivista”, sia pure per molti aspetti divergente rispetto a quella kantiana. Ciò, già a partire dal
primo lavoro di discreto respiro: La malattia mentale nel pensiero di Kant (1982), ove cercai di
approfondire le indicazioni di carattere psicologico, epistemologico ed etico che provengono
dall’evoluzione della sua teoria psicopatologica, fornendo anche qualche indicazione sui rapporti fra
produzione patologica e creazione artistica. In seguito, cedendo alle insistenze dell’amico Carlo
Angelino, mi impegnai nell’edizione italiana delle lettere, pubblicata nel 1990 con il titolo
Epistolario filosofico (1761-1800). Nella scelta, discretamente ampia, mi orientai verso quei
documenti che potessero suscitare qualcosa in più di un mero interesse biografico e filologicoantiquario e dai quali risultasse più chiaramente il senso del lungo e faticoso percorso filosofico di
Kant. Nel frattempo, il mio interesse si era sempre più decisamente orientato verso gli aspetti
estetici della sua opera. Studiando la teoria del sublime e quella del simbolo, mi parve di scorgere
una prospettiva assai feconda: la possibilità di intrecciarle con il tema del tragico, a proposito del
quale le esplicite dichiarazioni di Kant sono di una pochezza a tutta prima davvero disarmante. Il
risultato della mia indagine fu il saggio Il tragico nell’estetica di Kant, confluito con uno studio sul
5
problema della ricezione in Hegel nel volumetto Tragico e fruizione estetica in Kant e Hegel
(1993). Il quadro delle mie esplorazioni kantiane è completato dal cap. II.3 del volume Il contesto
del 1991, in cui saggiai la possibilità di utilizzare una struttura davvero fondamentale del suo
pensiero, il “senso comune” della III Critica, a sostegno della concezione pragmatica del significato
e della comunicazione indissolubilmente connessa con la mia impostazione costruttivista.
I tre studi qui raccolti costituiscono dunque la prosecuzione di un ormai lungo cammino. In
essi ho seguito un metodo cui sono rimasto fedele nel corso del tempo: prendere le mosse dalle
esplicite considerazioni kantiane su un determinato tema e verificare come esse siano intessute con
il resto della teoria, costituendone di volta in volta le conseguenze o il supporto. I primi due studi si
raccordano direttamente con l’estetica kantiana. In particolare, il primo, che si occupa del comico, si
colloca in posizione per così dire complementare rispetto a quello sul tragico. Come era accaduto
allora, anche in questo caso, piuttosto sorprendentemente, non ho trovato nell’ambito della
letteratura secondaria lavori specifici, tranne qualche rassegna storica, per altro ormai assai datata.
Ciò, sebbene – come è assai noto – la teoria kantiana dell’arguzia (perché di essa propriamente ne
va) abbia avuto un’eco vastissima, che ha travalicato i ristretti confini della riflessione estetica e ha
investito direttamente le teorie psicologiche ed antropologiche: iniziata negli anni successivi alla
pubblicazione della III Critica (in Jean Paul, nella teoria romantica dell’ironia, in Hegel), essa si è
sviluppata attraverso Vischer, Lipps e Freud ed è giunta fino a Plessner e ai teorici della ricezione.
Ho cercato di tenere conto della mediazione effettuata da questi sviluppi autonomi, nella misura in
cui essi mi sono apparsi rilevanti ai fini di un miglior approfondimento dell’elaborazione kantiana
del problema.
Il secondo saggio affronta un altro tema finora mai studiato a fondo nella sua genesi, nella
sua evoluzione e nella sua relazione con la filosofia critica nel suo complesso: quello del colore.
Esaminando le due edizioni della I Critica, i Prolegomeni e la III Critica, ho cercato di porre in
evidenza gli aspetti gnoseologici, epistemologici ed estetici della concezione kantiana, seguendo la
trasformazione progressiva da essa subita fino ai suoi esiti estremi nell’Opus postumum.
Ripubblicando qui il saggio con il permesso di Evandro Agazzi, Direttore di “Epistemologia”, ho
operato alcune sostanziali modifiche ed integrazioni nella parte concernente i riflessi estetici della
teoria del colore; in considerazione del carattere peculiare della Rivista, il loro approfondimento
non era infatti possibile nella versione originaria.
Il terzo saggio si occupa di un tema decisamente “maggiore”: quello della verità, nel suo
situarsi al punto di raccordo fra logica, gnoseologia ed ontologia. Tuttavia, nonostante l’oggettiva
importanza dell’argomento, non si può affermare che – soprattutto in Italia – vi sia grande
abbondanza di trattazioni specifiche. Il silenzio che in passato calò su di esso, o i pochi e fuggitivi
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cenni che – quasi obtorto collo – vi venivano fatti, si giustificano probabilmente con la diffusa
opinione secondo cui la parola conclusiva sulla questione l’avrebbe pronunziata lo stesso Kant nella
celebre “definizione nominale” della verità che compare nell’Introd. alla Logica trasc. della I
Critica. Occupandomi dell’argomento, ho ovviamente tenuto conto delle ormai note critiche
all’interpretazione corrispondentista della teoria kantiana della verità e ho cercato di fornire il mio
contributo alla migliore delimitazione di un problema il cui esame mi sembrava indifferibile anche
ai fini della mia proposta teoretica. In questo, come del resto nei saggi precedenti, ho preferito
tuttavia limitare al minimo i riferimenti ad una possibile utilizzazione in chiave moderna delle idee
di Kant. Non ho osato, in sostanza, ignorare completamente il precetto baconiano de nobis ipsis
silemus (inteso nella sua accezione teoretica e non biografico-psicologica) sovrapponendo
all’interpretazione di Kant, già di per sé inevitabilmente “di parte”, riflessioni condotte bensì
muovendo da Kant, ma svolgentisi secondo linee autonome, e spesso contrarie, rispetto a quelle da
lui indicate.
Ho aggiunto in appendice la trad. it. di uno scritto latino di Kant: il discorso che egli, in
qualità di controrelatore, tenne nel 1777 in occasione dell’assunzione dell’ordinariato da parte di
J.G. Kreutzfeld. Questo capitoletto della produzione minore di Kant è interessante non tanto perché
si tratta di un documento storico della sua attività ufficiale, ma soprattutto perché offre alcuni spunti
di carattere gnoseologico ed estetico (vi compare pure – inter alia – una gustosa interpretazione
della passione di Petrarca per Laura). Quando il mio lavoro era ormai ultimato, venni a conoscenza
dell’esistenza di un’altra trad. it., comprendente anche il testo della dissertazione di Kreutzfeld. Ho
deciso di pubblicare ugualmente la mia per ragioni di completezza; mi è parso infatti di poter
scorgere significativi rapporti fra il punto teoreticamente centrale dello scritto, ossia la distinzione
fra fraudolento inganno dei sensi ed illusione esteticamente piacevole, e le pagine della III Critica
dedicate all’arguzia.
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I
LA LOGICA DEL COMICO
Quando si parla di “comico” a proposito dell’estetica di Kant, il termine va inteso in un
significato assai vago e generale. Egli stesso, nelle pagine della III Critica che costituiscono
l’oggetto specifico del presente lavoro, non ne fa uso e si limita a prendere in esame le situazioni,
definite in generale ludiche, in cui il riunirsi di un gruppo di persone è finalizzato al divertimento.
Ad echeggiare qui è dunque un’atmosfera conviviale, punteggiata di allegre risate, in cui spensierati
giochi di società, l’intrattenimento musicale fatto di composizioni leggere ed elegantemente
armoniose, i motti di spirito (non privi magari di bonaria ironia, ma mai eccessivamente salaci) si
susseguono per assicurare una pausa di distrazione e di serenità nel frammezzo degli eventi seri
della vita1. D’altro canto, del fatto che il termine “comico” non possa essere assunto a proposito di
Kant nella sua accezione più ristretta costituisce una testimonianza l’assenza di riferimenti alla
commedia antica o moderna nella III Critica2. Ciò pone indubbiamente all’interprete problemi
ancora più ardui di quelli sollevati dal tragico, giacché quest’ultimo trova almeno collocazione nella
classificazione delle arti e, fra le pieghe dell’argomentare kantiano, è possibile scorgere quanto
meno un embrione di teoria3. Quali sono, ci si potrebbe chiedere, le ragioni di questo silenzio? Si
tratta soltanto di un limite culturale di Kant oppure di una questione di gusti personali? O ancora: è
esso il frutto di una scelta teoretica precisa? In mancanza di riscontri testuali, non è ovviamente
possibile risolvere il problema. Tuttavia, sulla base degli scarsi e scarni riferimenti alla commedia
Considerazioni di questo genere sono esplicite in ApH, ossia nell’opera cui queste pagine di KU sono più
vicine per tematica e per impostazione metodologica. Cfr. per es. la Nota generale al § 79, p. 265 (trad. it., p. 156):
“Avere in società come bersaglio dell’arguzia [Witz] (in senso buono), senza tuttavia essere mordaci (burla senza
offesa), qualcuno che sia disposto a rendere la pariglia e così sia pronto a destare un’allegra risata è un modo bonario e
al tempo stesso raffinato di ravvivare la compagnia”. Nella traduzione del polisenso termine Witz occorre tenere
ovviamente conto del fatto che nel Settecento esso designava per lo più la facoltà o capacità di (la disposizione a)
produrre motti di spirito, mentre oggi designa quasi esclusivamente il suo prodotto, ossia la trovata arguta, il motto di
spirito, lo scherzo, ecc. In considerazione del fatto che in ApH, attingendo per altro a diverse tradizioni culturali, lo
stesso Kant dà come sinonimi di Witz inteso come facoltà il latino ingenium (che è termine tecnico della retorica
ciceroniana) e il francese esprit (cfr. §§ 44 e 57), ricorrerò, a seconda del contesto, a termini come “spirito”, “arguzia”
(nel duplice senso testé chiarito di dote mentale e di prodotto), “ingegno”.
2
In verità, anche qualora si consideri la produzione kantiana nel suo complesso, i riferimenti alla commedia
risultano assai scarsi. L’unica presa di posizione denotante un preciso interesse culturale è la seguente, tratta dalle
Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen: “A mio modo di vedere la tragedia [Trauerspiel] si
distingue dalla commedia [Lustspiel] principalmente in questo: nella prima il sentimento è mosso al sublime, nella
seconda al bello… La commedia rappresenta… sottili intrighi, imbrogli sbalorditivi e spiritosi d’ingegno [Witzige] che
si sanno trarre d’impaccio, sciocchi che si fanno gabbare, burle e caratteri comici. L’amore non è qui così struggente,
ma lieto e confidenziale. Tuttavia, come in altri casi, anche in questo possono congiungersi in certo grado nobiltà e
bellezza” (Kants Werke. Akademie Ausgabe, Bd. II, De Gruyter, Berlin 1968, p. 212; trad. it. in Scritti precritici, a cura
di R. Assunto e R. Hohenemser, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 298). Conformemente alla declinazione psicologistica del
pensiero di Kant nel periodo precritico, da questa modesta e poco originale caratterizzazione (così come per altro da
quella parallela della tragedia) risulta una certa predilezione per i toni sfumati e per una drammaturgia da cui emergano
comunque l’importanza dei sentimenti e la loro dignitosa rappresentazione.
1
8
che si trovano negli scritti di carattere antropologico (sia che si tratti di quelli pubblicati vivente
Kant, delle Reflexionen o delle Vorlesungen), è lecito formulare l’ipotesi che all’indubbia
ristrettezza della competenza in fatto di letteratura teatrale e al probabile disinteresse per il mondo
dello spettacolo in generale si unisca in lui una peculiare presa di posizione teoretica: il diletto
comico (così come per molti aspetti quello tragico) è oggetto di un interesse psicofisiologico più che
genuinamente estetico. Esso, pertanto, si pone dal lato del gradevole e non da quello del bello.
Assai significativamente, alla domanda “perché gli anziani preferiscono l’opera comica [das
komische, sc.: Schauspiel] fino a quella burlesca?” egli così risponde:
“…negli anziani questa impressione [sc.: di angoscia o di terrore] non dilegua così facilmente ed essi
non sono in grado di produrre di nuovo in se stessi così facilmente la disposizione all’allegria. Un
Arlecchino dallo spirito [Witz] pronto causa in loro con le sue trovate una benefica vibrazione del
diaframma e dei visceri: grazie a ciò, l’appetito per la successiva cena in compagnia si aguzza, e poi la
conversazione giova ad esso”4.
La preminenza dell’interesse antropologico per il comico in generale è rivelata anche dalla
collocazione marginale che le osservazioni kantiane sul fenomeno hanno nell’ambito del “sistema”
della III Critica: si tratta di nulla più che di una mera appendice al tentativo di delineazione di una
tassonomia delle arti, infittita per di più di esempi e considerazioni almeno a prima vista assai poco
pertinenti ad una trattazione fondata sui principi trascendentali, quale è quella che Kant ha
comunque come obiettivo. Tanto secondario è il valore attribuito al diletto ricavato dalle situazioni
comiche, che Kant rinunzia addirittura a conferire alle proprie riflessioni la dignità di paragrafo
autonomo5.
Tuttavia, nonostante la mancanza di compiutezza e di approfondimento concettuale, le
considerazioni di Kant in questa appendice sono assai meno incoerenti, casuali e teoreticamente
infondate di quanto si possa pensare ad una prima e superficiale lettura. Piuttosto, esse si rivelano
saldamente ancorate ad alcune strutture fondamentali della filosofia trascendentale: la teoria delle
facoltà e la tavola delle categorie. Se si guardano le cose da questo punto di vista, si è indotti a
rifiutare l’idea radicale che queste pagine non costituiscano nulla più che un corpo estraneo
all’interno della sistematica della III Critica, sebbene – come è ovvio – ciò non possa condurre ad
una loro sopravvalutazione sia sul piano teoretico sia sul piano estetico. Infatti esse costituiscono
pur sempre un capitolo dell’antropologia di Kant, come è confermato per altro dal fatto che il
nucleo intorno a cui egli organizza il suo discorso teoretico è già presente in una fase abbastanza
precoce della sua meditazione, quella – per l’appunto – in cui l’estetica non solo non ha ancora
Su questo punto cfr. O. Meo, Il tragico nell’estetica di Kant, in Id., Tragico e fruizione estetica in Kant e
Hegel, Il melangolo, Genova 1993, pp. 47-83.
4
ApH, § 79, 263 (it. 154).
5
Soltanto a partire dall’ed. Hartenstein all’originaria appendice di Kant fu aggiunta l’indicazione “§ 54” e il
titolo Note.
3
9
ricevuto una fondazione trascendentale, ma si fonde inestricabilmente con le osservazioni di
carattere antropologico. L’impressione generale è che Kant tragga egli stesso divertimento nel
celare allusioni a pensieri profondi fra le proprie sparse osservazioni, per lo più di interesse
empirico, e che sfidi in qualche maniera il lettore a trovare da sé la trama del suo gioco concettuale.
E quale migliore occasione per giocare con l’intelligenza del lettore di una trattazione in cui proprio
il tema del gioco occupa fin dall’inizio il centro della scena?
1- Il gioco.
Le osservazioni con cui il § 54 inizia fanno seguire alcuni rilievi di interesse psicofisiologico
(e più in generale antropologico) alla ripresa di una delle tematiche teoretiche fondamentali della III
Critica: la distinzione fra il bello e il meramente gradevole. Il fatto che Kant riporti subito
all’attenzione del lettore “la differenza essenziale” (ossia ontologica) fra “ciò che piace
semplicemente nel giudizio” e “ciò che diletta [vergnügt] (piace nella sensazione)” mostra
chiaramente quale sia il suo intento generale: distinguere accuratamente fra l’oggetto del giudizio di
gusto e quei divertimenti o passatempi che non contribuiscono all’elevazione dell’umanità e non
possono pertanto esigere a priori il consenso universale. E ciò contribuisce a spiegare perché la
trattazione del comico sia isolata in vitro, racchiusa entro i confini di una mera appendice: ci
troviamo qui sul piano di ciò che è semplicemente ed irrimediabilmente soggettivo ed
idiosincratico. Gli intrattenimenti gradevoli non possono essere ricondotti nell’ambito delle arti
belle, tali cioè da contribuire alla Bildung etica, sociale, culturale dell’umanità, giacché
l’idiosincratica soddisfazione sul piano del sentire immediato è correlata – almeno in prima battuta
– allo stato di benessere psicofisico dell’individuo che la prova e non all’apertura comunitaria che
costituisce una specifica vocazione del giudizio di gusto.
Fin qui non vi è nulla di nuovo rispetto a posizioni già note né tale da far presagire sviluppi
interessanti della discussione, la quale – oltre ad essere ripetitiva e monotona – appare piuttosto
difettosa anche dal punto di vista della disposizione delle argomentazioni. Di fatto, ad apparire
subito in evidenza è un punto debole: tutti i fattori di cui si compone la costellazione psicofisica, da
quelli più elevati (per es.: gli affetti teneri, le emozioni delicate, i sentimenti nobili) a quelli più
rozzi e primitivi (per es.: gli istinti e le pulsioni vitali fondamentali) vengono trattati senza che si
istituisca fra di essi una gerarchia assiologica. Ma anche in questo caso si tratta di una conseguenza
della distinzione fondamentale fra il piano elevato del gusto e il piano inferiore del piacere
sensibile. Nell’economia del testo, la differenza fra il bello connesso con la riflessione e il
gradevole connesso con i sensi serve a Kant per spiegare come – date le opposte polarità
fondamentali piacere-dispiacere (concernente il piano intellettuale) e diletto-dolore (concernente il
10
piano sensibile) – si generino fra di esse, in determinate situazioni di coinvolgimento affettivo (ed
anche estetico) profondo, quattro possibili combinazioni: 1) fra piacere e dolore, che viene chiarita
mediante l’esempio del dispiacere (razionale) provato per la propria (istintiva) felicità dall’erede di
una cospicua sostanza; 2) fra dispiacere e diletto, esemplificata dalla dolcezza della rimembranza
del passato in una vedova inconsolabile6; 3) fra diletto e piacere (l’esempio è quello della
commistione fra pathos e logos durante l’applicazione nello studio delle scienze)7; fra dolore e
dispiacere, nel caso di affetti a forte valenza negativa, come odio, invidia o (desiderio di) vendetta.
Queste svariate possibilità di combinazione mostrano, secondo Kant, che diletto e piacere (o i loro
contrari) non possono essere identificati; ma soprattutto introducono una seconda serie di
riflessioni, ancora una volta condotte più nel tono conversazionale del discorso genericamente
antropologico che in quello rigoroso e metodico del ragionamento filosofico. Tuttavia lo stile non
deve ingannare, giacché questa volta Kant affronta infatti un tema di grande rilievo teoretico:
l’oggetto della discussione è il concetto di “gioco”, predicato definiente del quale è la libertà. Così
egli si esprime brachilogicamente in un appunto di rilievo antropologico di incerta datazione:
“Il libero gioco (un gioco coatto è una contraddizione)…
Il gioco non deve diventare serio o finalizzato, per es. la tragedia [Trauerspiel], che abbatte”8.
Ciò significa che il gioco presenta il carattere del puro intrattenimento, scevro di interesse e di
scopo, che piace soltanto per l’attraente scossa che le sue alterne vicende comunicano 9. Ritorna in
sostanza l’idea che il divertimento arrechi benessere psicofisico:
6
I due esempi sono riportati anche nel § 64 di ApH. Per quanto concerne il secondo caso, però, mentre in KU
alla tristezza della vedova fa da pendant la considerazione per gli alti meriti del marito, in ApH il contrasto è fra il
dolore per la perdita e la constatazione che il defunto l’ha lasciata in un buono stato economico. Come si può constatare,
in ApH, Kant ha creato inintenzionalmente due potenziali tipi comici.
Dal punto di vista concettuale, in entrambe le combinazioni si può cogliere l’applicazione in ambito
extraestetico di quella specie di sentimento che gli estetologi psicologizzanti del Settecento chiamavano “misto”. Non è
pertanto da escludere una critica implicita alla commistione di estetica e psicologia nel maggiore esponente tedesco
della teoria dei “sentimenti misti”: Mendelssohn. Su questo aspetto della filosofia di Mendelssohn cfr.: L. Goldstein,
Moses Mendelssohn und die deutsche Ästhetik, v. Gräfe u. Unzer, Königsberg i.P. 1904, p. 49 e 149; L. Richter,
Philosophie und Dichtkunst. Moses Mendelssohns Ästhetik zwischen Aufklärung und Sturm und Drang, Chronos
Verlag, Berlin 1948, pp. 36-37; A. Nivelle, Kunst- und Dichtungstheorien zwischen Aufklärung und Klassik, De
Gruyter, Berlin 1960, pp, 59-60 e 103; C. Begemann, Furcht und Angst im Prozess der Aufklärung. Zu Literatur und
Bewußtseinsgeschichte des 18. Jahrhunderts, Athenäum, Frankfurt/M. 1967, pp. 102 e 105 (con riferimenti alla
presenza del tema in Leibniz e Lessing); O.F. Best, Einleitung, in M. Mendelssohn, Ästhetische Schriften in Auswahl,
Wiss. Buchgesellschaft, Darmstadt 1974, p.13; G. Sauder, Mendelssohns Theorie der Empfindungen im zeigenössischen
Kontext, in AA.VV., Humanität und Dialog: Lessing und Mendelssohn in neuer Sicht, Beiheft zum “Lessing
Yearbook”, Wayne State Univ. Press, Detroit 1982, pp. 243-244; K.-W. Segreff, Moses Mendelssohn und die
Aufklärungsästhetik im 18. Jahrhundert, Bouvier, Bonn 1984, pp. 33 e 92; C. Zelle, “Angenehmes Grauen”.
Literaturhistorische Beiträge zur Ästhetik des Schrecklichen im achzehnten Jahrhundert, Meiner, Hamburg 1987, p.
329 (ivi pure richiami alle fonti remote e prossime di Mendelssohn: Cartesio, Bodmer e Breitinger).
7
In ApH, § 64, 237 (it. 127) si parla di soddisfazione di un uomo per la propria capacità di godere delle “arti
belle”, ossia per la propria finezza.
8
Refl. n. 807 (presumibilmente databile agli anni 1776/78), in Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, De Gruyter,
Berlin 1923, pp. 358-359. Rifiutando, per altro con buone ragioni, di definire la tragedia come un “gioco”, Kant sembra
mostrare una certa insoddisfazione per il termine Trauerspiel, in lui per altro abitualmente ricorrente in conformità
11
“Ogni libero gioco cangiante delle sensazioni (che non hanno a fondamento alcuno scopo [Absicht])
diletta, perché promuove il sentimento della salute, sia che abbiamo, nel giudizio razionale, un piacere
per il suo oggetto e per il diletto stesso oppure no; e questo diletto può aumentare fino a diventare un
affetto, sebbene non prendiamo alcun interesse all’oggetto stesso, per lo meno nessun interesse che sia
proporzionato al grado dell’affetto”10.
A questo punto è facile scorgere le analogie che il gioco dilettevole ha con l’oggetto del
giudizio di gusto: assenza di interesse e di scopo costituiscono predicati comuni ad entrambi. Ciò
non è evidentemente sufficiente per identificare gioco e oggetto estetico. Anche se l’idea della
libertà connessa con il gioco non può non rinviare a quel libero gioco delle facoltà conoscitive (non
solo intelletto e immaginazione, ma anche ragione) che è per Kant una caratteristica definiente
dell’approccio estetico all’oggetto, la differenza è – almeno secondo Kant – chiarissima. Da un lato,
l’assenza di impegno intellettuale diretto è costituente essenziale del rapporto con l’oggetto estetico
e consente al Giudizio riflettente di mantenere, per così dire, una posizione autocefala e mobile, di
assumere una funzione di Mittelglied fra le facoltà conoscitive superiori e di presidiare l’Übergang
fra natura e libertà (così che chi se ne servisse in funzione estetica si troverebbe come in equilibrio
su un ponte sospeso, su cui liberamente muoversi e danzare). Dall’altro lato, vi è una serie di attività
di tipo sociale definibili come ludiche, le quali non mettono in moto le facoltà conoscitive superiori
agevolando il loro libero gioco, ma gli organi corporei e la complessione psichica degli individui
che ad esse partecipano. E tuttavia, anche rimanendo all’interno della rigida demarcazione fissata da
Kant, ci si accorge ben presto che, fra le pieghe del suo argomentare, si annida il pericolo della
contraddizione. Intendo dire che, conformemente al postulato dell’assenza di interesse e di scopo,
dalla classe dei giochi dovrebbero essere escluse tutte quelle forme di divertimento che comportino
rischio economico e/o psicofisico, eccessivo dispendio di energie (anche intellettuali), al limite
potenziali perturbazioni nei rapporti sociali. Se si considerano le cose da questo punto di vista, la
prima delle tre categorie di giochi che Kant menziona (quelli di fortuna) incontra un limite
immediato nell’intervento del calcolo e dell’avidità di guadagno. Il gioco di fortuna, infatti,
“esige un interesse, o della vanità o dell’utilità, il quale però è di gran lunga meno grande di quello
che abbiamo per il modo in cui cerchiamo di procurarcelo” 11.
Per evitare una clamorosa contraddizione con il postulato della mancanza di interesse e consentire
al gioco di fortuna di rientrare nell’ambito della propria classificazione, Kant è costretto ad
introdurre una importante restrizione: sono tuttavia ammessi quei giochi di fortuna in cui non conta
tanto il risultato economico, quanto piuttosto l’incessante vicenda di timore e speranza che li
all’uso affermatasi durante il Settecento nella riflessione estetica di lingua tedesca (cfr. O. Meo, Il tragico nell’estetica
di Kant, cit., pp. 71-72, n. 8).
9
Cfr. a questo proposito la Refl. n. 808, ibid., p. 359: “L’occupazione che in sé diletta è intrattenimento; quella
che soddisfa soltanto mediante lo scopo: lavoro”.
10
KU 331 (it. 193).
11
Ibid.
12
contraddistingue e che serve come rimedio contro la noia12. Allorché intervengono fattori di altra
natura (l’agonismo esasperato, la brama di denaro, la volontà di vincere, il gusto del trionfo e
dell’annichilamento dell’avversario), il gioco – lascia capire Kant – cessa di essere tale, perché –
subentrando l’interesse e lo scopo – viene meno il libero e gratuito avvicendarsi di vittoria e
sconfitta, attesa e delusione. Chi è in preda ad una passione (e il gioco d’azzardo può trasformarsi in
irrefrenabile e distruttiva passione) non può divertirsi perché non è in grado né di far intervenire le
proprie facoltà intellettuali perché impongano il proprio dominio né di assistere senza impegno alle
variazioni che dal loro gioco scaturiscono, librandosi e sospendendo il proprio giudizio: in questo
caso, infatti, egli non si dispone in quell’atteggiamento sereno che è condizione fondamentale di un
godimento che – pur non essendo a rigore estetico – è comunque assai simile ad esso, ma è agito
dalle proprie inclinazioni “empirico-patologiche”.
Così come Kant l’intende, l’attività ludica si qualifica dunque più propriamente come svago
caratterizzato da una doppia libertà: esterna ed interna13. Esterna lo è per tre ragioni: perché libera è
la stipulazione collettiva da cui il gioco nasce; perché dipende dalla mia volontà parteciparvi o
meno; perché posso a mio piacimento decidere quando uscirne. Interna lo è perché nel corso del
gioco mi sento intimamente libero, non sottoposto ai condizionamenti della vita quotidiana,
proiettato in un mondo governato da leggi proprie e munito di significati propri. Se manca tutto
questo, se – per parafrasare Schiller – non posso contrapporre la serenità del gioco alla serietà della
vita, l’allestimento e lo svolgimento dell’attività ludica si trasformano in tormento esistenziale. Si fa
dunque ancora una volta evidente in Kant l’esigenza di isolare in vitro l’atteggiamento estetico (o
quasi estetico) rispetto agli altri atteggiamenti e comportamenti umani, rispetto alla sfera
dell’interesse intellettuale e/o etico, rispetto alla sfera dell’interesse pragmatico. Ciò non significa
naturalmente che ci si possa sottrarre alle regole previste dal gioco: una volte accettate le premesse,
è impossibile evitare di accettare la subordinazione ad esse, la condivisione della forma e dei ruoli.
Ferma resta soltanto la possibilità di smettere di giocare. Ma perché ciò accada, non vi deve essere
uno scopo esterno al gioco stesso, un interesse a suo fondamento; occorre, in sostanza, che sia stato
in precedenza stipulato (esplicitamente o tacitamente) un accordo intorno alla natura puramente
ludica della relazione, che sia cioè definito preliminarmente il contesto situazionale in cui l’attività
si svolge. E’ chiaro che un gioco così concepito presenta notevoli analogie con la fruizione estetica,
12
Cfr. ApH, § 60, 232 (it. 121). Ma cfr. pure la Menschenkunde, ossia le lezioni di antropologia del semestre
invernale 1781/82: “Un uomo ragionevole che si mette a giocare non può avere per scopo il guadagno, ma non può non
credere che alla fine dovrà pagare almeno un pegno. Perciò il suo scopo dev’essere altro che guadagnare. Durante il
gioco, il suo scopo è sicuramente guadagnare, ma non ha cominciato a giocare per questo scopo. Ci sono qui soltanto
speranza e timore, che in fondo sono vani; ma durante questa frangente ci si distrae, e si è dissipato quel dolore che
tormenta gli uomini con il nome di ‘noia’” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XXV, De Gruyter, Berlin 1997, pp. 1076-1077).
13
Per una più dettagliata analisi del fenomeno del gioco come libero svago, cfr. O. Meo, Il contesto.
Osservazioni dal punto di vista filosofico, F. Angeli, Milano 1991, pp. 99-106.
13
intesa come libero godimento spirituale di un bene spirituale. Libero godimento, giacché non vi è –
dalla parte del fruitore – nessuna coercizione e nessun interesse materiale nel commercio con
l’oggetto di cui si gode; libero bene, giacché l’atto di fruizione – proprio perché disinteressato e
spirituale – lascia l’oggetto liberamente sussistere nel proprio essere, a disposizione per ulteriori atti
di fruizione14. In Kant, che si conferma in tal modo convinto assertore della teoria della
contemplazione disinteressata, il coinvolgimento del soggetto nella fruizione non può mai essere
tale da costituire un pericolo per la sua vita psichica e/o etica: egli è ancora signore del proprio sé ed
in grado di decidere autonomamente quando cessare il rapporto, giacché il suo eventuale
compenetrarsi nell’oggetto, la sua eventuale partecipazione simpatetica, non è mai in grado di
annientare la volontà. Il gioco kantiano costituisce pertanto una virtù sociale, la cui funzione è
quella di tenere in esercizio la mente ed il cuore, senza però impegnarli in modo da mettere in
pericolo il dominio sulle proprie emozioni. Non ne consegue propriamente l’elogio della medietas o
del risparmio affettivo ed intellettuale. Kant ha qui in mente piuttosto l’esigenza di delimitare nel
modo più preciso possibile il dominio dell’intrattenimento (o svago) rispetto alla serietà della vita,
all’impegno etico, teoretico e pragmatico che essa richiede: nel gioco le emozioni (speranza, timore,
gioia, collera, scherno)
“sono così vivaci, da sembrare che tutta l’attività organica ne sia agevolata, come da un moto interno,
come dimostra il brio dell’animo che ne è prodotto, sebbene non si sia né guadagnato né appreso
alcunché” 15.
Non è però il gioco di fortuna a costituire l’oggetto principale dell’attenzione di Kant in
prospettiva estetico-antropologica. Egli si libera rapidamente della questione dichiarando di voler
mettere da parte questo tipo di gioco perché “non è un gioco bello”. Ora, merita il predicato “bello”
soltanto ciò che è oggetto di un giudizio di gusto. Che cosa impedisce la formulazione di un
giudizio di gusto nel caso del gioco di fortuna? Indubbiamente il fatto che vi sia, se non un vero e
proprio “scopo interessato” (ossia la prospettiva di ricavare per lo meno un utile), quanto meno un
interesse per il gioco in sé. Viene meno cioè, in questo tipo di gioco, la prima conditio sine qua non
dell’apprezzamento estetico: il momento qualitativo del giudizio di gusto. Il divertimento che se ne
ricava non è evidentemente riconducibile a quello spirituale: non a caso, il movimento che è così
salutare per il corpo apporta un contributo decisivo al benessere complessivo del soggetto. Non solo
emerge qui in tutta la sua chiarezza l’alto livello di rarefazione che Kant esige in fatto di giudizio di
gusto, ma si rivela pure una certa tendenza ad idealizzare il gioco (s’intenda: quello che sembra
14
Per un approfondimento del tradizionale concetto di fruizione (che, come è noto, affonda le sue origini nella
distinzione agostiniana fra frui e uti), cfr. O. Meo, Ricerche sull’estetica della fruizione, La Quercia, Genova 1995, pp.
12-15.
15
KU 332 (it.193). Per quanto concerne le emozioni, alcune di quelle considerate tradizionalmente come
fondamentali (gioia e timore) vengono mescolate piuttosto disordinatamente con altre che, variamente modulate, ad
esse si uniscono. La rassegna ha comunque puro valore esemplificativo.
14
meritare il predicato “bello”). Essa appare in realtà mutuata dalla concezione dell’oggetto estetico
come appartenente ad una sfera conchiusa ed impenetrabile rispetto ai condizionamenti oggettivi
del mondo; in altre parole, appare strettamente connessa alla tesi della ateoreticità e della apraticità
del giudizio di gusto. E’ difficile in realtà supporre che si possa identificare totalmente la libertà del
gioco (ispirata alla libera autoimposizione delle regole, alla partecipazione alla produzione di
significati nuovi, alla decisione autonoma di entrare nel mondo dell'oggetto estetico che sono le
caratteristiche proprie di un fruitore à la Kant) con l’assoluta assenza di interessi estranei alla sfera
ludica stessa e con l’assoluta assenza di scopi, ossia con l’autocompiaciuta ed autosufficiente
“finalità senza scopo” del Giudizio riflettente. Anche prescindendo dal fatto che esistono giochi
competitivi, in cui lo scopo è massimizzare il profitto (non importa se economico, sociale o
psicologico), e che perfino il gioco infantile è parte integrante di un processo intellettuale (quello di
apprendimento) e non costituisce pertanto una parentesi conchiusa ed isolata nella vita
dell’individuo, potremmo concepire lo scopo ludico come interno al gioco stesso: la meta
consisterebbe nel trarre il maggior vantaggio psicologico possibile dall’adesione alle regole del
gioco16. Per altro, come si vedrà fra breve, lo stesso Kant è costretto ad ammettere – sia pure
implicitamente – un “interesse” dell’homo ludens nel momento stesso in cui lo nega. E con ciò
siamo di nuovo inevitabilmente proiettati fuori della sfera del bello e del Giudizio riflettente.
Accanto al gioco di fortuna Kant ne menziona altri due tipi: il “gioco musicale” (Tonspiel)17
e “il gioco di pensieri” (Gedankenspiel). Poiché il primo ha a che fare con le “idee estetiche”,
inevitabilmente vi svolgono un ruolo fondamentale l’immaginazione che si muove in direzione del
sovrasensibile e la vocazione dell’artista ad esibire in concreto nell’intuizione, e non per via di
concetti, le idee della ragione. In tal modo, Kant rinvia – sia pure in modo ellittico – alla
discussione condotta nel fondamentale § 49 intorno al carattere marcatamente simbolico della
produzione artistica18. Ma, in questa modesta e frettolosa ricapitolazione, viene meno un elemento
strutturale della proposta teoretica là formulata: la sottolineatura del rapporto fra il “gioco” di cui ci
Così, per es., J. Huizinga: “Gioco è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti
definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta,
che ha un fine in se stessa, che è accompagnata da una senso di tensione e di gioia e dalla coscienza di ‘essere diversi’
dalla ‘vita ordinaria’” (Homo ludens, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1967, p. 55). Palesemente influenzata da Kant è la
tesi di H.-G. Gadamer secondo cui “ciò che qui, nella forma dell’agire libero da scopi, pone a se stesso la regola è la
ragione. Il bambino è infelice se la palla gli scappa di mano già al decimo rimbalzo, ma va fiero come un re se gli riesce
di farlo trenta volte” (Die Aktualität des Schönen, Reclam, Stuttgart 1977, p. 30; trad. it., Marietti, Genova 1986, p. 25).
In realtà, anche in questo caso, è possibile interpretare il comportamento del bambino come finalizzato ad ottenere il
miglior risultato possibile e dunque all’accrescimento della propria autostima mediante la dimostrazione della propria
abilità.
17
In forza dell’uso fortemente impreciso della terminologia musicale in Kant, rimango in dubbio se con Ton
egli intenda il suono in generale o – come è parimenti probabile – le note. Preferisco pertanto il più generico “gioco
musicale”.
18
Per una più ampia trattazione di questo tema, cfr. O. Meo, Il tragico nell’estetica di Kant, cit., pp. 54-59..
16
15
si sta occupando e i pensieri, seri e sublimi, che l’idea estetica suggerisce. Contrariamente a quanto
accade a proposito del simbolo, sembra proprio che la musica non dia da pensare.
Per quanto concerne il “gioco di pensieri”, Kant afferma che in quel caso si muove da
rappresentazioni intellettuali, con le quali però “alla fine non si pensa nulla”: esse dilettano solo in
virtù del loro libero cangiare. E in precedenza, Kant aveva sostenuto che il gioco di pensieri
“sorge semplicemente dal mutare delle rappresentazioni nel Giudizio, con cui non viene prodotto
certamente alcun pensiero che comporti un qualche interesse, ma viene tuttavia vivificato l’animo”19.
Ora, l’affermazione kantiana risulta a prima vista ossimorica: in quanto è una caratteristica
definiente del pensiero procedere per concetti, esso non può mai essere vuoto. Di conseguenza, sarà
subito da scartare l’ipotesi che il “nulla” oggetto del pensiero possa coincidere con l’assenza di
concettualizzazione. Se così fosse, dovremmo concludere che Kant ignora qui la logica. In realtà,
egli ha in mente qualcosa che va al di là del ristretto orizzonte ludico su cui la sua attenzione
sembra esclusivamente appuntarsi, qualcosa che ha un rapporto strettissimo con la logica e
l’ontologia: la sua frase anticipa un’idea che – sebbene anch’essa non pienamente sviluppata –
occuperà fra poco il centro della scena teoretica.
2- Il Witz.
Prima di affrontare la questione, è opportuno soffermarsi brevemente sui presupposti
concettuali dell’affermazione secondo cui il cangiare delle rappresentazioni procura diletto. Come è
noto, fra le facoltà umane ve n’è una che svolge la funzione di presiedere alla libera composizione
dei giudizi: il Witz, che è legato da stretta parentela al Giudizio riflettente. Secondo Kant, da
quest’ultimo il Witz si differenzia per una certa qual sovrabbondanza di produzione:
“Come la facoltà di trovare il particolare in vista dell’universale (della regola) si chiama Giudizio, così
quella di concepire l’universale in vista del particolare si chiama ingegno (ingenium). Il primo è
rivolto all’osservazione delle differenze nel molteplice, in parte identico; il secondo all’identità del
molteplice, in parte differente. – Il pregevole talento di entrambi sta nell’osservare anche le più
piccole somiglianze o dissimiglianze. La facoltà di farlo è l’acutezza [Scharfsinnigkeit] (acumen), e le
osservazioni di questa sorta si chiamano sottigliezze [Subtilitäten]. Esse però, quando non ampliano la
conoscenza, si chiamano cavillosità [Spitzfindigkeiten] o vane sofisticherie [Vernünfteleien] (vanae
argutationes) e si rendono colpevoli di un impiego inutile, anche se non falso, dell’intelletto in
generale. – Dunque l’acutezza non è legata soltanto al Giudizio, ma anche all’ingegno; sennonché, nel
primo caso, essa viene considerata come degna di stima più per la precisione (cognitio exacta), nel
secondo più per la ricchezza della buona mente, onde l’ingegno viene anche detto fiorente. E come la
natura nei suoi fiori sembra condurre più un gioco, mentre nei suoi frutti sembra svolgere
un’occupazione, così il talento impiegato nell’ingegno è giudicato di rango inferiore (secondo gli
scopi della ragione) di quello pertinente al Giudizio” 20.
19
KU 331 (it. 193).
ApH, § 44, 201 (it. 88). Per ulteriori approfondimenti, cfr.: O. Meo, La malattia mentale nel pensiero di
Kant, Tilgher, Genova 1982, pp. 45-50 e 88-97; R. Brandt, Kritischer Kommentar zu Kants Anthropologie in
pragmatischer Hinsicht, Meiner, Hamburg 1997 (disponibile anche in versione elettronica al sito Internet www.unimarburg.de/kant/webseitn/kommentar/text.html). Un primo abbozzo della più matura teoria si trova nel Versuch über
die Krankheiten des Kopfes del 1764, ove al Witz – in quanto facoltà di produrre sequenze logiche in abbondanza – è
attribuita la responsabilità di almeno una delle forme di alienazione mentale.
20
16
Il Witz, l’ingegno acuto ed arguto, si qualifica in sostanza per una certa qual forma di libera
creazione, di tendenza al gioco, a quello stesso gioco che caratterizza il comportamento generale
dell’individuo immerso in un’atmosfera estetica21. Ma questo gioco si traduce essenzialmente
nell’istituzione di analogie, o – come Kant stesso afferma – nell’individuazione delle parziali
identità che cose diverse possono presentare, nel cogliere in sostanza il simile nel dissimile:
“L’ingegno è o comparativo (ingenium comparans) o raziocinante (ingenium argutans). L’ingegno
accoppia [paart] (assimila) rappresentazioni eterogenee, che spesso, in accordo alle leggi
dell’immaginazione (dell’associazione) sono molto lontane l’una dall’altra, ed è una vera e propria
facoltà di assimilazione, che appartiene all’intelletto (in quanto facoltà della conoscenza
dell’universale), nella misura in cui conduce gli oggetti sotto classi. Esso ha poi bisogno del Giudizio,
per poter determinare il particolare sotto l’universale e applicare la facoltà di pensare al conoscere”22.
Ecco dunque una prima caratterizzazione fondamentale della “trovata arguta” (Witzeinfall) o
dell’“arguzia” sic et simpliciter (Witz): essa appare come il naturale prodotto della facoltà di
rapportare l’universale al particolare in modo tale che si colga subito l’universale nel particolare,
come la forma espressiva in cui si traduce la creatività della facoltà cui va attribuita la produzione
delle metafore. Tuttavia, proprio in forza della sua vocazione all’analogia, a cogliere cioè la
possibilità di procedere abduttivamente per generare metafore, la facoltà del Witz finisce per
coincidere con il Giudizio riflettente, conformemente alla definizione kantiana dell’uso logicoteoretico di quest’ultimo:
“Procedendo dal particolare all’universale per trarre dall’esperienza, e perciò non a priori
(empiricamente), giudizi universali, il Giudizio conclude o da molte a tutte le cose di una specie, o da
molte determinazioni e proprietà, in cui cose di una stessa specie concordano, alle rimanenti, in quanto
esse appartengono allo stesso principio. Il primo tipo di inferenza si chiama ‘per induzione’, l’altro
‘secondo l’analogia’”23.
In sostanza, nella conclusione analogica, cui – stante il suo carattere empirico – Kant attribuisce
soltanto il valore di una Präsumtion logica, si procede secondo un principio di somiglianza che
facilmente può condurre, mediante l’identificazione dei predicati, al gioco metaforico o allegorico e
addirittura, come nei sillogismi distorti di individui patologicamente affetti, all’identificazione dei
Come è noto, il nucleo fondamentale dell’accostamento e della distinzione fra Witz e Urteilskraft risale –
tramite la mediazione di Wolff e Baumgarten – al rapporto wit-judgement in Hobbes e, soprattutto, in Locke. Tuttavia,
come si è visto nella nota 1, nel concetto settecentesco di Witz, oltre al significato logico e gnoseologico connesso con
l’inglese wit, confluisce pure – grazie alla mediazione della scuola di Gottsched – l’idea di leggerezza, eleganza
stilistica, gradevolezza denotate dal francese esprit. Per una accurata ricostruzione dal punto di vista filologico della
storia dei concetti di wit e di Witz, cfr.: W. Schmidt-Hidding, Wit and Humour, in Id., Humor und Witz, Hueber,
München 1963 (Bd. I della serie Europäische Schlüsselwörter), pp. 37-160; K.-O. Schütz, Witz und Humor, ibid., pp.
161-244.
21
Cfr. ApH, § 55, 221 (it. 109): “Il fare e disfare dell’ingegno comparativo è più un gioco; ma quello del
Giudizio è più un’occupazione”. Cfr. pure la Refl. n. 819, Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., p. 365: “Spirito [Geist] e
ingegno [Witz] sono ancora distinti. Il primo vivifica, il secondo gioca”.
22
ApH, § 54, 220 (it. 108).
23
Logik, § 84, p. 132 (trad. it., p. 127). E’ bene ricordare che, conformemente alla tradizione, per Kant il
Giudizio in generale è la facoltà di distinguere e di comparare.
17
soggetti: per questo motivo nell’Anthropologie Kant chiama Wahnwitz il disturbo del Giudizio che
fa generare analogie (anche divertenti) in modo incontrollato a chi ne è affetto. Da un punto di vista
formale, infatti,
“l’analogia conclude dalla somiglianza particolare di due cose alla totale, secondo il principio della
specificazione: cose di uno stesso genere, delle quali si conosce molto di concordante, concordano
anche nel rimanente, che noi conosciamo in alcune cose di questo genere, ma non percepiamo nelle
altre”24.
In perfetta coerenza con la confluenza nel concetto di Witz delle tradizioni estetico-retorica e logicoteoretica, il suo divertente e libero variare consiste proprio in questa capacità di scorgere estesi
collegamenti là, dove un sobrio e sano intelletto comune, privo dello slancio dell’immaginazione,
incapace di fulminea e felice intuizione, non è in grado di scorgere proprio nulla25. Tuttavia, almeno
nel caso specifico qui in discussione, tale capacità non si traduce nella produzione di un oggetto
bello da sottoporre a giudizio di gusto; e ciò significa che il Witz è, di per sé solo, insufficiente a
costituire il genio artistico. Vero è che, secondo la definizione del § 46, il genio è un “talento”, una
“disposizione innata dell’animo” o ingenium (ossia proprio il corrispondente latino di Witz); ma tali
e tante sono poi le restrizioni che Kant impone a questo “dono naturale”, da impedire di fatto ogni
possibile confusione fra genio e Witz. In primo luogo, vi è la già menzionata distinzione fra la
bellezza dell’oggetto estetico, che presuppone l’intervento del gusto come disciplina dell’originalità
mediante regole, e la gradevolezza immediata del prodotto del Witz, che assai significativamente è
accostato nel § 54 proprio all’originalità nella produzione. In secondo luogo, vi è l’esemplarità del
prodotto del genio, ossia il suo porsi come modello da seguire, mentre – come meglio si vedrà –
l’effetto della trovata arguta si esaurisce nel momento stesso in cui si scatena il riso. Con il che
viene anche messo implicitamente in rilievo uno dei caratteri in forza dei quali il comico è sempre
stato relegato in un ruolo subordinato nell’ambito della gerarchia delle arti: il suo essere effimero,
contingente, legato alla situazione e incapace di assumere un valore transtemporale.
In realtà, tutte queste cose nel § 54 della III Critica Kant non le dice, e nemmeno –
contrariamente a quanto accade nell’Anthropologie – menziona esplicitamente le proprietà e i modi
di funzionamento del Witz, la funzione logica che esso esplica. E’ tuttavia chiaro che, senza questi
presupposti teoretici inespressi, il meccanismo mentale che consente la produzione delle battute di
spirito non sarebbe affatto comprensibile. Nel particolare contesto in cui le considerazioni
sull’amabile varietà del “gioco di pensieri” si inseriscono, a Kant interessa soltanto l’effetto salutare
che, insieme agli accordi musicali, i Witzeinfälle hanno sulla psiche e sul corpo degli uditori,
24
Ibid., p. 133 (trad. it., p. 127).
La migliore applicazione di questa tesi in sede di estetica del comico è costituita dalla celebre definizione di
Jean Paul: “Il Witz estetico, o Witz in senso stretto, è il prete travestito che sposa ogni coppia, e lo fa con diverse
formule di rito” (Vorschule der Ästhetik, § 44, in Werke, Bd. V, Hanser, München 1963, p. 173). L’opera di Jean Paul
costituisce un momento nodale per la trasformazione del Witz da facoltà o capacità in prodotto arguto.
25
18
conformemente al carattere più antropologico che teoretico-estetico del discorso. Ma, come mostra
il fatto che del Witz si occupa estesamente proprio solo l’Anthropologie, esso ha la sua importanza
più nell’ambito di una pragmatica del comportamento sociale che in una delineazione delle strutture
a priori della mente. Alla fin fine, quel che conta nella III Critica è soltanto l’uso della facoltà
dell’analogia per scopi elevati, ossia nella misura in cui essa non soltanto è fattore imprescindibile
per la creatività del genio, ma presiede anche alla formulazione di giudizi di gusto, e dunque alla
edificazione di una comunità estetica fondata sull’accordo intersoggettivo. Per contro, come Kant
esplicitamente afferma, nel caso della comicità della trovata arguta non abbiamo a che fare con il
bello, ma – come nel caso della musica – soltanto soggettivamente con il gradevole legato al
sentimento e alla sensazione, ossia alla costellazione psicofisica. Il motivo è facilmente
comprensibile: l’allegria da cui il riso scaturisce è un’emozione, e in quanto tale – anche se estesa a
più persone ed eventualmente trasmissibile – costituisce pur sempre una faccenda privata ed
idiosincratica.
E’ indubbio inoltre che, nella comicità dell’arguzia, si ha inizialmente a che fare con
pensieri, giacché il canale verbale consente soltanto l’espressione di concetti; ma questi pensieri
hanno una ricaduta corporea. Dal canto suo, sostiene Kant, l’intelletto, la facoltà di pensare in
generale, resta insoddisfatto dei pensieri esibiti, ossia espressi verbalmente. Proprio a questo punto
scatta il meccanismo che fa scatenare il riso:
“Nello scherzo (che, proprio come la musica, merita di essere ascritto più all’arte gradevole che a
quella bella) il gioco comincia da pensieri, che nel loro complesso, in quanto vogliono esprimersi
sensibilmente, impegnano anche il corpo; e rilassandosi all’improvviso l’intelletto nel corso di questa
esibizione, in cui non trova ciò che si aspettava, si avverte nel corpo l’effetto di questo rilassamento
mediante l’oscillazione degli organi, che promuove il ristabilimento del loro equilibrio ed ha un
benefico influsso sulla salute”26.
In sostanza, integrando il processo di pensiero di Kant con quanto fin qui detto intorno alla funzione
del Witz, sembra possibile giungere alla seguente ricostruzione: nell’espressione arguta il Witz, la
facoltà di produrre estese relazioni fra i concetti, viene per così dire messo in libertà, in modo tale
che la facoltà dei concetti, cioè l’intelletto, si vede sottrarre la propria giurisdizione a tutto
vantaggio di un meno rigoroso, ma psicologicamente e fisiologicamente benefico, analogizzare. Se
questa ipotesi è corretta, il punto nodale della questione è dunque costituito dalla funzione esercitata
dalle singole facoltà nel corso del processo mentale. Poiché è messo fuori causa nel suo procedere
per concetti, ossia sulla base di funzioni ordinatrici in vista della possibilità di un’esperienza
coerente e valida, l’intelletto in qualche modo sospende la propria attività, con una subitaneità che
si ripercuote sulla costellazione psicofisica globale. Questo venir meno alle proprie prerogative
costituisce una sorta di sospensione del “giudizio di realtà”, giacché l’intelletto si trova ad aver a
26
KU 332 (it. 194).
19
che fare con concetti dei quali non può servirsi per i propri fini precipui; e questa abdicazione si
traduce non nella messa in libertà del Giudizio riflettente, e dunque in un atteggiamento estetico
puro, ma in un rilassamento complessivo della mente e del corpo, in una distensione favorevole alla
salute che genera godimento.
3- Il nichilismo del comico.
Fin qui gli aspetti più propriamente antropologici del discorso kantiano. Resta ancora da
spiegare quale sia il meccanismo logico sotteso alla buona riuscita della trovata arguta, sia
quest’ultima volontaria o involontaria. In cosa consiste, in sostanza, la delusione che l’intelletto
prova? A cosa mette capo il gioco dei concetti? Seguiamo innanzitutto da vicino il testo kantiano:
“In tutto ciò che ha il compito di suscitare un vivace scoppio di risa deve esserci qualcosa di assurdo
[Widersinniges] (in cui dunque l’intelletto in sé non può trovare alcun piacere). Il riso è un affetto che
muove dall’improvvisa trasformazione di un’aspettazione tesa in nulla. Proprio questa
trasformazione, che certamente non è allietante per l’intelletto, tuttavia al momento allieta
indirettamente in modo vivace. Dunque la causa non può non consistere nell’influsso della
rappresentazione sul corpo e nella reazione del corpo sull’animo; e non certo in quanto la
rappresentazione è oggettivamente un oggetto del diletto (come può infatti dilettare un’attesa delusa?),
ma unicamente perché essa, in quanto semplice gioco delle rappresentazioni, produce nel corpo un
equilibrio delle forze vitali”27.
Questo passo, sicuramente il più importante dell’intero § 54, ruota intorno a tre concetti
fondamentali: l’assurdo (o il controsenso), l’attesa frustrata e il nulla. Innanzitutto, è bene
ricordare che in logica il termine “assurdo” significa propriamente “impossibile” perché
contraddittorio28 e che soltanto in un’accezione generica e non rigorosamente tecnica esso assume il
significato di “incredibile” o “irragionevole”. Che Kant abbia in mente l’accezione logica e non
quella generale, lo mostra l’inciso perentorio in cui si evidenziano le conseguenze estetiche della
presenza dell’assurdità: nel momento in cui gli si palesa l’impossibilità della cosa asserita,
l’intelletto non può di per sé provare piacere. Con il che Kant evidenzia il correlato psicologico
dell’abituale affermazione secondo cui la contraddizione ripugna all’intelletto (o alla facoltà
conoscitiva in generale). La strategia complessiva di Kant si rivela comunque quando, mescolando
ancora una volta psicologia, fisiologia e logica, egli enuncia la definizione di “riso”. Per quanto
concerne l’aspetto psicofisiologico, viene qui istituito un legame fra frustrazione dell’attesa e
27
Ibid. 332-333 (it. 194-195).
Il pensiero è esplicito già nell’Anthropologie Collins, in cui sono raccolte le lezioni del semestre invernale
1772/73: “In tutto ciò che è ridicolo si trova una certa contraddizione” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XXV, cit., p. 141). O,
più chiaramente ancora: “Si è visto che nel riso ci deve essere una contraddizione e la si è chiamata “assurdità”
[Ungereimtheit] quando essa viene all’improvviso e causa una risata” (ibid., p. 143).
Numerose sono le fonti cui Kant può aver attinto questo, che era destinato a diventare un vero e proprio luogo
comune della trattatistica sul comico. Cfr. per es. C. Wolff, Psychologia empirica, § 743: “risus nascitur ex iis, quae
nostra opinione absurda sunt”. All’incirca allo stesso periodo delle lezioni di antropologia di Kant risale la
pubblicazione della Allgemeine Theorie der schönen Künste di Sulzer, in cui l’art. Lächerlich (“Ridicolo”) comincia
28
20
esplosione del riso, ossia vengono messe in connessione la scarica emotiva (il riso è un Affekt,
un’emozione) e la risoluzione della tensione29.
Il meccanismo psicologico risulta assai affine a quello che più tardi sarebbe stato individuato
da Freud, la cui interpretazione “economica” del fenomeno culmina nell’affermazione che il riso è
la “libera scarica” di un ammontare di “energia psichica impiegata in investimenti non
percorribili”30. In altri termini, anche Freud concepisce la manifestazione emotiva come risposta
dell’organismo ad un calo di tensione psichica. La differenza sta nel fatto che, mentre per Freud la
tensione è fin dall’inizio psicoaffettiva, per Kant essa è innanzitutto di carattere intellettuale e si ha
soltanto in un secondo momento un esito psicofisico. Il problema è capire quale sia la causa della
tensione, che cosa si aspetti in realtà il soggetto. A questa domanda Kant non risponde
esplicitamente31. Sennonché quanto si è in precedenza stabilito intorno all’autosospensione
dell’intelletto dal suo ruolo di garante dell’unità dell’esperienza dovrebbe contribuire a risolvere la
difficoltà. Certamente, il soggetto non può attendersi che l’esperienza continui a svolgersi entro i
binari consueti e consolidati, perché altrimenti non vi sarebbe investimento psichico e conseguente
tensione psicologica: l’attesa che la conversazione in società prosegua in modo lineare, senza
scosse, ossia l’attesa che saranno rispettate le convenzioni, è un atteggiamento non solo
esteticamente, ma anche intellettualmente improduttivo. E nemmeno il soggetto può ipotizzare una
sorpresa totalmente estranea al tema, a ciò su cui verte in quello specifico contesto situazionale
l’attenzione dell’uditorio. Da questo punto di vista, si può dire che la sorpresa estetica non giunge
mai del tutto inattesa. E’ tipico dell’atteggiamento psicologico del fruitore nei confronti dell’oggetto
estetico aspettarsi che esso gli comunichi qualcosa di nuovo; è tipica, in sostanza, l’attesa della
sorpresa (attesa della frustrazione dell’attesa). E’ proprio questa peculiare dialettica, che sfocia nel
paradosso, a non affacciarsi – almeno in questo contesto – all’orizzonte del pensiero di Kant: il fatto
con le seguenti parole: “Le cose su cui ridiamo hanno sempre secondo il nostro giudizio qualcosa di assurdo
[Ungereimtes] o di impossibile” (op. cit., Bd. III, p. 132).
29
Che si tratti di un pensiero ben radicato in Kant lo mostra anche in questo caso l’Anthropologie Collins:
“Tutte le trovate argute hanno questa caratteristica, che ci si trova ingannati [betrogen] nell’attesa” (op. cit., pp. 140141). Sarei propenso a non attribuire un valore negativo all’“inganno” di cui Kant parla: non mi pare che qui esso
assuma il significato tecnico, che altrove è ad esso conferito, di “macchinazione fraudolenta”.
30
Cfr. S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten, in Gesammelte Werke, Bd. 6, Imago Publ.
Co., London 1940, pp. 164-166 (trad. it. in Opere, vol. 5, Boringhieri, Torino 1980, pp. 131-132). Come già aveva fatto
Theodor Lipps (cfr. Komik und Humor. Eine psychologisch-ästhetische Untersuchung, Voss, Hamburg-Leipzig 1898, p.
40), Freud cita fra le proprie fonti la teoria psicofisiologica di Herbert Spencer, ma sono evidenti le connessioni fra la
tesi secondo cui la tensione accumulata trova uno sbarramento e pertanto si sfoga nella scarica emotiva e l’idea kantiana
secondo cui il riso si genera da una tensione che non trova rispondenza nell’oggetto. Significativamente, nello stesso
contesto in cui si richiama a Spencer, Lipps menziona Kant e Jean Paul.
Un ulteriore sviluppo della tesi freudiana è reperibile in E. Kris, Psychoanalytic Explorations in Art, trad. it.,
Einaudi, Torino 1988, pp. 202, 212 e 226 in particolare: il riso (con il sorriso) è una forma di “liberazione dalla
tensione” mediante scarico di quantità di energia grandi o piccole da parte dell’Io; tale scarica energetica è provocata da
una brusca diminuzione della tensione.
21
cioè che la frustrazione dell’attesa coincida in realtà con la sorpresa e non con il nulla con cui egli
la identifica. Se si guardano le cose da questo punto di vista, si può addirittura asserire che proprio
nella frustrazione dell’attesa consiste la soddisfazione dell’attesa32. Può addirittura accadere, come
nel moderno teatro detto dell’“assurdo”, che, in forza del dissolversi delle aspettative nel nulla, la
sorpresa consista proprio nella mancanza della sorpresa. In questo particolare caso, però, l’esito
nichilistico non è pertinente al comico, bensì al grottesco ed è tale da produrre straniamento. Da un
punto di vista ontologico, anche qui si ha una sorta di “vuoto”, una sospensione della relazione fra
un soggetto che nutre aspettative e un oggetto emozionale; essa è però assai diversa da quella
postulata da Kant con la sua tesi della messa in libertà del Witz e della delusione cognitiva provata
dall’intelletto, giacché l’obiettivo dell’autore è quello di mettere allo scoperto l’irrazionalità del
mondo in generale, e non semplicemente quello di creare una parentesi di relax.
Una soluzione possibile al problema posto dal passo kantiano è dunque che il soggetto si
attenda precisamente quella sorpresa che è lecito attendersi in un contesto finalizzato
all’intrattenimento sociale. In altri termini, nel corso di un'allegra riunione in cui fioriscano le
battute di spirito e vi sia una disposizione comunitaria ad accogliere lo scherzo o il racconto
umoristico, i partecipanti si aspettano proprio che l’ospite dotato di spirito li stupisca con la propria
arguzia, che la sua trovata vada in senso diverso rispetto alle aspettative suscitate 33. Tuttavia non è
questa la soluzione accolta da Kant. Per lui si ha una decisa declinazione dell’arguzia verso il
nichilismo34. Il fatto è che Kant non tiene affatto conto degli aspetti psicologici del fenomeno della
L’obiezione era già stata formulata nel 1837 da F.T. Vischer nel suo saggio sul sublime e sul comico: cfr.
Über das Erhabene und Komische und andere Texte zur Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1967, p. 160 (trad. it.,
Aesthetica, Palermo 2000, p. 121).
32
Sul paradosso della relazione atteso-inatteso si sofferma a proposito del motto di spirito anche W.
Preisendanz, Über den Witz, Universitätsverlag, Konstanz 1970, pp 27-28. Diversamente da quanto prospettato nel
presente lavoro, Preisendanz ritiene però comprensibile proprio sulla base del paradosso la tesi di Kant secondo cui
l’attesa si risolve in nulla. Da un punto di vista estetico generale, sulla peculiare dialettica per cui la soddisfazione
dell’attesa si ha quando l’attesa è frustrata si era soffermato acutamente G. Lukács, Ästhetik, trad. it., Einaudi, Torino
1970, p. 645. In particolare: “Se essa (sc.: la delusione dell’attesa) non può non essere sentita altrimenti che come pura,
cruda sorpresa, se non evoca – a posteriori –, nonostante la sua eventuale subitaneità, il senso di averla tuttavia in
qualche modo attesa, la continuità della ‘guida’ in qualche modo si è rotta, l’unità dell’opera è turbata. E, d’altro lato, la
soddisfazione dell’attesa suscitata non è mai, a sua volta, la semplice realizzazione di ciò che ci si aspettava, ma nelle
opere d’arte autentiche contiene sempre un momento di sorpresa, va sempre al di là delle attese”.
33
Sul rapporto fra attesa e sorpresa nell’arguzia scriveva nel 1889 K. Fischer: “La verità nascosta non viene
concettualizzata o sviluppata, ma rischiarata giocosamente; essa si fa innanzi ed è qui in un baleno, il suo contrasto ci
coglie di sorpresa e ci appare come l’esatto contrario di ciò che ci saremmo aspettati, creando così quella tensione
propria dell’attesa che viene sciolta dal contrario inaspettato” (Über den Witz, trad. it., Gallio, Ferrara 1991, p. 121).
Entra qui in gioco un meccanismo che comparirà soltanto successivamente nel testo kantiano: quello del contrasto.
Sennonché Fischer interpreta, in termini non troppo dissimili da Kant, l’esito comico come prodotto del contrasto fra
l’attesa del rispetto della regolarità esperienziale e la sua violazione. Il modo di procedere di Fischer appare però assai
confuso, giacché egli fonde insieme due prospettive incompossibili. Delle due l’una: o il contrario genera la tensione
oppure la scioglie.
34
Rivelando la propria dipendenza dalle teorie romantiche, Lipps (op. cit., pp. 40 e 50-51) ridimensiona
notevolmente la carica ontologica del testo kantiano: anche il comico di Kant sarebbe fondato sul contrasto fra grande e
piccolo e il nulla di cui egli parla sarebbe da interpretare pertanto come “relativo” e non come assoluto. Ciò, perché –
come rivela ampiamente il seguito della discussione (ibid., pp. 140-142) – Lipps non riesce a rinunciare
31
22
frustrazione dell’attesa, e dunque dell’indissolubilità del nesso attesa-sorpresa, ma mira
esclusivamente a mettere in luce l’aspetto logico-teoretico: quello in cui si risolve la tensione è un
nulla cognitivo e ontologico. Ora, da questo punto di vista (per quanto incomprensibile esso possa
apparire oggi), necessariamente il risultato sarà un annichilamento assoluto dell’attesa e non uno
stato psicologico positivo come la sorpresa: il nulla è infatti il deserto di essere. Come sarà chiaro
subito dopo nel testo e conformemente ad una convinzione ben radicata nel pensiero di Kant, la
nullità in cui si risolve l’attesa è intesa non come il negativo che è il contrario positivo di un
positivo (come – A si oppone ad A), ma come indifferente assenza (= 0).
Vi è ad onor del vero un luogo kantiano in cui emerge in evidenza il tema della sorpresa. Si
tratta del § 55 dell’Anthropologie, nel quale – dopo aver contrapposto la serietà del Giudizio alla
giocosità del Witz – Kant afferma:
“Spirito umoristico [launichter Witz] si chiama colui che inclina al paradosso per una disposizione
mentale; in lui – sotto il tono amabile della semplicità – balena lo smaliziato furbacchione, che vuole
prendere in giro qualcuno (o anche la sua opinione), mentre il contrario di ciò che è degno di
approvazione è innalzato con lodi apparenti (persiflage): per es. in L’arte di immergersi nella poesia
di Swift o nello Hudibras di Butler. Un tale spirito, che mediante il contrasto rende ancora più
spregevole ciò che è spregevole, è molto eccitante grazie alla sorpresa dell’inatteso; ma è pur sempre
soltanto un gioco e uno spirito leggero (come quello di Voltaire). Per contro, colui che presenta
rivestiti principi veri ed importanti (come Young nelle sue satire) può essere chiamato uno spirito
grave, poiché si tratta di un’occupazione e suscita più ammirazione che divertimento” 35.
Sennonché, in questo peculiare caso, la sorpresa non sopraggiunge in un contesto totalmente ludico
come quello ipotizzato nella III Critica, ma – come mostra la serie dei riferimenti letterari – in
un’atmosfera esteticamente più raffinata, e comunque grazie alla rilevazione del paradosso insito
nella satira, che è l’unico genere da cui Kant trae i suoi esempi; paradosso consistente
nell’approvazione di ciò che è eticamente riprovevole. Sebbene Kant si premuri di chiarire subito
dopo che si tratta pur sempre di un gioco, è dunque la presenza dell’elemento etico ad impedire che
la frustrazione dell’attesa coincida con il nulla.
Quali sono le ragioni della radicale presa di posizione ontologica della III Critica nei
confronti dello scherzo? Per comprenderle, può risultare utile chiamare in aiuto un passaggio, tanto
celebre quanto oscuro, situato in analoga posizione marginale in un’altra delle opere fondamentali
di Kant: il tentativo di definizione e di esplicazione del problema del nulla collocato alla fine
all’indissolubilità del nesso attesa-sorpresa: il nulla è relativo, perché, quanto maggiore è l’attesa, tanto più si avverte
l’inadeguatezza dell’evento realmente verificatosi rispetto ad essa; in sostanza, tanto più ci si sorprende. Nel Novecento
la tesi secondo cui il nulla del comico è relativo al valore positivo cui si contrappone è stata ripresa, con riferimento alla
concezione del ridicolo di Platone e di Aristotele, da J. Ritter, Über das Lachen, in “Blätter für deutsche Philosophie”,
1940/41, p. 16.
Riduttiva è anche l’interpretazione di Bergson, il quale – ignorando totalmente il risvolto logico della tesi di
Kant – sostiene che l’attesa risolventesi in nulla equivarrebbe a produrre uno sforzo grande, ma inutile (cfr. Le rire, in
Oeuvres, PUF, Paris 1959, p. 427 (trad. it., Laterza, Roma-Bari 1996, p. 56).
35
ApH 221-222 (it. 110). Non sfugga la (sia pur mite) critica alla leggerezza di Voltaire, che si inserisce
nell’ormai lunga tradizione tedesca di prese di posizione polemiche contro l’esprit francese.
23
dell’Appendice all’Analitica trasc. della I Critica. Anche in questo caso, a porsi problematicamente
in evidenza è l’origine del concetto di “impossibile”, che – insieme a quello di “possibile” – deriva
per divisione dal concetto di “oggetto in generale”. Grazie al sistema delle categorie, sostiene Kant,
si è in grado di stabilire nell’ambito della filosofia trascendentale se un oggetto sia qualcosa oppure
nulla. Si intenda: poiché ad essere qui in discussione è il problema trascendentale della possibilità
dell’esperienza in generale, non può risultare strano che nella quadruplice “tavola del nulla”
derivante dall’applicazione della tavola delle categorie Kant affianchi a concetti di oggetti che,
secondo la scolastica leibniziana, sono possibili concetti di oggetti già in precedenza considerati
impossibili. Così, “nulla” è il noumeno, in quanto non è oggetto di un’esperienza possibile; esso è
pertanto un “concetto vuoto senza oggetto” (un ens rationis). A rigore, però, esso non può neppure
essere considerato come un “impossibile” (e dunque come assurdo), giacché non è contraddittorio:
semplicemente, noi non ne sappiamo né potremo mai saperne nulla. In secondo luogo, “nulla” è la
negazione intesa come mancanza (privatio) o “oggetto vuoto di un concetto” (nihil privativum):
l’ombra e il freddo sarebbero concetti di questo genere36. In terzo luogo, vi sono “enti” (entia
imaginaria) che – pur essendo realissimi (e dunque non impossibili) – non sono oggetti, ma
costituiscono la condizione a priori della conoscenza degli oggetti: si tratta dello spazio e del
tempo, le forme a priori dell’intuizione, il cui essere “nulla” indica semplicemente l’assenza di
sostanzialità (contro Newton) e di realtà oggettiva (contro Leibniz). Infine viene l’“oggetto vuoto
senza concetto”, ossia l’impossibile come autocontraddittorio, che Kant riconduce alla classe
categoriale della modalità e che riguarda più da vicino il § 54 della III Critica, giacché si tratta
proprio di quell’assurdo che ripugna alla ragione e in cui l’attesa si nientifica:
“L’oggetto di un concetto che contraddice se stesso è nulla, poiché il concetto è nulla, l’impossibile,
come per es. la figura rettilinea di due lati (nihil negativum)”37.
Da ciò risulta legittimo considerare il nulla della trovata arguta, sebbene esso –
contrariamente al nihil negativum – sia una mera assenza di essere, come il correlato psicologico del
concetto di un oggetto autocontraddittorio. L’“assurdo” che è causa del riso è dunque un nulla di
senso, il quale però – anziché generare ripugnanza – è fonte di divertimento e di rilassamento. Si
assiste dunque ad una strana inversione dialettica: ciò che sembrava segnato dal tarlo del negativo si
trasforma in qualcosa di positivo. In termini ontologici: dal nulla si semantizza l’essere, che dà
luogo ad un salutare stato psicofisico. Il problema può essere affrontato anche da altra angolatura.
36
Sulla difficoltà di conciliare la tesi secondo cui una grandezza negativa come il freddo è una privatio con la
già menzionata concezione del negativo come contrario positivo di un positivo cfr., nella presente raccolta, la nota 33
del saggio Il colore: quasi una teoria. Nella delineazione kantiana del nihil privativum risuona comunque la definizione
tradizionale (wolffiana) di privatio come assenza di qualcosa la cui presenza non implica contraddizione.
37
KrV B 232 (it. 281). In questo stesso senso il nihil negativum è già definito da Kant nel Versuch den Begriff
der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen del 1763.
24
In virtù del capovolgimento dialettico, si ribalta in nonsenso ciò che dovrebbe risultare dotato di
senso, ma in modo tale che da questa negazione emerga un altro senso. Ora, se, ragionando in
termini di polarità, consideriamo il senso come il positivo e il nonsenso come il negativo, il loro
incontro provoca un collasso ontologico, il cui risultato è un’assenza assoluta. In questo modo si
può giustificare la concezione del nulla dell’arguzia come mancanza.
Un'altra caratteristica degna di attenzione è che il meccanismo della trovata arguta testé
descritto interessa il piano logico, ontologico e psicologico38, ma non quello etico. Non vi è infatti
in Kant alcun riferimento ad un mondo di valori che, potenzialmente o effettivamente, sia messo in
crisi dalla trovata arguta o che – addirittura – sia ridotto a nulla. Coerentemente – almeno in questo
caso – con l’assunto secondo cui l’estetico è rigorosamente separato dal teoretico e dal pratico,
manca in sostanza in Kant l’idea secondo cui dal comico scaturisce un nulla assiologico. Egli è
pertanto assai lontano dalle interpretazioni successive del meccanismo della comicità, dallo humour
e dall’ironia dei romantici fino all’uso contemporaneo del comico in funzione critica nei confronti
dei valori tradizionali o comunque condivisi da larghi strati sociali39. E’ altresì assente nella III
Critica l’idea che l’annullamento dei valori proceda nel comico di pari passo con l’affermazione di
ciò che nella vita quotidiana è considerato come nulla, ossia l’idea che si possa verificare in esso un
rovesciamento assiologico40. Vi è espressa semmai, alla fine del § 54, l’idea che l’oggetto della
38
In indiretto riferimento a Kant, H. Plessner (Lachen und Weinen. Eine Untersuchung nach den Grenzen
menschlichen Verhaltens, Francke, Bern-München 1961, p. 130) considera invece come esclusivamente logico il nulla
in cui si risolve la tensione. Tuttavia lo stesso Plessner mostra di interpretare psicologicamente il fenomeno allorché
poco dopo sostiene che, per chiarire la formulazione kantiana, può essere utile ricorrere a quei casi in cui una risata
liberatoria segue ad un forte spavento che si scopre immotivato (p. 138).
39
Cfr. su questo punto quanto scrive, con accenti critici nei confronti della società borghese, O. Marquard in
Exile der Heiterkeit, in AA.VV., Das Komische, hrsg. v. W. Preisendanz u. R. Warning, Fink, München 1976 [Poetik
und Hermeneutik VII], p. 136: “… l’arte fa valere ciò che nella realtà della serietà ufficiale non vale nulla ed è nullo, al
tempo stesso negando nella sua totale validità ciò che in questa realtà è ufficialmente tutto e rivendica una validità
totale”. Una tesi non dissimile, ma priva di intenti ideologici, è reperibile pure in H. Plessner (op. cit., p. 150), secondo
il quale ridendo l’essere umano liquida una situazione, ossia la dichiara non verbalmente priva di valore. A prescindere
dalla presa di posizione radicalmente diversa intorno alla questione dei valori, l’idea di fondo è formulata con estrema
chiarezza da Jean Paul: “Lo humour [Humor], in quanto sublime capovolto [das umgekehrte Erhabene], non annienta
solo il singolo, ma il finito in forza del contrasto con l’idea. Non c’è per esso alcuna singola stoltezza [Torheit], alcuno
stolto, ma solo la stoltezza ed un mondo folle. Diversamente dalla comune celia con le sue frecciate, esso non fa
risaltare alcuna singola sciocchezza, bensì abbassa il grande (ma diversamente dalla parodia) per porgli accanto il
piccolo, ed innalza il piccolo (ma diversamente dall’ironia) per porgli accanto il grande, allo scopo di annientarli in tal
modo entrambi, poiché innanzi all’infinitezza tutto è uguale ed è nulla” (op. cit., § 32, p. 125). Se ne confronti la ripresa
in un passo di F.T. Vischer sicuramente memore, oltre che del concetto romantico di “ironia”, anche della dialettica di
Hegel: “Nel comico il sublime è, e di nuovo non è, il vero, poiché viene sospeso dall’inferiore; l’inferiore è, e di nuovo
non è, il vero, perché esso è nel sublime. Così è vero l’uno e l’altro, ciò che è importante non è importante e ciò che non
è importante è importante, il dio del nonsenso prende possesso del mondo, tutte le determinazioni si confondono, tutto è
indifferente; e anche che tutto è indifferente non è di nuovo vero, e anche questo è di nuovo nulla, e sopra la
dissoluzione di tutto ciò che è fermo e stabile si erge soltanto il gaio soggetto, che – ridendo – si mette le mani sui
fianchi e guarda giù verso il mondo rovesciato [verkehrte Welt] nella pazza inquietudine e nella danza della
contraddizione” (op. cit., p. 177; trad. it., pp. 133-134).
40
Altrove – con esplicito riferimento al genere comico (contrapposto all’ironia) – Kant rileva con tono di
disapprovazione questo rovesciamento dei valori, in modo tale da far risaltare la paradossalità della situazione:
“Secondo un certo spirito nel modo di scrivere, si ritrae ciò che è degno di disprezzo come sublime in modo ridicolo, il
malvagio come nobile e amabile in modo altamente beffardo, la pigrizia come ridicolmente meritoria. Per contro, [si
25
pointe comica, o meglio – come dice Kant – dell’uscita “umoristica” (launicht), è privo di valore41;
e ciò costituisce – inter alia – una chiara testimonianza del carattere “gradevole” del comico,
giacché l’oggetto delle arti belle “deve sempre mostrare in sé una certa dignità e perciò esige una
certa serietà nella rappresentazione”, come per altro esige il gusto.
Qualora si pensi al contesto psicologico e socio-culturale in cui l’arguzia ha buona speranza
di riuscita, l’esclusione dei valori dall’ambito dei suoi oggetti non può in realtà stupire. Sebbene i
partecipanti alla riunione non siano infatti immersi nel mondo dell’azione, impegnati nell’affrontare
seri problemi aventi implicanze etico-esistenziali, anche nella situazione in cui si trovano il dileggio
dei valori costituirebbe una violazione dell’imperativo categorico. Poiché essi sono certamente
consapevoli di prendere parte ad un gioco, sono intenti a trascorrere insieme il loro tempo libero il
più allegramente possibile e a trarne il maggior beneficio psicofisico possibile, da una simile
comunità quasi estetica non ci si deve aspettare una riflessione sulla serietà della vita: quest’ultima
è – per una forma di tacita stipulazione – messa in parentesi in prò di una pausa di sereno
godimento. Ciò non significa che manchi il riferimento alla sfera assiologica. Anzi, accade proprio
il contrario: il diritto di sospendere il valore non coincide con la licenza di prendersene gioco. E ciò
proprio in nome dell’assolutezza della legge morale. Una chiara prova del fatto che il riferimento
alla sfera dei valori è conservato lo fornisce per altro il terzo degli esempi di arguzia forniti da Kant.
4- Il comico e l’illusione estetica.
Per illustrare la tesi generale, ossia la declinazione nichilistica del comico, Kant adduce
come esempio di Witz riuscito, tre brevi racconti. In realtà, però, vi è un palese difetto di coerenza,
giacché i primi due si differenziano dal terzo non solo per il loro carattere aneddotico, ma
soprattutto perché costituiscono piuttosto casi di umorismo involontario o ingenuo, mentre soltanto
l’ultimo, che sembrerebbe riportare un’esperienza vissuta da Kant in prima persona, può essere
considerato come una vera e propria trovata arguta. Loro caratteristica comune è comunque il
descrive] l’infelicità in modo derisorio e critico, [anziché?] imprimere il dolore nel cuore del lettore, [si descrive] la
virtù più sublime come stoltezza e [si colloca] il piccolo sopra il grande” (Refl. n. 664, Kant’s ges. Schriften, Bd. XV,
cit., p. 295. Le interpolazioni sono mie).
41
Kant distingue fra launisch, che indica chi involontariamente cambia umore e corrisponde al nostro
“umorale”, e launicht, che indica chi volontariamente e con l’intenzione di procurare divertimento si pone “in una certa
disposizione d’animo in cui tutte le cose vengono giudicate in modo del tutto diverso dal solito (perfino al contrario) e
tuttavia conformemente a certi principi razionali che si trovano in una tale disposizione d’animo” (KU 336; it. 198).
Tracce del problema si trovano anche nelle Vorlesungen, già a partire dall’Anthropologie Collins (op. cit., p. 139). La
stessa distinzione concettuale di KU è prospettata nella Menschenkunde, ove però i termini sono launisch e launig
(ibid., pp. 1083-1084). Con la sua soluzione dicotomica, Kant suggerisce che il termine Laune con i suoi derivati è
perfettamente adatto ad esprimere le sfumature semantiche del francese humeur e dell’inglese humour. In questo modo
egli prende decisa posizione nel dibattito sul concetto di humour che percorse tutto il Settecento europeo. In Germania il
dibattito si sviluppò a partire da Gottsched, attraverso Hagedorn, Lessing, Sulzer, Riedel, Herder, Möser, fino ad
arrivare a Eberhard, che – nonostante la sua nota avversione per la filosofia di Kant – adottò la sua stessa soluzione
terminologica e concettuale. Su tutto ciò cfr. K.-O. Schütz, op. cit., pp. 174 sgg.
26
fondarsi sul contrasto. E proprio la diversa modalità di contrasto consente la loro precisa
collocazione nell’ambito del sistema kantiano: ciascuno dei tre esempi può agevolmente essere
riportato ad una delle tre prime classi di categorie. In tal modo, essi rappresentano un’ulteriore
manifestazione di quell’applicabilità della tavola delle categorie a tutti i domini regionali, e dunque
di generalizzata classificabilità degli eventi, di cui Kant andava particolarmente fiero e che non
perdeva occasione di sottolineare.
Il primo esempio di racconto umoristico ha per oggetto un indiano che – vedendo uscire la
schiuma da una bottiglia di birra – si meraviglia di come sia stato possibile farvela entrare. La classe
categoriale interessata è in questo caso quella della qualità42: il contrasto è fra dentro e fuori e
concerne il grado di coercibilità di una sostanza gassosa. Il secondo aneddoto narra di un erede che
vuole tributare esequie solenni al suo defunto benefattore; sennonché, quanto più denaro offre a
coloro che devono manifestare il proprio lutto, tanta più contentezza suscita in loro. La classe è in
questo caso quella della quantità: il contrasto è fra più e meno e mostra come si possa ottenere lo
scopo contrario a quello desiderato. Il terzo esempio, sicuramente quello più congruo dal punto di
vista del concetto di “trovata arguta”, presenta qualche complicazione dal punto di vista
concettuale. La storiella nasce infatti come risposta di un burlone ad un racconto menzognero, e
dunque tale da suscitare dispiacere sotto il triplice profilo teoretico, etico ed estetico: teoretico,
giacché – in buona dialettica kantiana dei contrari – il falso è un positivo che – contrapponendosi al
positivo atteso e frustrato – ripugna all’intelletto; etico, giacché la menzogna costituisce per la sua
assoluta spregevolezza il caso prototipico di violazione dell’imperativo categorico; estetico, giacché
la conclamata falsità e menzogna del racconto contraddicono il criterio della verisimiglianza,
implicitamente ammesso come canonico. Ma ecco l’essenziale della sequenza narrativa. Se si
racconta che a qualcuno, per un grande dolore, i capelli sono diventati improvvisamente bianchi,
non proviamo alcun piacere; anzi, siamo dispiaciuti per la palese falsità (Unwahrheit) della storia43.
Se, per tutta risposta a questa menzogna, un “burlone” racconta di un mercante che perde tutto il
suo avere e per il dolore la parrucca gli diventa grigia, godiamo e proviamo diletto. Ciò perché,
secondo Kant, trattiamo l’idea che stiamo seguendo come una palla: la gettiamo di qua e di là,
intenti solo a riacchiapparla44. Il significato della similitudine è che ci è impossibile mantenere la
concatenazione dei pensieri nel suo corretto svolgimento perché il Witz ha la meglio sull’intelletto.
Si osservi che in questi esempi la successione delle categorie è la stessa stabilita nell’Analitica del bello e si
differenzia pertanto da quella della I Critica. L’aneddoto in questione compare già nell’Anthropologie Collins, cit., pp.
144-145.
43
Mette conto osservare che qui falso assume lo stesso significato di “assurdo” nel senso non tecnico del
termine, ossia nel senso di “incredibile”.
44
L’esatta interpretazione filologica di questo passo piuttosto tormentato è ininfluente per gli scopi che qui mi
propongo. Il motivo di fondo è già reperibile nell’Anthropologie Collins, cit., p. 145: “Si suscita il riso quando l’animo
rimbalza come una palla”. Cfr. pure la contemporanea Anthropologie Parow, ibid., p. 347.
42
27
Il meccanismo ci è ormai noto: il burlone non ha fatto altro che scomporre i concetti e ricomporli in
modo innovativo, attuando un’attribuzione predicativa illecita. E’ come se si svolgesse innanzi alla
nostra mente una danza dei predicati, che obbliga alla sospensione del giudizio teoretico, che
conduce cioè al conseguimento dello stato ottimale per il conseguimento del diletto. E’ ovvio che in
questo specifico caso, l’assurdo in questione non è più l’irritante falso, ma l’impossibile nel senso
logico e ontologico. Per una piena riuscita dell’effetto comico, si deve poi ipotizzare che la storiella
arguta segua immediatamente il racconto menzognero, sicché dal loro contrasto emerga
chiaramente la finezza logica del burlone e si consegua il risultato eticamente positivo di
svergognare il bugiardo: il castigat ridendo mores si realizza sul piano individuale, anziché
collettivo. Dal punto di vista categoriale, poiché si tratta della connessione soggetto-predicato, la
classe di riferimento è ovviamente quella della relazione. Ma risulta evidente altresì che a giocare
un ruolo fondamentale è nuovamente il principio analogico, in forza del quale si applica a due
sostrati simili la stessa legge di trasformazione e si ottiene una clamoroso chiasmo predicativo. In
qualche modo, proprio in virtù del reperimento del simile nel dissimile, la battuta del burlone
costituisce la caricatura45 o la parodia del racconto soltanto presuntivamente serio del mentitore. Si
conferma così quella che per Kant costituisce la vera essenza del comico: l’essere l’effetto
psicofisico di una causa logica.
Fra gli esempi kantiani non ve ne è nessuno che sia riportabile esclusivamente alla quarta
classe di categorie, quella della modalità. Il motivo è assai semplice: l’assurdo nel senso logico di
impossibile è necessariamente denominatore comune dei motti di spirito, delle trovate argute, delle
barzellette, dei racconti umoristici, ecc.; in tutti questi casi abbiamo a che fare con un’attesa
frustrata che si risolve nel nulla. Ora, l’assurdo si presenta sotto la specie, transitoria e facilmente
riconoscibile come vana, dell’illusione (Schein):
“E’ degno di nota che in tutti questi casi lo scherzo deve sempre contenere in sé qualcosa che per un
momento possa illudere [täuschen]; perciò, quando l’illusione dilegua nel nulla, l’animo guarda di
nuovo indietro per tentare ancora una volta con essa; e così, per un rapido alternarsi di tensione e
distensione, è lanciato avanti e indietro ed è messo in oscillazione. Quest’ultima, poiché ciò che, per
così dire, tendeva la corda viene meno d’improvviso (e non per un rilasciamento graduale), deve
necessariamente causare un moto dell’animo e, in armonia con esso, un moto interno del corpo, che si
prolunga involontariamente e produce affaticamento, ma al tempo stesso anche allegria (gli effetti di
un moto favorevole alla salute)”46.
Viene in tal modo adombrato un altro motivo potenzialmente assai fecondo dal punto di
vista teoretico: quello della sostanziale vanità dello scherzo. Questa nuova modulazione del nulla
45
Sulla caricatura come espediente per catturare l’essenza della personalità del rappresentato mediante il
procedimento dell’analogia cfr. T. Lipps, op. cit., p. 47. Più recentemente, la tesi è ripresa da E. Kris (op. cit., pp. 171,
186 e 194), che fa risalire la concezione analogica della caricatura alla cerchia di Gian Lorenzo Bernini. Sull’identità di
struttura fra la vignetta e la battuta umoristica cfr. W. Preisendanz, op. cit., p. 36, n. 24.
28
sembra far inclinare Kant verso una forma di distaccata meditazione sulla condizione umana. In tale
ambito, appare assai significativo l’apprezzamento per la tesi di Voltaire, secondo il quale speranza
e sonno sono doni concessi all’uomo a compenso delle sue pene esistenziali. Ad essi, sostiene Kant,
si potrebbe aggiungere il riso. Ma proprio a questo punto potrebbe farsi strada la pointe scettica:
come la speranza può essere destinata a tramontare e il sonno è fonte di quella peculiare forma di
illusione costituita dal sogno, così il riso nasce dallo smascheramento di un’illusione. Sennonché le
tre forme di illusione svolgono, almeno nel contesto specifico qui in considerazione, un’opera
catartica: la speranza aiuta a vivere, il sonno ristora dalle fatiche fisiche, il riso rilassa e dà
benessere psicofisico. Risulta ora evidente la differenza radicale fra lo Schein di cui qui si discorre e
lo Schein dialettico in cui la ragione incorre quando pretende di valicare i confini ad essa stabiliti.
Lo Schein del Witz non è pericoloso per l’umanità e può tranquillamente coesistere con la verità,
ossia con il mondo della nostra esperienza possibile in generale. Contrariamente a quell’altro
Schein, che – una volta svelato – non può non dileguare, esso non svanisce alla scoperta della
nullità di ciò che lo ha provocato e, proprio per questa ragione, si adatta benissimo ai limiti entro cui
la conoscenza umana è rinserrata47. Attraverso l’illusione quasi estetica del comico traspare la
volontà di evasione del soggetto, il quale sa comunque riconoscere le forme dell’assurdo e, proprio
attraverso questo riconoscimento, assume coscienza della propria vocazione ludica, ossia della
propria vocazione a mettere liberamente in moto le proprie facoltà, a danzare con il pensiero.
Proprio perché il comico consente all’uomo di elevarsi al di sopra di se stesso, di prendersi gioco
della propria inclinazione all’assurdo, il risultato cui esso conduce è quello stesso “star bene della
coscienza” che, secondo lo Hegel della Phänomenologie, accompagna la dissoluzione della
“religione artistica” dei Greci. La scarica liberatoria che accompagna la trovata arguta ha, proprio
per questa funzione rasserenante dell’illusione, maggior valore di quel
“talento di inventare cose che spaccano la testa, come fanno i fantasticatori mistici, che spaccano il
collo, come fa il genio, o che spaccano il cuore, come fanno i romanzieri sentimentali (e anche i
moralisti di tal sorta)” 48.
KU 334 (it. 196). O. Rommel sottolinea non a torto l’analogia fra la descrizione kantiana dei processi
psicofisiologici che accompagnano il riso ed il fenomeno del solletico (cfr. Die wissenschaftlichen Bemühungen um die
Analyse des Komischen, in “Deutsche Vierteljahresschrift für Literaturwissenschaft”, 1943, p. 165.
47
Sul carattere positivo dell’illusione (illusio) estetica contrapposta all’“inganno” (Betrug, fraus), cfr. KU, §
53, 326-327 (it. 188), ove si dice che la poesia produce Schein, ma non inganna, e soprattutto ApH, § 13,149-150 (it. 3334): “Illusione è quell’apparenza ingannevole [Blendwerk] che rimane anche se si sa che il presunto oggetto non è reale.
– Questo gioco dell’animo con l’apparenza sensoriale è molto gradevole e divertente, come per es. il disegno in
prospettiva dell’interno di un tempio, o, come Raphael Mengs dice del dipinto della Scuola dei Peripatetici (del
Correggio, mi pare) ‘che, quando li si guarda a lungo, sembrano camminare’, o come una scala dipinta con una porta
semiaperta nel palazzo municipale di Amsterdam invita a salirla, e simili. Inganno dei sensi si ha invece quando, appena
si sa come stanno le cose con l’oggetto, anche l’apparenza subito cessa. Di tale specie sono i giochi di prestigio di
qualsiasi genere”. La distinzione fra illusio e fraus è già ampiamente abbozzata nel testo latino del 1777 tradotto in
appendice alla presente raccolta e trova riscontri in altri luoghi dell’opera di Kant (cfr. in proposito la mia nota
introduttiva).
48
KU 334 (it. 197).
46
29
E’ preferibile dunque l’originalità del Witz, sebbene esso sia inassimilabile al gusto, piuttosto che il
cedimento ad una delle forme di Schwärmerei che Kant evoca qui ironicamente e due delle quali
hanno un bersaglio preciso e facilmente individuabile: Herder49.
In questa stessa direzione vanno le considerazioni di Kant intorno al riso suscitato in società
dall’ingenuo. Due correnti, in cui si uniscono attitudine etica e inclinazione psicologica, convergono
a costituire l’atteggiamento tenuto dai suoi simili nei confronti di colui che non abbia imparato
l’arte della finzione: il rispetto per la sincerità naturale e spontanea; la tenerezza mista a
compassione per l’incapacità di stare alle regole che governano i giochi sociali50. Ne scaturisce una
bonaria burla, un “riso cordiale”, cui la stessa vittima può unirsi. La conclusione è conforme
all’andamento di tutta la trattazione del § 54, ossia ottimistica: un tale esito felice rafforza i legami
sociali, e il riso si trasforma in istanza comunitaria, in modo tale da rispondere perfettamente a
quell’esigenza di apertura intersoggettiva, di umana simpatia, che costituisce uno dei motivi
dominanti della Critica del Giudizio estetico51. Non solo dunque, come il geloi=on di Aristotele, il
comico kantiano non provoca con il suo “errore” né dolore né danno, perché l’assurdo vi si presenta
sotto il suo aspetto positivo, ma favorisce addirittura lo sviluppo armonico della comunità: come nel
caso del giudizio di gusto, essa si raccoglie nell’ascolto della vox universalis del “senso comune”
estetico, così ora si dispone ad ascoltare l’appello alla condivisione del buon umore, che è la
condizione psichica propria di una situazione in cui burlone e burlato ridono allegramente insieme e
si riconoscono reciprocamente su di un piano di parità. In tal modo, Kant prende – e non
inconsapevolmente – posizione in favore della superiorità dello humour nei confronti degli aspetti
più popolari e più facili del comico.
49
L’icastica immagine degli scritti che spaccano la testa, il cuore o il collo è già presente, con esplicito
riferimento a Herder, in una serie di frammenti probabilmente risalenti alla fine degli anni ’70: cfr. le Refl. nn. 910-914,
in Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., pp. 398-400. Per quanto concerne in particolare la critica al concetto herderiano di
genio, cfr. il § 47 di KU, ove – in perfetta corrispondenza con l’immagine del § 54 – Kant paragona il rifiuto delle
regole in nome della libera espressione della creatività alla pretesa di cavalcare un cavallo imbizzarrito.
50
Cfr. KU 335 (it. 197-198). E’ lecito congetturare che Kant abbia qui in mente un modello letterario piuttosto
che un esempio concreto. Da un punto di vista più generale, il tema del riso come sanzione sociale nei confronti
dell’“insocievolezza” è ripreso da Bergson (op. cit., p. 453; trad. it., p. 91) come versione aggiornata del motto castigat
ridendo mores.
51
Non è superfluo ricordare che il cuore del § 60, l’ultimo della prima parte di KU, è costituito dalla vera e
propria celebrazione della humanitas, fondata sul sentimento della simpatia e sull’attitudine all’apertura comunitaria.
30
II
IL COLORE: QUASI UNA TEORIA
Nel complesso della produzione teoretica ed estetica di Kant quello dello statuto
gnoseologico, epistemologico ed ontologico del colore costituisce indubbiamente un problema
limitato e marginale, tanto che esso è stato fortemente trascurato dalla letteratura critica, non solo da
quella di primaria importanza storico-teoretica e filologica e da quella volta ad indagare le grandi
unità tematiche, ma anche da quella dedita a valorizzare gli argomenti minori e le rarità. Tuttavia,
ad onta dell’occasionalità e della frammentarietà delle riflessioni kantiane, un’analisi puntuale dei
testi consente non solo di ricostruire i loro referenti storici – tanto filosofici quanto scientifici – e il
rapporto fra talune considerazioni estetiche della III Critica e la teoria della percezione della I
Critica, ma anche di rintracciare spunti teoretici che vanno al di là della pura e semplice ripresa e
rielaborazione di temi lockiani o berkeleyani, al di là di un certo classicismo e di un certo
aristotelismo di maniera dominanti in ambito estetico, al di là del superficiale riecheggiamento di
acquisizioni scientifiche ormai consolidate, la cui messa in discussione “speculativa” da parte delle
generazioni immediatamente successive condusse per altro ad esiti per nulla disprezzabili e risibili
sul piano logico, psicologico e fenomenologico1. In questa prospettiva di ricerca, le modifiche
apportate nel passaggio dalla I alla II ed. della I Critica, i diversi punti di vista da cui i fenomeni
cromatici sono considerati nell’Estetica trascendentale e nell’Analitica trascendentale, le vistose
oscillazioni reperibili all’interno della III Critica valgono per il lettore come segno della tortuosità
del cammino percorso da Kant e della direzione verso cui le sue riflessioni sul colore, pur non
costituendosi mai in teoria organica, si andarono orientando, in parallelo con il progressivo e
faticoso mutamento di indirizzo che la filosofia trascendentale nel suo complesso subì e con le
sempre maggiori difficoltà che si andarono accumulando proprio allorché egli pensava di aver
finalmente ultimato l’edificazione del “sistema critico”.
1- Il colore come problema psicofisiologico.
1
Penso non solo a Goethe, ma anche alle interessanti osservazioni di P.O. Runge sui contrasti cromatici, la cui
eco è riscontrabile ancora in Wittgenstein. Sulle teorie romantiche del colore e sulla polemica di Goethe, Hegel e
Schopenhauer contro Newton cfr. M. Élie, Lumière, couleurs et nature. L’Optique et la physique de Goethe et de la
“Naturphilosophie”, Vrin, Paris 1993. Pr quanto concerne in particolare la posizione goethiana, cfr. pure i seguenti
saggi di R. Troncon: Goethe e la filosofia del colore, in appendice a J.W. Goethe, La teoria dei colori, Il Saggiatore,
Milano 1993, pp. 220-256; Perché una storia del colore, in J.W. Goethe, La storia dei colori, Luni, Milano-Trento
1997, pp. 13-44.
31
Già negli scritti precritici si incontrano sporadici riferimenti alla composizione dello spettro
cromatico2, all’azione psicologica esercitata dal colore nell’ambito della critica ad una concezione
antropocentrica della teleologia3, al suo valore di simbolo nel quadro dell’osservazione
fenomenologico-empirica dei temperamenti e delle loro qualità estetiche4. Tuttavia, per trovare
qualcosa di veramente interessante dal punto di vista filosofico, occorre giungere alla I ed. della I
Critica. In un primo momento, nell’introduzione all’Estetica trascendentale (corrispondente al § 1
della II ed.), la risposta alla domanda “che cosa è il colore?” si inscrive nel quadro del tentativo di
classificare con precisione le qualità dei corpi. Con l’attenzione rivolta in particolare alla
distinzione di Locke fra qualità primarie e secondarie, ma senza menzionare mai l’importante
predecessore5, Kant introduce una tripartizione che interseca in più punti la sua tassonomia e la cui
ispirazione prima si può far risalire fino a Cartesio6. In primo luogo, vi sono le qualità pensate
dall’intelletto, ossia le proprietà ontologiche e fisico-matematiche di un corpo: sostanza, forza,
divisibilità, ecc. Si tratta di ciò che è più facilmente riconducibile alle categorie e che caratterizza il
corpo nella sua azione e reazione, nella sua attitudine a divenire oggetto della scienza sperimentale.
In secondo luogo, vi sono le qualità che appartengono alla sensazione: impenetrabilità, durezza,
2
Cfr. Geschichte und Naturbeschreibung der merkwürdigsten Vorfälle des Erdbebens, welches an dem Ende
des 1755sten Jahres einen grossen Teil der Erde erschüttert hat, in Kants Werke, cit., Bd. I, p. 458: i cangiamenti del
colore del cielo prima di uno sconvolgimento tellurico sarebbero dovuti all’attraversamento di una serie di vapori
atmosferici da parte della luce.
3
Cfr. Der einzig mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, ibid., Bd. II, p. 136 (trad.
it. in I. Kant, Scritti precritici, cit., p. 180). L’attribuzione al verde di boschi e campi di una “forza media” in grado di
mantenere in “moderato esercizio” l’occhio dell’osservatore non è nulla più che un riecheggiamento della concezione
tradizionale: al verde veniva assegnata un’appagante funzione di riposo anche in considerazione del fatto che
nell’arcobaleno (così come nello spettro cromatico di Newton) esso occupa la posizione intermedia. Come si vedrà, il
verde campestre è indicato paradigmaticamente come fonte di un’impressione gradevole anche in KU.
4
Cfr. Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, cit., p. 213 (trad. it., p. 299): il colore
bruno e gli occhi neri sono affini al sublime, gli occhi azzurri e il biondo al bello. Cfr. inoltre pp. 236-237 (trad. it., p.
324): il colorito sano, ma pallido, accompagna un sentire intimo e delicato ed inclina al sublime; un colorito roseo e
fiorente annuncia un temperamento allegro e vivace. Come si può constatare, Kant mescola continuamente - in
conformità per altro con l’orientamento generale dell’operetta - considerazioni di carattere estetico e psicologico-morale
che anticipano in qualche misura le incipienti riflessioni di KU sul linguaggio dei colori e su quella che, con
un’espressione di Goethe, potremmo chiamare la loro “azione sensibile-morale”.
5
Come si vedrà, l’unico riferimento esplicito a Locke compare nell’Osservazione II al § 13 dei Prol. Come è
noto, Locke aggiungeva una terza specie di qualità, originate dall’effetto di una fonte di energia sugli oggetti. E’
comunque opportuno osservare con A.D. Smith (Of Primary and Secondary Qualities, in “The Philosophical Review”,
1990, pp. 236-237) che in realtà Locke non presenta propriamente i colori, i suoni, i sapori come qualità secondarie, ma
come sensazioni (o idee) prodotte dalle qualità presenti nei corpi. (cfr. Essay concerning Human Understanding, L. II,
cap. VIII, § 10). Di conseguenza, Kant gli sarebbe qui più fedele di quanto egli stesso sarebbe stato disposto a
concedere. Naturalmente all’origine della discussione sta la concezione aristotelica dei colori come pa/qh o paqhtikai\
poio/thtej: in quanto tali, secondo un’acquisizione logica ed ontologica risalente ad Anassagora, essi sono ta\
sumbebhko/ta a)xw/rista th=j ou)si=aj. Su questo punto è ancor oggi valida l’accurata ricostruzione storicofilologica di K. Prantl, Übersicht der Farbenlehre der Alten, in Aristotele (Pseudo-), Über die Farben, Scientia Verlag,
Aalen 1978 [Neudruck der Ausgabe München 1849], pp. 59 e 87-89. I luoghi principali sono: Anassagora, Diels fr. A
53; Aristotele, Categoriae, 8, 9 a 28 sgg; Physica, I, 4, 188 a 7 sgg.; Metaphysica, i, 9, 1058 a 34 sgg. e 1058 b 36 sgg.
Un altra eredità della tradizione reperibile in Kant è la tesi di KU, § 58, 347 (it. 211) secondo cui la varietà e l’armonica
disposizione dei colori sono un fenomeno di superficie: secondo la testimonianza di Aristotele (De sensu et sensibilibus,
3, 439 a 30), già i Pitagorici lo sostenevano (cfr. K. Prantl, ibid., pp.31-32).
6
Cfr. KrV A 30/B 50 (it. 66).
32
colore, ecc. Ha un mero interesse storiografico notare che qui appaiono inserite in una stessa classe
qualità che in Locke sono distribuite fra classi diverse (il che per altro conduce Kant più vicino alla
posizione di Cartesio da un lato e di Berkeley e Hume dall’altro) 7; il fatto di interesse teoretico è
piuttosto che, mediante l’inserzione del colore fra le “qualità secondarie”, si ha – almeno fino ad un
certo punto – una soggettivizzazione dei dati empirici conforme alla tradizione gnoseologistica, ma
sicuramente non congruente con i risultati cui era pervenuta la scienza fisica fin dall’esperimento
newtoniano del prisma. Da un lato, pur abbracciando la tesi cartesiano-lockiana secondo cui il
colore è inessenziale per comprendere la natura dei corpi e non un loro predicato cognitivamente
inseparabile, Kant non lo riduce ad un più o meno occulto “potere” di modificazione del soggetto (o
degli oggetti, tale da produrre a sua volta una modificazione nel soggetto)8. Dall’altro lato, egli non
considera affatto i colori come il risultato della scomposizione della luce, e dunque come qualcosa
di oggettivamente pertinente ad una sostanza e di sperimentalmente accertabile. Optando per una
soluzione diversa da quella di Locke e da quella di Newton, Kant elimina la connessione
indissolubile fra teoria del colore e problema della predicazione logica, e preferisce –
conformemente per altro all’impostazione psicologistica della I ed. della Critica – considerare
l’attribuzione del colore ad un corpo come un dato soggettivo a posteriori. In terzo luogo, vi è ciò
che rimane come residuo una volta tolto quanto spetta all’intelletto e alla sensazione e che è di
pertinenza dell’intuizione pura a priori: l’estensione e la figura (Gestalt), che in Locke sono invece
qualità primarie e, in quanto tali, proprietà essenziali (= analitiche) della materia. Il primato del
pattern spaziale sulle vecchie “qualità secondarie” non può ovviamente stupire, considerato il
carattere di condizione a priori necessaria conferito da Kant allo spazio e l’analogia funzionale
sussistente fra forma come principio ordinatore a priori e forma come ordine strutturale delle parti9.
In tal modo, la teoria del colore come epifenomeno, che verrà successivamente ribadita da Kant,
costituisce un capitolo importante della distinzione forma-materia e una precisa presa di posizione
Kant è più vicino a Cartesio nell’attribuire all’estensione (anche se non ad essa soltanto) un ruolo privilegiato;
a Berkeley e a Hume nel sottoporre a revisione (anche se non a sopprimere radicalmente) la distinzione lockiana fra
qualità primarie e secondarie.
8
Sul concetto di power cfr. J. Locke, Essay, cit., L. II, cap. VIII, §§ 10 e 24. In realtà, sebbene sia pressoché
inevitabile essere indotti a correlare la struttura ipotetica di Locke con le virtutes scolastiche, nulla vieta di scorgervi
un’anticipazione di più recenti teorie fisiche, secondo le quali il colore di una superficie è il prodotto del potere di
assorbimento delle radiazioni luminose dipendente dalla sua composizione molecolare.
9
Per contro, Berkeley, riducendo tutti i predicati a qualità secondarie, annulla la gerarchia, ad un tempo
gnoseologica ed ontologica, da essi costituita e pone sullo stesso piano figura e colore. Sulla sua scia Hume dichiarerà
che figura e colore sono “una stessa ed indistinguibile cosa” e suggerirà che non è possibile istituire una scala
gerarchica dell’importanza dei predicati (Treatise on Human Nature, L. I, P. I, sez. VII, in Philosophical Works, vol. I,
London 1886 [Reprinted by Scientia Verlag, Aalen 1964], pp. 332-333; trad. it. di A. Carlini, Laterza, Roma-Bari 1975,
pp. 37-38). Per una ricostruzione dei caratteri epistemologici e gnoseologici dell’ottica berkeleyana, cfr. P. Spinicci,
Indicazioni di lettura del “Saggio per una nuova teoria della visione” di Berkeley, in G. Berkeley, Un saggio per una
nuova teoria della visione, Guerini, Milano 1995, pp. 9-35. Ivi (pp. 18-19) pure interessanti cenni alle implicanze
estetiche della tesi dell’inseparabilità di figura e colore: poiché Berkeley era particolarmente attento alla resa cromatica
della prospettiva, la sua posizione risulta meno tradizionale di quella di Kant.
7
33
di carattere ontologico, giacché riconduce il colore nell’ambito della teoria della percezione e
pertanto lo rende oggetto di esclusivo interesse psicofisiologico, prescindendo dalla sua rilevanza
espistemica.
La tendenza è confermata alla fine della I sez. dell’Estetica trascendentale, allorché Kant
fissa la differenza fra lo spazio come rappresentazione soggettiva a priori, ossia come condizione
indispensabile perché le cose diventino oggetto dei sensi, e le rappresentazioni come mere
sensazioni, e dunque soggettive a posteriori:
“Non c’è però, all’infuori dello spazio, nessun’altra rappresentazione soggettiva riferentesi a qualcosa
di esterno che si possa chiamare a priori oggettiva; perciò questa condizione soggettiva di tutti i
fenomenio esterni non può essere paragonata con nessun’altra. Il buon sapore di un vino non
appartiene alle determinazioni oggettive del vino, e perciò di un oggetto, sia pure considerato come
fenomeno, ma alla particolare costituzione del senso nel soggetto che lo gusta. I colori non sono
qualità dei corpi alla cui intuizione ineriscono, ma soltanto modificazioni del senso della vista, che è
impressionata dalla luce in un certo modo. Per contro, lo spazio, in quanto condizione degli oggetti
esterni, appartiene necessariamente al loro fenomeno o intuizione. Gusto e colori non sono affatto
condizioni necessarie sotto le quali soltanto le cose possano diventare per noi oggetti dei sensi. Essi
sono connessi con il fenomeno soltanto come effetti aggiuntisi accidentalmente della nostra
particolare organizzazione. Perciò essi non sono neppure rappresentazioni a priori, ma sono fondati su
una sensazione [Empfindung], e il buon sapore addirittura su un sentimento [Gefühl] (di piacere e
dispiacere) come effetto della sensazione. E nemmeno può nessuno avere a priori né una
rappresentazione di un colore né di un qualsivoglia sapore; lo spazio invece concerne solo la forma
pura dell’intuizione, non racchiude dunque in sé alcuna sensazione (nulla di empirico), e tutti i modi e
le determinazioni dello spazio possono, anzi non possono non, essere rappresentati a priori, se
debbono scaturirne tanto i concetti delle figure [Gestalten] quanto i loro rapporti. Soltanto tramite lo
spazio è possibile che le cose siano per noi oggetti esterni.
L’intento di questa osservazione è solo di impedire che passi per la mente di spiegare
l’asserita idealità dello spazio con esempi di gran lunga inadeguati, poiché per es. colori, sapore, ecc.
sono considerati a ragione non come qualità delle cose, ma semplicemente come modificazioni del
nostro soggetto, che possono anzi essere diverse in uomini diversi. Infatti in questo caso ciò che è
originariamente esso stesso soltanto fenomeno, per es. una rosa, vale in senso empirico come cosa in
sé, che tuttavia può apparire diversamente a ciascun occhio per quanto concerne il colore. Per contro,
il concetto trascendentale dei fenomeni nello spazio è un monito critico, per ricordare che in generale
niente di ciò che è intuito nello spazio è una cosa in sé e che lo spazio non è una forma delle cose che
sia magari propria di esse in se stesse, ma che gli oggetti in sé non ci sono affatto noti, e ciò che
chiamiamo oggetti esterni non sono altro che semplici rappresentazioni della nostra sensibilità, la cui
forma è lo spazio, ma il cui vero correlato, cioè la cosa in se stessa, non viene in questo modo affatto
conosciuta né può esserlo, e per altro nell’esperienza non è mai in questione” 10.
Mentre in precedenza l’obiettivo era sostanzialmente quello di respingere una vecchia e non
più adeguata classificazione, Kant introduce ora la sua nuova proposta teoretica: si tratta di
contrapporre una delle condizioni cui necessariamente le cose diventano oggetti cognitivi (lo
spazio) ad accidenti meramente soggettivi, che sono tali da non incidere sulla costruzione teoretica
dell’oggetto e che comunque sono di pertinenza di una teoria empirica della percezione11. Anzi:
tanto poco l’oggetto esperienziale dipende dalle modificazioni sensoriali, che un semplice
10
KrV A 34-35 (it. 73-74).
Nel suo Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft (Scientia Verlag, Aalen 1970 [Neudruck der 2.
Auflage, Stuttgart 1922], Bd. 2, p. 356, n. 1) H. Vaihinger riporta la diversa posizione di Reimarus, secondo il quale
anche i colori sarebbero forme necessarie delle rappresentazioni visive, e di Schopenhauer, secondo il quale i colori
sono conosciuti anche a priori. Sull’aposteriorità di fenomeni psicofisiologici quali la profondità di campo, la
focalizzazione, ecc., cfr. P. Rohs, Transzendentale Ästhetik, Hain, Meisenheim/G. 1973, p. 74.
11
34
fenomeno, come lo è una rosa percepita, assume nei confronti del colore (e delle altre sensazioni o
“qualità secondarie”) il valore di una cosa in sé “in senso empirico”, ossia indipendente non dai
sensi, ma dalle modificazioni meramente soggettive ed accidentali dei sensi. S’intende da sé che
una rosa può apparirmi come tale anche a prescindere dal suo colore naturale, dal suo profumo e da
altri predicati sensoriali (per es. quando ne osservo una riproduzione in bianco e nero). Occorre
tuttavia aggiungere che, perché io possa riconoscerla come una rosa, non è evidentemente
sufficiente il solo spazio: oltre ad esso, dovranno intervenire altre condizioni, che appartengono
anch’esse necessariamente alla sensazione, giacché è quest’ultima ad offrire il dato che consente la
costruzione degli oggetti cognitivi. Avremo dunque rappresentazioni sensoriali necessarie (per così
dire: “oggettive”) e non necessarie (per così dire: “soggettive”). Non è indispensabile pensare che
fra le prime siano da annoverare l’impenetrabilità, la durezza, la pesantezza (ossia la materialità in
senso proprio)12, perché – come si è appena rilevato – anche queste qualità da taluni considerate
primarie sono assenti dall’immagine di un oggetto, così come essa mi si manifesta in una
riproduzione che – dal punto di vista kantiano – non è la rappresentazione soggettiva di una
rappresentazione oggettiva, ma è pur sempre la rappresentazione soggettiva primaria dell’oggetto.
Davvero indispensabili alla costruzione dell’oggetto cognitivo sono invece l’estensione e la figura,
ossia quei predicati che – come si è visto – sono per Kant di pertinenza dell’“intuizione pura”. Se
mutamento di prospettiva vi è rispetto a quanto è emerso dall’analisi delle prime battute
dell’Estetica trascendentale, esso non concerne il passaggio di alcuni predicati dal lato soggettivo al
lato oggettivo della sensazione, ma l’ascrizione alla sensazione di predicati che in precedenza
venivano sic et simpliciter collocati dal lato dell’intuizione a priori. D’altro canto, i predicati
“soggettivi” sono gerarchicamente subordinati a quelli “oggettivi” per il fatto che questi ultimi
consentirebbero meglio la costruzione degli oggetti cognitivi. Tale tendenza è confermata nella II
ed., ove il primo capoverso del passo poc’anzi citato appare così rimaneggiato:
“Non c’è però, all’infuori dello spazio, nessun’altra rappresentazione soggettiva riferentesi a qualcosa
di esterno che si possa chiamare a priori oggettiva. Infatti da nessuna di esse si possono derivare
proposizioni sintetiche a priori, come dall’intuizione nello spazio (§ 3). Perciò ad esse, per parlare
propriamente, non spetta nessuna idealità, sebbene concordino con la rappresentazione dello spazio
nel fatto che appartengono soltanto alla disposizione soggettiva del modo di sentire, per es. della
vista, dell’udito, del tatto tramite le sensazioni dei colori, dei suoni e del calore; ma queste, poiché
sono semplici sensazioni e non intuizioni, non fanno conoscere in sé nessun oggetto, tanto meno a
priori” 13.
Quando afferma che colori, suoni e calore non fanno conoscere alcun oggetto in sé, Kant
non si sta affatto riferendo all’alto grado di raffinatezza concettuale necessario per conseguire la
12
E’ questa la tesi di Vaihinger, op. cit., p. 362. Si rivelerebbe in tal modo una radicale contraddizione con il
passo di KrV A p. 30 in precedenza discusso. L’obiezione poggia però su un equivoco: Kant non afferma affatto che
Locke ha distinto a ragione fra qualità primarie e secondarie, ma che a ragione i colori e il gusto sono stati considerati
come modificazioni soggettive.
35
conoscenza scientifica14, ma al riconoscimento percettivo delle cose nel loro darsi come patterns
configurazionali, al loro divenire cioè – come si afferma nel capoverso della I ed. sostituito nella II
– “oggetti dei sensi”: è questo tipo di oggetto a porsi come cosa in sé “in senso empirico” nei
confronti delle sensazioni. Da questo punto di vista, tutte le sensazioni meramente soggettive hanno
pari dignità. Semmai, e limitatamente alla I ed., la gerarchia si stabilisce fra sensazione
(Empfindung) e sentimento (Gefühl) di piacere e dispiacere: con un’osservazione di netta impronta
psicologica, Kant ammette che ci sono casi in cui la prima causa il secondo. Il riferimento esplicito
è al gusto, ma si potrebbe estendere l’effetto gradevole o sgradevole anche al tatto, all’udito e
all’odorato; per quanto concerne invece la sensazione visiva del colore, sembrerebbe escluso che
essa possa procurare una reazione psicofisica di piacere o dispiacere 15. Il risultato ontologico di
questa precisazione è chiaro: Kant rifiuta di concepire la cosa come somma dei suoi predicati o
come collezione di qualità. Un conto è infatti parlare di condizioni necessarie della trasformazione
delle cose in oggetti sensoriali, un altro è parlare di analiticità del rapporto soggetto-predicato.
D’altro canto, proprio per il contesto in cui essa si situa, non ci si può sottrarre alla
tentazione di considerare la tesi della I ed. come un’obiezione alla teoria dei colori di Newton. Se
infatti i colori non sono null’altro che “modificazioni del senso della vista, che è impressionata dalla
luce in un certo modo”, la luce non può più essere considerata come somma dei colori dello spettro,
perché questi non sono più qualcosa di oggettivamente rilevabile in una sostanza, e dunque oggetto
della fisica16; essi sono piuttosto di esclusiva pertinenza della psicologia della percezione. Si può
ipotizzare che per questo motivo, per sottrarsi alla difficoltà di dover spiegare come sia possibile
che i colori siano da una parte il risultato di un processo naturale oggettivo e controllabile
sperimentalmente e dall’altra il risultato di una mera sensazione idiosincratica, il riferimento alla
luce sia scomparso nella revisione cui Kant ha sottoposto il passo nella II ed.? La risposta potrebbe
13
KrV B 56 (it. 73).
Così sembra ritenere invece Vaihinger (op. cit., p. 360), collegando con questo rifacimento di KrV B un
passo dei Fortschritte der Metaphysik in cui Kant afferma che colori, suoni e acidità “rimangono meramente soggettivi
e non esibiscono alcuna conoscenza dell’oggetto, e perciò nessuna rappresentazione valida per tutti nell’intuizione
empirica” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XX, De Gruyter, Berlin 1942, pp. 268-269; trad. it. a cura di P. Manganaro,
Bibliopolis, Napoli 1977, p. 76).
15
In considerazione di ciò, si potrebbe essere tentati di ipotizzare che la scomparsa in KrV B della distinzione
sensazione-sentimento sia stata motivata dall’esigenza di enucleare l’elemento comune a tutte le sensazioni, siano esse
visive, tattili, gustative, ecc., prescindendo da ciò che le differenzia. Non si può però ignorare che la revisione di KrV B
coincide pure con la fase della ricerca dei principi a priori del gusto, ossia con la formazione di KU, e dunque non solo
con un rinnovato modo di guardare i rapporti fra le diverse sensazioni, ma soprattutto con la meditazione che condurrà
Kant ad elevare il “sentimento di piacere e dispiacere” a “facoltà dell’animo” accanto a quella di conoscere e a quella di
desiderare. Né si può ignorare che, come si vedrà in seguito, nel § 3 di KU Kant distingue, nel seno stesso della
percezione cromatica, un’esperienza valida a fini oggettivi (che chiama “sensazione”) da un’esperienza valida a fini
soggettivi (che chiama “sentimento”).
16
La luce è per Newton sostanza, allo stesso modo in cui lo è lo spazio che essa attraversa. In generale, in
quanto - come si è visto anche in precedenza - Kant rinuncia a ricondurre la teoria dei colori alla fisica, si può con buon
diritto affermare che la sua posizione è lontana non solo dalla teoria corpuscolare di Newton, ma anche da quella
14
36
essere positiva, qualora ci si limitasse a porre l’attenzione sul fatto che il rimando al § 3 della stessa
Estetica trascendentale contenuto nella versione rimaneggiata allude soltanto alle proposizioni
sintetiche a priori della geometria17, che poggiano sull’intuizione pura dello spazio. In realtà, però,
a ben considerare le cose, non c’è una vera e propria contraddizione fra le due edizioni: la luce è
fenomeno spaziale18, esattamente come le figure geometriche e i corpi in generale, e proprio
sfruttando le caratteristiche spaziali del raggio luminoso (ossia la legge della rifrazione) Newton
poté condurre il suo risolutivo esperimento scientifico. La posizione della luce sembrerebbe in
sostanza essere la stessa di quella della rosa: nei confronti dei colori, che sono soltanto accessori,
essa è “cosa in sé in senso empirico” alla quale inerisce come predicato essenziale solo la spazialità.
Il che salva la sua sostanzialità fenomenica (ed evita altresì a Kant di dover ammettere un monstrum
teoretico come l’analiticità dei predicati sensoriali), ma – in prospettiva newtoniana – ne sacrifica la
struttura ontologica di compositum. Se vista da questa angolazione, la correzione apportata nella II
ed. appare certamente tale da rafforzare, anche se indipendentemente dalle intenzioni kantiane, la
tesi dell’inevitabilità della riconduzione della fisica alla geometria e conferma il progressivo
abbandono della concezione psicologista della I ed., ma non elimina affatto la commistione
originaria fra epistemologia e gnoseologia, giacché le leggi scientifiche sono comunque fondate
sull’attività sintetica dell’intelletto.
Un ultimo punto resta da chiarire. Affermando nella I ed. della Critica che i colori sono
modificazioni della vista impressionata dalla luce, Kant ammette implicitamente la tesi che la luce
possegga la capacità (o il potere) di suscitare una sensazione. Il che ci riporta immediatamente alla
definizione lockiana delle qualità secondarie19. Tale nesso è per altro testimoniato dall’unico
passaggio fra quelli dedicati al problema delle sensazioni soggettive in cui il riferimento a Locke sia
esplicito. Nei Prolegomena20, dopo aver ribadito di aver ricondotto alla loro essenza di fenomeni
non solo le “qualità secondarie”, ma anche le “qualità primarie” (dopo aver dunque espresso una
ondulatoria di Huygens, al cui sviluppo da parte di Eulero farà esplicito riferimento in KU all’interno di una cornice
teoretica in progressiva trasformazione.
17
Lo si può dunque affiancare al passo di KrV B 470 (it. 552) in cui Kant afferma che posso rendere intuitiva
mediante concetti una figura geometrica, ma non il suo colore, perché esso deve essere precedentemente dato in
un’esperienza, ossia esibito in un’intuizione empirica. Per dirla in termini moderni, esso è dunque considerato da Kant
come un “predicato logicamente primitivo”.
18
Il fatto che, in questa fase, Kant prescinda totalmente dalla temporalità della propagazione della luce nello
spazio può essere spiegato con il fatto che il problema del colore rientra tutto nell’ambito della teoria della percezione
degli oggetti esterni. E’ evidente che una considerazione epistemologica imporrebbe tutt’altra impostazione.
19
Secondo Vaihinger (op. cit., p. 363), Kant avrebbe modificato il passo in questione a causa delle difficoltà
postegli dal carattere ibrido assunto dalla luce: da un lato, essa è necessariamente fenomeno (come tutte le cose spaziotemporali); dall’altro è qualcosa di reale, in grado di impressionare i sensi. Sennonché Vaihinger sembra dimenticare
che ibrida fonte di un’“affezione ominosa dei sensi” è anche la rosa, il cui caso paradigmatico è conservato in KrV B, e,
più in generale, che i fenomeni sono in Kant realissimi. In KrV B non si avrebbe dunque più una distinzione fra realtà,
ma conoscitiva fra valore oggettivo dello spazio e valore soggettivo delle qualità sensoriali (ibid., p.364). Sennonché si
può obiettare che tale distinzione è a fondamento anche del passo di KrV A sostituito da Kant.
20
Cfr. Prol., pp. 289-290 (trad. it., pp. 83-84).
37
preferenza per la soluzione di Berkeley rispetto a quella di Locke) 21, Kant – con un’affermazione
vicinissima a quella della I ed. della Critica – sostiene che i colori non sono “proprietà inerenti
all’oggetto in se stesso” (ossia predicati analitici delle cose), ma “inerenti solo al senso della vista
come modificazioni”. Così termina poi la sua appassionata difesa contro l’accusa di idealismo
mossagli dai critici che hanno assimilato la sua posizione a quella di Berkeley:
“Vorrei proprio sapere come dovrebbero essere fatte le mie affermazioni per non contenere un
idealismo. Senza dubbio dovrei dire che la rappresentazione dello spazio non solo è perfettamente
conforme ai rapporti che la nostra sensibilità ha con gli oggetti (perché questo l’ho detto), ma che essa
è addirittura affatto simile all’oggetto; un’affermazione cui non riesco ad annettere un senso più che a
quella che dicesse che la sensazione del rosso ha una somiglianza con la proprietà del cinabro che
suscita in me tale sensazione”.
Tale adesione kantiana alla soluzione di Locke22 costituisce indubbiamente un tentativo di
risolvere lo spinoso problema teoretico-conoscitivo della relazione fra causa fenomenica ed effetto
psicofisiologico; più in generale: della relazione fra oggetto e soggetto. In tal modo, Kant è in grado
di evitare sia la tesi della corrispondenza punto per punto fra esterno e interno sia la tesi, ancora più
arcaica, del trasferimento materiale mediante il canale sensoriale dall’oggetto percepito al soggetto
percipiente. L’obiettivo, comunque, non è certamente stabilire cosa in realtà accada nel nostro
sistema percettivo, quali meccanismi psicofisiologici vi vengano attivati sul piano empirico al
momento della sensazione; è piuttosto mostrare come l’accusa di idealismo à la Berkeley mossa
alla I ed. della Critica nella famosa recensione di Garve-Feder che irritò oltre misura Kant
presupponga un’erronea teoria della verità come corrispondenza biunivoca fra interno ed esterno.
Anche per questo motivo, inter alia, rielaborando il passo sulla distinzione fra intuizione e
sensazione nella II ed. della Critica, Kant insiste in modo particolarmente incisivo sulla differenza
fra carattere e funzione oggettivi della rappresentazione dello spazio e carattere e funzione
meramente soggettivi delle sensazioni. D’altro canto, rinunciando a trattare la teoria dei colori come
un capitolo dell’ottica, Kant può tranquillamente prescindere dal problema della sua fondazione
trascendentale: non si dà legittimazione teoretica a priori di ciò che costituisce un mero gioco dei
sensi, attivato dalla presenza di un medio di tipo fisico come la luce. La condizione davvero
necessaria per fondare filosoficamente la conoscenza (e dunque anche quella scientifica della
Fra le qualità cosiddette primarie Kant annovera qui: “l’estensione, il luogo [Ort] e in generale lo spazio con
tutto ciò che ad esso inerisce (impenetrabilità, materialità, figura)”.
22
Cfr. J. Locke, Essay, cit., § 15 (in Works, vol. I, London 1823 [Reprinted by Scientia Verlag, Aalen 1963];
trad. it. di C. Pellizzi, Laterza, Bari 1972, p. 53): “... le idee prodotte in noi da queste qualità secondarie non hanno
alcuna somiglianza con esse. Nei corpi stessi non esiste nulla di simile alle nostre idee. Nei corpi che denominiamo
muovendo da esse c’è solo un potere di produrre in noi quelle sensazioni; e ciò che è dolce, blu o caldo nell’idea non è
altro che una certa grandezza, figura e movimento delle particelle insensibili nei corpi stessi che noi chiamiamo così”.
Sulle affinità fra la concezione di Kant e quella di Locke cfr. H. Putnam, Reason, Truth and History, trad. it., Il
Saggiatore, Milano 1985, pp. 66 e 71.
21
38
natura) sono le intuizioni pure a priori; tutto il resto costituisce l’aspetto accessorio, per così dire
ornamentale, del programma “fenomenologico” di Kant23.
2- Percezione cromatica e costruzione delle scienze sperimentali.
Dal secondo fondamentale momento dell’indagine compiuta intorno al colore, ossia dal
paragrafo dell’Analitica dei principi dedicato alle “anticipazioni della percezione”24, provengono
sia un’ulteriore conferma della preminenza assunta nella I Critica dall’interpretazione in chiave
psicofisiologica dei fenomeni cromatici sia (ed è questo l’aspetto di maggiore interesse) un’apertura
in direzione di una loro diversa valutazione sul piano epistemico. Il presupposto del discorso
kantiano è costituito dalla precedente esposizione degli schemi dei concetti puri dell’intelletto,
giacché soltanto grazie alla mediazione offerta dagli schemi sono possibili i teoremi della
matematica e le leggi della fisica. Sensatio [est] realitas phaenomenon25: è questa la definizione
dello schema della categoria della realtà, ossia della classe delle categorie della qualità in generale.
Mentre, in quanto suo contenuto è lo 0 o mero nulla, la categoria della negazione corrisponde al
vuoto, al non essere, la realtà corrisponde ad una sensazione, e ciò è sufficiente a conferire essere al
suo contenuto. E’ evidente che, senza un’apprensione continua nel tempo tendente ad un limite, non
si ha costruzione della realtà percettiva, e dunque neppure costruzione di quella realtà che le scienze
sperimentali della natura hanno a loro oggetto. In sostanza, lo schema, proprio in virtù della sua
intrinseca temporalità, garantisce l’assenza di lacune o interruzioni nell’esperienza, che si
caratterizza così come un flusso continuo; ne consegue, per la coscienza unitaria, l’assenza di
lacune nell’oggetto esperienziale. Su tale garanzia trascendentale si fonda l’indagine volta a
stabilire quale sia il principio a priori (l’unico) all’opera nella percezione.
Che l’aspetto fisico sotto cui una cosa si presenta fenomenicamente nel mondo sia
qualitativamente accertabile e discriminabile è un fatto empirico: una mela rossa appare
immediatamente (oggi diremmo: è ostensivamente) diversa rispetto ad una mela verde, ecc. Ma
altrettanto evidente è il fatto che vi è nei fenomeni e nella sensazione, indipendentemente dal
confronto fra le qualità, un’intensità della qualità di volta in volta presa in considerazione. Ora,
conformemente alle premesse teoretiche fissate nel capitolo sullo schematismo e sulla base del
principio del continuum, che – in buona scolastica leibniziana – è concepibile da un punto di vista
Alcuni dei riferimenti al colore di KrV B situantisi nell’ambito problematico affrontato nella prima parte del
presente lavoro non compaiono in KrV A, ma non contengono aggiunte teoretiche significative. Nell’Introd. (KrV B 30;
it. 43) Kant afferma che, in quanto attributo empirico, il colore (così come la durezza o la tenerezza, la pesantezza e
l’impenetrabilità) può essere tralasciato quando ci si forma un concetto esperienziale di corpo. In una nota delle
Osservazioni generali all’Estetica trasc. (KrV B 71; it. 90) il colore è considerato come predicato fenomenico delle
cose.
24
KrV A 115 sgg./B 151 sgg. (it. 183 sgg.).
25
KrV A 104/B 139 (it. 169).
23
39
sia estensivo sia intensivo26, Kant cerca qui di dimostrare a priori proprio l’esistenza della
grandezza intensiva o del grado della sensazione che nel fenomeno le corrisponde. La lex continui
di Leibniz applicata all’intensità di un fenomeno esige che sia sempre possibile reperire una
quantità più piccola di qualsiasi quantità data, sicché la transizione dal tutto al nulla (dalla realtà o
realitas phaenomenon alla sua negazione = 0) avvenga per passaggi impercettibili27. Il colore, il
calore, il peso, ecc. sono realtà fenomeniche di questo genere, ossia tali da presupporre un quantum
o grandezza intensiva che può crescere o diminuire, pur rimanendo invariata la grandezza estensiva
del sostrato cui si riferiscono (per es., nel caso del colore, la superficie illuminata) e pur venendo
meno nella percezione del loro grado la distensione temporale, giacché esso “indica solo la quantità
la cui apprensione non è successiva, ma istantanea”28.
Da queste osservazioni discenderà l’affermazione della III Critica secondo cui la
“valutazione della grandezza degli oggetti di natura”, proprio in quanto essi sono colti
immediatamente “a occhio”, è estetica e non matematica, ossia intuitiva e non costruttiva (sorretta
da processi logici), soggettiva e non oggettiva29. E poiché consapevolmente Kant, fondandosi su
quel procedimento per analogia che costituisce l’ossatura logico-formale della III Critica30, fa
subire al termine “estetico” uno slittamento semantico che produce la fusione dell’idea di
valutazione e di comprensione percettiva unitaria dell’oggetto con l’idea di valutazione e di
comprensione emozionale dell’oggetto stesso, si potrebbe ipotizzare – sulla scorta delle affinità con
le considerazioni dell’Analitica dei principi – che anche i fenomeni cromatici abbiano diritto di
cittadinanza nell’ambito del giudizio sulla bellezza. L’idea dell’unità immediata della grandezza
oggetto della sensazione costituisce il termine di mediazione per la formulazione di quest’ipotesi
interpretativa, anche se – come si vedrà – la via seguita da Kant è meno diretta e assai più
difficoltosa. Poiché egli mette in evidenza che la nostra percezione, purché l’oggetto sia abbastanza
piccolo, ha la possibilità di coglierlo nella sua interezza, se ne potrebbe inferire: sul piano
26
Sul retaggio della scuola leibniziana cfr. G. Böhme, Über Kants Unterscheidung von extensiven und
intensiven Grössen, in “Kant-Studien”, 1974/3, pp. 254-258. Sulla coerenza fra la concezione leibniziana del punto e la
sua teoria topologica da un lato e la lex continui dall’altro cfr. O. Meo, Osservazioni sulla teoria leibniziana dello
spazio, in “Epistemologia”, 1998/1, pp. 17-40. Ivi pure alcune riflessioni sull’interesse di Kant per l’analysis situs.
27
Fortemente debitrice a questa impostazione è evidentemente la teoria della soglia di coscienza, che poggia
sulla possibilità di instaurare un parallelismo fra grado della realtà e grado della sensazione, una corrispondenza fra
processi oggettivi e processi soggettivi. Eccessiva è comunque la tesi esposta da Karl Bühler in Die Erscheinugsweisen
der Farben, Fischer, Jena 1922, pp. 143-144, secondo cui Kant costituirebbe l’anello di congiunzione fra l’oggettivismo
leibniziano e la legge psicologica di Weber-Fechner: l’istituzione di una corrispondenza fra processi oggettivi e processi
soggettivi (il cosiddetto parallelismo psicofisico) è idea ben presente a Leibniz. Giusta è l’osservazione di Bühler
secondo cui, per ciò che concerne i colori, aumento e diminuzione del grado possono essere intesi sia nella dimensione
della saturazione che in quella della chiarezza.
28
KrV A 117/B 153-154 (it. 186).
29
Cfr. KU, § 26, 251 (it. 100). Sulla correlazione fra i due testi cfr. G. Böhme, op. cit., pp. 247-249.
30
Come è noto, e come ho già ricordato nel saggio La logica del comico, il principio dell’analogia sostiene
l’impianto teoretico di KU dalla definizione della reflektierende Urteilskraft nel § IV dell’Introd. fino alla teoria del
40
gnoseologico, che il soggetto, affrancato dallo sforzo consistente nell’esplorazione attentiva della
superficie dell’oggetto alla ricerca dei suoi limiti spaziali, affrancato cioè dai problemi connessi con
la costruzione della Gestalt, può impegnarsi tutto nello sforzo di esplorare attentivamente la
superficie per cogliere le qualità “accidentali” o “secondarie”; sul piano estetico (inteso nel senso
proprio del termine), che il soggetto ricava da questo peculiare approccio percettivo un godimento,
giacché la dottrina classica – che Kant come è noto condivide – concepisce la bellezza esteriore
proprio come ordine, proporzione e misura, come ciò che è possibile abbracciare con sguardo
onnicomprensivo.
D’altro canto, anche se non è indispensabile allo scopo di riconoscere gli oggetti percettivi e
appare mutevole (in funzione della luminosità, della distanza, ecc.), l’esperienza del colore non può
mai mancare31. Se è vero infatti che al reale si contrappone la negazione assoluta = 0, è vero altresì
che la nostra esperienza non è del tipo tutto o nulla, ma è fatta di piccole transizioni e che, secondo
il chiarimento già fornito da Kant nel corso dell’esposizione dello schematismo trascendentale, noi
non possiamo avere una percezione del nulla:
“Se ogni realtà nella percezione ha un grado, fra il quale e la negazione si estende una serie infinita di
gradi sempre minori, e se tuttavia ogni senso non può non avere un grado determinato di ricettività
delle sensazioni, non è possibile alcuna percezione, e perciò nemmeno alcuna esperienza, che provi
una totale mancanza di qualsiasi reale nel fenomeno, sia immediatamente sia mediatamente (mediante
qualsivoglia mai rigiro nel sillogismo), cioè non si può mai trarre dall’esperienza una prova dello
spazio vuoto o di un tempo vuoto. Infatti la totale mancanza del reale nell’intuizione sensibile, in
primo luogo, non può essere direttamente percepita come tale; in secondo luogo, non può essere
dedotta da nessunissimo fenomeno e distinguendo il grado della sua realtà, né è mai lecito ammetterla
per la spiegazione del fenomeni. Infatti, anche se l’intuizione globale di uno spazio o di un tempo
determinato è tutta reale, cioè nessuna sua parte è vuota, tuttavia, poiché ogni realtà ha un suo grado,
che – rimanendo immutata la grandezza estensiva del fenomeno – può decrescere per infiniti gradi
fino al nulla (al vuoto), è necessario che ci siano gradi infinitamente diversi di cui sia riempito lo
spazio o il tempo ed è necessario che la grandezza intensiva possa essere minore o maggiore nei
diversi fenomeni, sebbene la grandezza estensiva dell’intuizione sia uguale” 32.
In altri termini: dal fatto che gli oggetti percettivi presentano sempre un grado nella
sensazione (in positivo o anche in negativo) discende che non esistono cose non colorate, o che non
siano né calde né fredde, né pesanti né leggere. Poiché, in buona filosofia kantiana della
matematica, lo 0 non è il vero negativo, che è piuttosto l’opposto positivo del positivo, ma
l’indifferente e astratto nulla, la mera privatio, dovunque mi rivolga, avrò sempre la percezione di
uno spazio pieno e di una realtà33. Il fatto che l’obiettivo di Kant sia quello di legittimare sul piano
bello come simbolo della moralità. Secondo l’indicazione esplicita contenuta nel § 84 della Logik, la Präsumption
analogica caratterizza il tipo di “sillogismo” proprio della reflektierende Urteilskraft nell’uso logico-teoretico.
31
Cfr. su questo punto K. Bühler, op. cit., pp. 6-7. E’ però eccessiva, e sicuramente influenzata dalla
fenomenologia e dalla Gestalttheorie, l’affermazione secondo cui in KrV Kant contesta expressis verbis la possibilità di
una percezione spaziale non cromatica: questa posizione è soltanto indirettamente inferibile.
32
KrV A 119/B 155-156 (it. 188).
33
La teoria kantiana delle “grandezze negative” suscita in realtà gravi problemi, giacché - commentando la
celebre “tavola del nulla” che conclude l’Analitica trasc. - come esempi di negazione (ossia come “concetto della
mancanza di un oggetto” o nihil privativum) Kant adduce l’ombra, il freddo, il buio. Sennonché in questo caso Kant ha
41
trascendentale la matematica e la scienza della natura, prendendo una posizione inequivocabile nel
dibattito epistemologico allora in corso sull’esistenza del vuoto, non muta ovviamente l’importanza
psicologica del risultato desumibile dalle sue considerazioni: l’impossibilità di prescindere dal
grado34 in una serie continua tendente verso l’infinitamente piccolo o l’infinitamente grande (per
quanto concerne in particolare il colore, non importa se nella scala della saturazione o in quella
della chiarezza) impedisce di concepire un essere dotato di un apparato sensoriale normale come
privo della capacità di assegnare una qualità alle cose. Il che non è sicuramente in contraddizione
con la tesi secondo cui essi sono inessenziali alla costruzione dell’oggetto percettivo; significa
soltanto che – in considerazione anche dell’inseparabilità empirica di calore, peso, ecc. – la realtà
non ha, dal punto di vista della materia della sensazione, buchi. D’altro canto, tale continuità
corrisponde a quella reperibile nella realtà mediante l’accertamento sperimentale delle sue proprietà
fisico-chimiche compiuto con opportuni strumenti di misura35.
3- L’esperienza estetica del cromatismo, ovvero prolegomeni ad una teoria del colore come
fenomeno fisico.
L’esame delle riflessioni dedicate al colore nella III Critica conduce a rilevare una certa
modifica dell’orientamento fin qui emerso, quasi come se la considerazione estetica dei fenomeni
consentisse – per lo meno a tratti – di lasciarli apparire nella loro indipendenza dalla soggettività
della sensazione, senza più le costrizioni imposte dalle esigenze teoretico-conoscitive ed
epistemologiche.
Ad attirare per primo l’attenzione è il § VII dell’Introduzione. Sebbene non vi compaiano
riferimenti espliciti al problema delle qualità, vi si trova una chiara delineazione della differenza fra
materia e forma della rappresentazione, che coincide con la distinzione fra la sensazione come
elemento meramente soggettivo della rappresentazione e lo spazio come intuizione pura a priori
della I Critica. Questa prima osservazione serve ad introdurre alcune considerazioni intorno al
piacere connesso con l’apprensione della forma di un oggetto dell’intuizione; serve cioè da
in mente per l’appunto la semplice privatio, il non essere che ricade sotto la categoria della negazione: freddo e buio
significano (soprattutto soggettivamente) solo mancanza di calore e luce. Altra cosa sono evidentemente il freddo e il
buio di cui si può con opportuni strumenti misurare l’intensità e che ricadono sotto la categoria della realtà e, di
conseguenza, sotto lo schema della qualità.
34
Kant osserva in KrV A 121/B 158 (it. 190): “... tutte le sensazioni sono date in quanto tali solo a posteriori,
ma la loro proprietà di avere un grado può essere conosciuta a priori”.
35
Che sia possibile condurre esperimenti controllati non solo sul calore e sul peso, ma anche sui fenomeni
cromatici lo hanno mostrato le ricerche che hanno permesso di giungere a risultati scientificamente attendibili dal punto
di vista fisico, fisiologico e psicologico (curve spettrofotometriche, risposte dei ricettori nervosi, metrica delle
sensazioni soggettive, ecc.).
42
preambolo per la trattazione di questioni di interesse più direttamente estetico36. Nel continuo gioco
delle facoltà conoscitive su quel ponte di passaggio fra la natura e la libertà che è garantito dalla
particolare costituzione della reflektierende Urteilskraft accade facilmente che l’analogia funzionale
di determinati elementi si trasformi in analogia strutturale. Cosa dunque meglio di una struttura
formale della conoscenza può permettere di cogliere la disposizione gestaltica degli elementi
percepiti e condurre ad un piacere che è a sua volta formale?
“Un tale giudizio è un giudizio estetico sulla finalità dell’oggetto che non si fonda su alcun concetto
dato dell’oggetto e non ne fornisce alcuno. Si giudica la forma di tale oggetto (non l’elemento
materiale della sua rappresentazione, in quanto sensazione) nella semplice riflessione su di essa (senza
aver di mira il conseguimento di un concetto dell’oggetto) come il fondamento di un piacere per la
rappresentazione di un tale oggetto. E questo piacere viene anche giudicato come necessariamente
connesso con la rappresentazione dell’oggetto” 37.
Il fatto che esistano accidenti inseparabili dal reale, o dalla Gestalt sotto cui il reale si
manifesta, non incide sulla natura puramente astratta del diletto estetico, al quale – come è noto –
non è commisto alcunché di extraestetico. In sostanza, continuando a sostenere l’inferiorità
gerarchica delle qualità “soggettive” rispetto a quelle “oggettive”, Kant non muta rotta per quanto
concerne la collocazione ontologica della materia della sensazione. E ciò, alla luce di talune
riflessioni rinvenibili nel corpo della III Critica, insinua il sospetto che sul tema delle cosiddette
“qualità secondarie” Kant difetti di linearità di pensiero.
Le prime perplessità sulla coerenza interna del pensiero di Kant sorgono allorché ci si
addentra nella lettura della prima parte dell’opera. Nel § 3, tentando di isolare in vitro il concetto di
“bello” rispetto ai concetti teoretici, pratici e pragmatici, Kant definisce il “gradevole” (angenehm)
come “ciò che piace ai sensi nella sensazione”. La sorpresa giunge allorché, per evitare confusioni
teoretiche, Kant propone di distinguere fra due significati del termine “sensazione”:
“Quando si chiama ‘sensazione’ una determinazione del sentimento di piacere o dispiacere, questa
espressione significa qualcosa di completamente diverso da quando chiamo ‘sensazione’ la
rappresentazione di una cosa (mediante i sensi, in quanto ricettività di pertinenza della facoltà
conoscitiva). Infatti, nell’ultimo caso, la rappresentazione è riferita all’oggetto, mentre nel primo è
riferita esclusivamente al soggetto e non serve affatto a nessuna conoscenza, nemmeno a quella con la
quale il soggetto conosce se stesso.
Ma, nella definizione sopra data, con la parola ‘sensazione’ intendiamo una rappresentazione
oggettiva dei sensi; e per non correre sempre il pericolo di essere fraintesi, vogliamo chiamare con il
nome, per altro abituale, di ‘sentimento’ ciò che non può non rimanere sempre semplicemente
soggettivo e non può assolutamente costituire alcuna rappresentazione di un oggetto. Il colore verde
dei prati appartiene alla sensazione oggettiva, in quanto percezione di un oggetto del senso; la sua
gradevolezza appartiene invece alla sensazione soggettiva, con la quale non è rappresentato alcun
oggetto, cioè al sentimento mediante il quale la cosa è considerata come oggetto della soddisfazione
(che non è una conoscenza di essa)”38.
Che l’altra intuizione pura a priori, il tempo, venga ignorata non può stupire: si è già constatato che
l’apprensione delle qualità (e il pattern configurazionale è una qualità) è istantanea e che il godimento del bello
presuppone l’offerenza globale dell’oggetto.
37
KU, Introd., § VII, 190 (it. 31).
38
KU, § 3, 206 (it. 46-47).
36
43
Kant conferisce dunque qui un valore oggettivo – sia pure limitato – a quella sensazione che
sia nella I Critica sia nel § VII dell’Introduzione alla III Critica, veniva contrapposta, in quanto
meramente soggettiva ed empirica, allo spazio. L’esigenza è abbastanza comprensibile: la necessità
di separare nettamente la funzione di riconoscimento e la funzione estetica della sensazione
costringe Kant a concedere qualcosa di più, sul piano dell’oggettività, alla sensazione che si pone al
servizio delle finalità percettive. Di conseguenza, interviene anche una, sia pur lieve, modifica nella
concezione del colore in quanto elemento della percezione dei fenomeni. Mentre sia nella I sia nella
II ed. della I Critica le cosiddette “qualità secondarie” apparivano come modificazioni del soggetto
inessenziali ai fini del riconoscimento, e in quanto tali diverse da uomo a uomo, esse accompagnano
ora l’oggetto sensoriale come predicati essenziali, ma solo se paragonate alla totale soggettività
idiosincratica della sensazione cromatica (o meglio: del sentimento), in cui si prescinde dalla
rappresentazione dell’oggetto e che solo dà luogo all’esperienza del “gradevole”. E
tuttavia
l’introduzione del termine “oggettivo”, sia pure accompagnata da tutte le cautele di cui Kant è
capace, è sufficiente a spostare l’orizzonte, sicché si illumina retrospettivamente pure la distinzione
della I ed. della I Critica fra sensazione e sentimento. L’avvertire (sia esso raffinato o grossolano)
in cui consiste il sentimento di piacere, in quanto contrapposto alla sensorialità della sensazione, ma
pur sempre su di essa poggiante, non può essere confuso con quest’ultima proprio perché esso è
qualcosa di intimamente idiosincratico: base sensoriale non significa sostanza sensoriale.
Tale tendenza è confermata nel § 7, dedicato alla comparazione del bello con il gradevole e
con il buono. Il colore è collocato interamente dal lato del gradevole. Donde discendono la sua
estrema soggettività, la limitazione al singolo giudicante dell’estensione del gradimento che esso
arreca e la validità del principio secondo cui “ciascuno ha il proprio gusto legato ai sensi”. La
soggettività della sensazione impedisce ogni possibile apertura comunitaria e causa la singolarità
del giudizio di gusto su di essa fondato: il fatto che lo stesso colore susciti reazioni contrastanti, che
appaia delicato ed amabile ad uno, smorto e cupo ad un altro, dipende in fin dei conti, anche se Kant
non lo afferma esplicitamente, da disposizioni psicologiche momentanee ed estremamente volatili,
da una costellazione caratterologica mobile ed invicariabile, da oggettive condizioni fisiologiche di
benessere o di malessere39. A Kant non interessa comunque in questa fase trarre dalle preferenze
soggettive indicazioni sulle caratteristiche psicologiche di chi emette il giudizio; gli interessa
piuttosto combattere ogni pretesa del gusto per il meramente gradevole di valere oggettivamente ed
39
Sulla valenza di simbolo della sfera morale propria delle reazioni psicologiche ai colori (fondata ancora una
volta sul principio dell’analogia e espressa con accenti che richiamano le posteriori considerazioni di Goethe) cfr. KU, §
59, 354 (it. 218).
44
universalmente (quand’anche si trattasse di un’universalità soltanto soggettiva, ossia di una cosoggettività trascendentale, come quella esigita dal giudizio di gusto sul bello)40.
Un passo decisivo verso un radicale mutamento nell’interpretazione dello status ontologico
del colore Kant lo compie allorché, nel § 14, cerca di esemplificare la tesi secondo cui al puro
giudizio di gusto non sono commiste attrattive ed emozioni. Ancora una volta egli insiste
inizialmente sul fatto che a fondamento del colore (e del suono) sta la materia della
rappresentazione, ossia la sensazione; ma ammette anche che si possano considerare belli, e non
soltanto gradevoli, certi colori e certi suoni. Ciò accade quando le sensazioni corrispondenti sono
pure, perché la purezza riguarda la forma (ed è comunicabile universalmente). Dunque, con uno
strano ossimoro, si ammette che esistono materie che sono anche forme e che un colore può anche
essere bello, ma non in quanto si badi alla materia cromatica in quanto tale, bensì al suo carattere di
purezza, ossia a quel lato per il quale esso partecipa dell’elemento formale. Sennonché parlare di
“sensazione di colore”, anziché di “colore” sic et simpliciter, accresce le difficoltà: se è ancora
ammissibile parlare di sensazione (empirica e materiale) di un colore puro, è impossibile parlare di
sensazione pura di un colore, giacché la sensazione è per definizione empirica41. Occorre tuttavia
ricordare a questo punto che Kant aveva già operato un passo in direzione del conferimento di una
certa quale oggettività alla sensazione e che l’oggettività presuppone, se non proprio che la struttura
coinvolta sia pura e a priori, che essa si collochi quanto meno dal lato di qualcosa che sia puro e a
priori. In quell’occasione questo qualcosa era lo spazio; ma nella III Critica la teoria della
conoscenza fenomenica della I Critica cede il posto ad una considerazione dell’oggetto come più
autonomo, e pertanto si può ipotizzare una maggiore attenzione alle evidenze sperimentali in quanto
tali. Di conseguenza, si potrebbe supporre che, per Kant, una sensazione cromatica sia “pura”
quando abbia per correlato oggettuale uno dei colori appartenente allo spettro newtoniano, il quale
verrebbe in tal modo a fungere da modello per discriminare i colori assolutamente originari o – per
ricorrere ad un termine usato poco dopo nel testo – “semplici”42. In proposito è comunque d’obbligo
un’estrema cautela, giacché i rilievi di Kant sono talmente carenti dal punto di vista tecnico ed
Sulla possibilità di interpretare in senso semiotico-pragmatico la teoria kantiana dell’universalizzabilità del
giudizio di gusto, cfr. O. Meo, Il contesto, cit., pp. 90-99.
41
Si potrebbe essere tentati di supporre che Kant intenda qui per “pura” una sensazione isolata di colore la
quale faccia astrazione dal complesso delle sensazioni concomitanti, analoga per qualche aspetto all’arbitraria
rappresentazione cromatica intrasoggettiva, che prescinde dai contorni e assume pertanto le caratteristiche di una vaga
ed indefinita macchia. Non distratto dalla Gestalt e da altri fattori sensoriali, in questo caso il soggetto potrebbe
immergersi totalmente nella percezione del colore, concentrando su di esso tutta la sua attenzione, e, inevitabilmente, la
materia si trasformerebbe in forma di se stessa. Se le così stessero così, la distinzione in gioco sarebbe analoga a quella,
abituale nelle indagini psicologiche contemporanee sui fenomeni cromatici, fra colori “liberi” (le Flächenfarben degli
studiosi tedeschi) e colori appartenenti agli oggetti o “di superficie” o “locali” (le Oberflächenfarben). Sennonché mi
sembra francamente dubbio che Kant sarebbe stato disposto ad associare la purezza con la nebulosità, l’indefinitezza e
l’instabilità che caratterizzano i colori “liberi”.
42
E’ chiaro che, se così stanno le cose, i colori puri o semplici non sono quelli fondamentali né della sintesi
additiva né della sintesi sottrattiva.
40
45
imprecisi da quello terminologico da non consentire la formulazione di alcuna ipotesi
sufficientemente attendibile. In particolare, mal si concilia il principio – in seguito vigorosamente
sostenuto da Kant – della preminenza gestaltica e della conseguente determinatezza dei colori con
l’insensibile trapasso dell’uno nell’altro e con lo sfumato avvertibile quando si analizza
percettivamente lo spettro cromatico.
Non pago di aver radunato in poche righe una tal somma di complessi problemi teoretici ed
estetici, Kant ne imposta subito dopo un altro:
“Se si ammette con Eulero che i colori sono una sequenza di pulsazioni (pulsus) isocrone dell’etere,
così come i suoni sono pulsazioni acustiche dell’aria messa in vibrazione, e, ciò che più importa, che
l’animo non solo ne percepisce mediante il senso l’effetto sulla vitalità dell’organo, ma anche,
mediante la riflessione (del che non dubito affatto), il gioco regolare delle impressioni (e dunque la
forma nella connessione delle diverse rappresentazioni), colore e suono non sarebbero mere
sensazioni, ma già una determinazione formale dell’unità di un molteplice di esse e potrebbero perciò
essere annoverati anche per sé fra le bellezze”43.
Nel contesto specifico il riferimento alla scansione temporale, ossia ad una delle
determinazioni indispensabili alla costruzione di una conoscenza oggettiva e della scienza della
natura, assume particolare rilievo, giacché grazie ad esso la discussione assume un più marcato
carattere epistemologico Manca solo un passo, dopo questa importante osservazione e dopo
l’espressione della propria preferenza per la teoria ondulatoria della luce, perché Kant abbandoni la
concezione psicofisiologica e consideri i colori come fenomeni oggettivi causati dal passaggio della
luce in un mezzo elastico, ossia che consideri come una legge della natura il loro processo di
formazione. E un ulteriore contributo a questo passo, davvero decisivo, viene compiuto alla fine del
capoverso testé citato: in quanto determinazione formale dell’unità di un molteplice delle
sensazioni, si ammette che i colori e i suoni possano non essere soggettivi, ma oggettivi, e
obbediscano perciò agli stessi criteri epistemologici validi per tutti gli eventi oggettivi della natura.
43
KU, § 14, 224 (it. 68). Originariamente, Eulero aveva esposto le sue idee, sviluppando la teoria di Huygens,
nella Nova Theoria lucis et colorum del 1746. Le aveva poi riprese nelle Lettres à une princesse d’Allemagne del 17681772. Sulla ripresa delle tesi euleriane in KU cfr. P. Giordanetti, La fondazione matematica della musica nella Critica
del Giudizio di Kant: un aspetto della ricezione kantiana di Leonhard Euler, in AA.VV., Prospettive sull’estetica del
Settecento, a cura di E. Franzini, Cuem, Milano 1995, pp. 138-149. Come è noto, il passo riportato nel testo ha suscitato
parecchie perplessità, giacché l’inciso parentetico woran ich doch gar nicht zweifle (“del che non dubito affatto”)
compare solo a partire dalla III ed., quella del 1799, in sostituzione del precedente woran ich doch gar sehr zweifle, che
si può tradurre sia “del che dubito davvero moltissimo” sia “sulla qual cosa ho davvero moltissimi dubbi”. Si può cioè
intendere l’inciso originario come una decisa presa di posizione di Kant contro le conseguenze estetiche della teoria di
Eulero (lo si può interpretare cioè in senso “forte”) oppure come l’espressione di un dubbio autentico (e questa sarebbe
l’interpretazione “debole”). Come mostra persuasivamente W. Windelband nella lunga nota alle pp. 527-529 dell’ed.
dell’Accademia, la correzione, che fu operata sicuramente dal revisore del testo e non personalmente da Kant, concorda
comunque con altre affermazioni di quest’ultimo nella stessa KU. Certamente, però, come rilevano E. Garroni e H.
Hohenegger in una nota della loro trad. it. (I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, pp. 59-60),
quella del correttore è un’interpretazione e i dubbi non concernono affatto l’adesione di Kant alla teoria di Eulero, ben
documentata fin dalla Meditationum quarundarum de igne succincta delineatio del 1755. In considerazione
dell’andamento discontinuo della trattazione del problema in KU, proporrei di optare per l’interpretazione “debole”
dell’inciso originario, che indicherebbe pertanto l’ammissione da parte di Kant di una seria e sincera difficoltà nel
risolvere la complessa questione. In tal modo, si porrebbe forse finalmente rimedio all’annosa discussione.
46
Il fatto si è che, per legittimare una tale soluzione, non è sufficiente l’intervento delle intuizioni pure
a priori e la considerazione dei dati sensoriali; occorre il concorso dell’attività intellettuale. Ma,
poiché è inevitabile che questa strutturazione concettuale dell’intera materia sia presupposta da
Kant44, il risultato è la scissione della teoria del colore in due parti distinte: da un lato, sta la
considerazione teoretico-epistemologica, in base alla quale il colore, diventato anch’esso una sorta
di “cosa in sé in senso empirico”, è fenomeno di pertinenza della scienza della natura 45; dall’altro
lato, sta la considerazione estetica, che è ancora legata alla teoria gnoseologica della I Critica e in
base alla quale il colore continua ad essere situato dal lato della mera attrattiva soggettiva e non
trasmissibile. Per ottenere tale risultato non era sufficiente distinguere fra componente della
sensazione funzionale al soddisfacimento soggettivo e componente funzionale al riconoscimento
percettivo: questo Kant lo aveva già fatto, ma senza alcuna rilevante conseguenza sul piano della
determinazione ontologica del colore. Per contro, il concreto confronto con la ricerca scientifica richiama più utilmente la sua attenzione sulla parzialità della teoria psicofisiologica del colore,
giacché lo mette di fronte a quelle strutture che egli stesso aveva invocato come fondamentali nella
I Critica e lo costringe pertanto a modificare la sua posizione in prò di una maggiore coerenza
interna di tutto il sistema critico.
Occorre poi sottolineare che questo mutamento nella concezione del colore sul piano
teoretico ha un riflesso positivo sulla sua valutazione estetica: l’ordine e la rigorosa misura
riscontrabili nella pulsazione che genera colori e suoni non possono non suscitare l’idea che gli
armoniosi giochi cromatici e tonali abbiano una relazione profonda con l’armonia formale che
regge l’universo e, al pari di questo, seguano una rigorosa legge46. Una conferma della tendenza
inferibile dal passo viene dal capoverso immediatamente successivo:
”Ma la purezza di un tipo semplice di sensazione significa che la sua uniformità non è turbata ed
interrotta da nessuna sensazione eterogenea, e appartiene solo alla forma, perché si può astrarre qui
dalla qualità di quel tipo di sensazione (se essa rappresenti un colore, e quale, oppure un suono, e
quale). Per questo motivo tutti i colori semplici, in quanto sono puri, sono ritenuti belli; i misti non
hanno questo pregio, proprio perché, non essendo semplici, non si ha alcun criterio per giudicare se si
debba chiamarli puri o impuri”47.
Non è casuale che egli parli a questo proposito di “riflessione”.
La riflessione sulla teoria di Eulero avrebbe in sostanza condotto Kant a privilegiare la dimensione
propriamente epistemica rispetto al piano dell’esperienza fenomenica su cui, nel quadro dell’Analitica dei principi di
KrV, si collocavano le sue indagini sull’intensità della sensazione.
46
La coerenza con i principi estetici del rococò è evidente a chiunque rammenti l’analogia fra la fuga delle
stanze dipinte alternativamente in rosa e azzurro del padiglione di Amalienburg e la successione delle prime due note
della scala musicale. La tendenza rococò del gusto cromatico di Kant è comunque esplicita nella Refl. n. 870: “I colori
forti non sono così belli perché appartengono più alla sensazione che al fenomeno; essi debbono trapassare in un altro
colore prossimo, e per la precisione nell’intermedio [nell’inferiore]” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., pp. 382-383).
47
KU, § 14, 224-225 (it. 68). Cfr. pure § 53, 330 (it. 192), ove la pittura è definita “arte del disegno” e per
questo motivo è posta a fondamento delle altre arti figurative.
44
45
47
Se l’ipotesi formulata in precedenza è attendibile, per colori “puri” o “semplici” si
dovrebbero intendere quelli distinguibili nello spettro newtoniano in condizioni ottimali di
illuminazione, indipendentemente dal fatto che essi appaiano proiettati sullo schermo sperimentale
o siano percepiti come appartenenti ad un corpo. Comunque stiano le cose da questo punto di vista,
l’essenziale è che Kant ribadisce l’indissolubilità del binomio purezza-forma. Con il consueto
slittamento semantico, esso indica indubbiamente una caratteristica empirica dell’oggetto e non il
sistema delle condizioni a priori della possibilità dell’esperienza, ma – al tempo stesso – rinvia
inevitabilmente all’elemento formale-puro che sempre contrassegna l’unità di un molteplice
esperienziale: in questo caso, del molteplice costituito dalle successione delle onde luminose (o
sonore) di pari frequenza.
D’altro canto, poiché ipotizzare una configurazione cromatica (una materia che fosse di per
sé forma, insieme ordinato) costituirebbe pur sempre – per lo meno nell’esperienza quotidiana
abituale, anche se non in condizioni sperimentali controllate come quelle che consentono la
generazione dello spettro di Newton – una contraddizione in termini, ne scapita lo statuto estetico
dei pigmenti presenti sulla tavolozza o – più in generale – dei colori cosiddetti “di superficie” o
“locali”, che riempiono una figura e obbediscono alle esigenze da essa imposte:
“Nella pittura, nella scultura, e proprio in tutte le arti figurative, nell’architettura, nell’arte dei giardini,
in quanto sono arti belle, l’essenziale è il disegno, in cui non ciò che contenta nella sensazione, ma
soltanto ciò che piace per la sua forma costituisce il fondamento di ogni disposizione al gusto. I colori,
che alluminano il costrutto, appartengono all’attrattiva; essi possono sì vivificare l’oggetto in sé per la
sensazione, ma non renderlo degno dell’intuizione e bello: essi sono piuttosto il più delle volte molto
limitati da ciò che esige la bella forma e, perfino dove è ammessa l’attrattiva, sono nobilitati solo dalla
forma“48.
Sarebbe superfluo sottolineare che, conferendo l’assoluto primato alla costruzione della
Gestalt, Kant aderisce alla tradizione classicista che – rifacendosi alla Poetica di Aristotele –
propugna la tesi della superiorità del disegno, se questa manifestazione di conservatorismo estetico
non si rivelasse coerente con la concordanza con Locke sul tema delle qualità secondarie e non
costituisse in tal modo un residuo della posizione psicofisiologica della I Critica. I colori “rendono
più esattamente, precisamente e compiutamente intuitiva” la forma49. Ossia: il loro contributo alla
bellezza consiste nel fatto che, qualora siano puri (cioè – sembrerebbe di capire – saturi e di
48
KU, § 14, 225 (it. 69).
KU, § 14, 225-226 (it. 69-70). Secondo la tesi sostenuta da Georg Simmel in Rembrandt. Ein
kunstphilosophischer Versuch (trad. it. in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, Il Mulino, Bologna 1985, p. 179), Kant
privilegia la forma rispetto al colore perché il carattere prevalentemente “logico” dei suoi interessi andrebbe a scapito di
quello “psicologico” e di quello “metafisico”: la forma esibirebbe l’“idea astratta del fenomeno; per contro, il collocarsi
del colore dal lato della sensibilità sarebbe oggetto di più immediato apprezzamento, mentre il suo valore metafisico
consisterebbe nell’effetto “più profondo e misterioso” che esso produce. In realtà, così facendo, Simmel giustifica le tesi
di KU mediante il ricorso alla teoria dell’Estetica trasc. di KrV.
49
48
luminosità ottimale) o anche – afferma Kant con un accenno al problema del conseguimento del
miglior effetto gestaltico - variati o contrastanti, migliorano la percepibilità della forma50.
Nella riflessione successiva Kant riprende in considerazione la componente fisica del colore:
“Le attrattive della bella natura, che così spesso si incontrano in certo modo confuse con la bella
forma, appartengono o alle modificazioni luminose (nel colorito) o acustiche (nel suono). Infatti
queste sono le uniche sensazioni che non danno luogo soltanto ad un sentimento dei sensi, ma anche
ad una riflessione sulla forma di queste modificazioni dei sensi, e che contengono così in sé come un
linguaggio che la natura ci rivolge e che sembra avere un senso superiore. Così il colore bianco del
giglio sembra disporre l’animo all’idea dell’innocenza e, seguendo l’ordine dei sette colori, dal rosso
fino al viola: 1) all’idea della sublimità, 2) dell’ardimento, 3) della franchezza, 4) della cortesia, 5)
della modestia, 6) della costanza e 7) della delicatezza”51.
La formulazione con la quale Kant introduce il suo ragionamento ricorda quella della I ed.
della I Critica: dalla complicata costruzione sintattica e dall’abituale modo ellittico di esprimersi si
ricava che colori e suoni sono modificazioni dei sensi (ossia fenomeni psicofisiologici) che hanno
un’origine fisica. Per questo motivo è possibile riflettere sulla loro forma e considerarli come se
fossero un messaggio della natura, ossia – conformemente alla peculiare declinazione che il
concetto di “riflessione” assume nella III Critica – come se fossero espressione della finalità
soggettiva della natura corrispondente ad un nostro bisogno di unità sistematica. Soltanto se si tiene
presente quanto Kant chiarisce nell’Introduzione intorno alla funzione specifica del Giudizio
riflettente di operare in prò della riconduzione dei molteplici fenomeni e leggi della natura ad un
systema naturae, si può infatti comprendere il senso dell’uso, in questo luogo specifico, di termini
fortemente connotati in senso teleologico soggettivo come “forma” e “natura”, che rinviano
implicitamente alle precedenti considerazioni intorno al porsi dei colori come unità formale di un
molteplice esperienziale. Per quanto concerne poi l’interpretazione in chiave quasi semiotica del
cromatismo52, vi è da dire che essa è coerente con l’atmosfera generale del contesto in cui è inserita:
in questo stesso § 42 Kant non solo fa esplicito cenno al “linguaggio cifrato con il quale la natura ci
parla nelle sue forme belle”, ma – più in generale – abbozza una connessione fra gli ambiti
teleologico, morale e simbolico che appare conforme alla tesi, una delle più importanti della prima
parte della III Critica, secondo cui l’espressione estetica è nella sua essenza simbolica. In tal modo
Kant riesce a combinare qui il lato oggettivo, ossia il riconoscimento della validità della teoria
scientifica del colore (e non a caso il numero e la successione dei colori corrispondono a quelli
50
Sulla base di quanto è fin qui emerso, non mi pare sottoscrivibile il giudizio di L. Pareyson, secondo il quale
Kant “non prospetta nemmeno la possibilità” che le attrattive “possano essere, non dico legittimamente scambiate con la
bellezza, ma anche soltanto legittimamente incluse nella bellezza, come suo ingrediente. Kant presenta le attrattive
come giustapposte alla bellezza, e facilmente distinguibili da essa” (L’estetica di Kant. Lettura della “Critica del
Giudizio”, Mursia, Milano 1984, p. 106). Sull’uso ornamentale del colore e sulla funzione sociale dell’ornamento in
generale Kant si soffermerà in KU, § 41, 297 (it. 154-155).
51
KU, § 42, 302 (it. 159-160).
52
Sulla connessione fra “linguaggio” in senso lato (ossia fra “codice” o “sistema di opposizioni”) e forma nel
passo citato nel testo cfr. pure C. La Rocca, Forme et signe dans l’ethétique de Kant, in AA.VV., Kants Ästhetik –
Kant’s Aesthetics – L’esthétique de Kant, hrsg. v. H. Parret, De Gruyter, Berlin-Nw York 1998, p. 538.
49
individuati da Newton nello spettro, con l’aggiunta del bianco, ossia della loro somma nella sintesi
additiva)53, con quello soggettivo, ossia con l’apertura in direzione teleologico-metafisica suggerita
dalla concezione dell’arte e del bello in generale come simbolo della moralità. In qualche modo, i
colori assumono un valore analogo, e svolgono un ruolo analogo, a quello delle idee e degli attributi
estetici discussi nel § 49: anche quelli infatti sembrano esibire, sia pure in modo ancora più
inadeguato, indiretto ed ellittico di questi ultimi, i concetti della ragione nel fenomeno54. Se
considerata da questo punto di vista, l’enumerazione dei rapporti fra la scala cromatica di Newton e
i valori morali che rinviano al noumeno tiene, per così dire, luogo di deduzione di quelle
modificazioni sensoriali che sono i colori.
L’ultimo rilievo teoreticamente importante intorno ai fenomeni cromatici è inserito nel § 51,
dedicato alla suddivisione e alla gerarchia delle arti. Ivi l’“arte del bel gioco delle sensazioni” (ossia
la musica e il cromatismo) occupa il posto più basso55. Dalla contorta delucidazione che Kant offre
emergono diversi spunti problematici. In primo luogo, ritorna in gioco il tema delle quantità
intensive: tale arte
“non può riguardare se non la proporzione dei diversi gradi della disposizione (tensione) del senso cui
la sensazione appartiene, cioè il tono di questo senso”56.
Il riferimento, sia pure assai oscuro ed impreciso, al tema del continuo e delle variazioni
cromatiche e tonali (che chiama nuovamente in causa la temporalità, per altro expressis verbis
menzionata poco dopo) fa presagire che Kant voglia attribuire ora una rilevanza maggiore che in
precedenza alla questione della collocazione di colori e suoni nell’ambito della scienza della natura
e che, nuovamente, connetta colori e note al bello, anziché al meramente gradevole, proprio in virtù
di tale presupposto di carattere oggettivo presente nella loro produzione, oltre che in virtù della
presenza di precisi rapporti armonici nella musica e nel cromatismo. Ma che egli oscilli fortemente
fra le due soluzioni lo rivela il passaggio immediatamente successivo, in cui sostiene che non si può
decidere se il possesso di una sensibilità cromatica o musicale “abbia a fondamento il senso o la
riflessione”. A far pendere la bilancia in questa seconda direzione starebbe il fatto che esistono casi
di cecità per i colori e di assoluta incapacità di discriminare i suoni, pur in presenza di apparati
53
Il “newtonismo” di Kant in questo contesto è sottolineato, ma senza alcun accenno alla sua preferenza per la
teoria di Eulero, da M. Élie, op. cit., p. 91, nota 2. Si osservi inoltre che il passo in questione corrobora l’ipotesi
formulata in precedenza sull’identificazione dei colori puri o semplici con quelli spettrali. Alquanto diversa è l’origine
della correlazione fra numero dei colori e delle note secondo l’Aggiunta al § 39 di ApH (cfr. p. 194; trad. it., p. 81):
sarebbero state le credenze religiose intorno alle proprietà sacre del numero sette ad indurre gli uomini a conferire ad
esso un carattere di necessità fatale e di segno magico.
54
Sul concetto di “simbolo” in KU e sulla sua connessione con la tematica del sublime cfr. O. Meo, Il tragico
nell’estetica di Kant, cit.
55
Sui debiti storici della gerarchia istituita da Kant ha attirato l’attenzione E. Migliorini, Il paragrafo 51 della
Critica del giudizio: Batteux e Kant, in “Rivista di storia della filosofia”, 1984, pp. 283-291.
56
KU, § 51, 324 (it. 185).
50
sensoriali perfetti57. D’altro canto, però, Kant non può neppure porsi in aperta contraddizione con
quanto ha affermato fin dall’inizio dell’opera, ossia che il colore concerne esclusivamente
l’attrattiva e non vi è incluso il piacere per la forma. Quale sarà dunque la soluzione? Se si guarda
all’incapacità di cogliere analiticamente la scansione temporale della luce e del suono, ossia i fattori
empirici oggettivi su cui si basa la teoria ondulatoria (per la quale Kant mostra ancora una volta la
sua preferenza rispetto a quella corpuscolare di Newton)58, si dovranno collocare musica e
cromatismo da lato del gradevole. Se però si guarda alla possibilità di operare una scansione
analitica, ossia di procedere con il rigore matematico richiesto in ambito scientifico, allora è
giocoforza che intervenga la riflessione (ossia: le facoltà conoscitive, in senso del tutto vago) e che
– grazie alla scoperta delle leggi dell’armonia tanto cromatica quanto musicale – l’interesse si sposti
dal gradevole al bello. Ma a supporto dell’ipotesi che Kant propenda per quest’ultima soluzione, più
conforme per altro non solo all’impostazione teoretica generale del suo pensiero, ma anche alla
Stimmung specifica della III Critica (tutta tesa a rilevare il rapporto fra le facoltà e le dimensioni
“ontologiche” consentito da quel Mittelglied che il Giudizio riflettente rappresenta), si può addurre
la definizione iniziale della musica e del cromatismo come arte del bel gioco delle sensazioni e non
anche come arte delle sensazioni gradevoli. E ricordando che bellezza significa sempre in Kant
ordine gestaltico, proporzione fra le parti dell’oggetto, regolare misura59, potremmo ora chiederci:
che cosa può dare il senso dell’armoniosa disposizione, meglio della scoperta del rigoroso carattere
matematico della composizione cromatica e musicale, che è così conforme all’oggettiva legge di
natura consistente nella regolare frequenza delle onde luminose e sonore nell’etere60?
In virtù del progressivo conferimento di oggettività al colore, tende dunque ad attuarsi la sua
trasformazione da fenomeno gradevole a fenomeno bello, che – sul piano estetico – non si traduce
comunque in presa d’atto dei limiti della tradizionale teoria dell’assoluta supremazia del disegno.
Tuttavia, proprio grazie a questa tendenziale collocazione del colore dal lato degli eventi oggettivi
57
Gli esempi su cui Kant basa la sua affermazione sono menzionati nella lettera a C.F. Hellwag del 3 genn.
1791 (in Kant’s ges. Schriften, Bd. XI, De Gruyter, Berlin 1922, n. 461, pp. 244-247; trad. it. in Epistolario filosofico
(1761-1800), a cura di O. Meo, Il melangolo, Genova 1990, pp. 248-255). Hellwag fu sicuramente il primo a rilevare le
difficoltà provocate dal contrasto fra la definizione di musica e cromatismo come bel gioco di sensazioni e come gioco
di sensazioni gradevoli (cfr. la sua lettera a Kant del 13 dic. 1790, n. 460). Vi è poi da aggiungere che nella sua risposta
Kant non si soffermò affatto sul tentativo di soluzione proposto da Hellwag, e, come si sa, i suoi silenzi su punti spinosi
della dottrina sono più eloquenti delle giustificazioni esplicite.
58
Conforme a Newton è tuttavia la tesi dell’analogia fra divisione dei colori e divisione delle note musicali.
Nella sua lettera Hellwag cita altri due notevoli precursori: Athanasius Kircher (autore nel 1646 di una Ars magna lucis
et umbrae e apprezzatissimo da Goethe per la sua definizione del colore come lumen opacatum) e Louis Bertrand
Castell (che inventò un pianoforte cromatico e pubblicò nel 1740 L’optique des couleurs).
59
All’affinità fra musica e cromatismo come “gioco regolare di sensazioni” Kant accenna pure nel § 18 di ApH
(p. 155; trad. it., p. 40). Il passo è molto interessante sotto il profilo semiotico, perché connette, sia pure oscuramente ed
imprecisamente, il carattere di gioco aconcettuale delle due arti e il fungere di note e colori come veicolo di
“comunicazione dei sentimenti a distanza” con l’arbitrarietà del segno.
60
Limitatamente alla musica, cfr. pure KU, § 53, p. 329 (trad. it., p. 190): l’accordo proporzionato dei suoni è
riconducibile a regole matematiche in quanto poggia su rapporti quantitativi delle vibrazioni dell’aria.
51
di natura, si possono considerare le frammentarie osservazioni di Kant come tappe del cammino che
egli sta percorrendo in direzione del reperimento di un principio a priori che funga da fondamento
trascendentale, ma che al tempo stesso abbia una validità esplicativa riconosciuta dalla comunità
scientifica. In sostanza, poiché, nell’estremo tentativo di costruire il sistema della fisica costituito
dalle pagine sparse dell’Opus postumum61, questo principio capace di collegare come Mittelglied il
piano delle condizioni a priori con il piano epistemico è da lui individuato per l’appunto nell’etere62
(ossia in quel mezzo elastico ipotizzato dai fisici che consentirebbe a luce e suono di propagarsi e di
sviluppare in tal modo il loro gioco) l’analisi della struttura del colore e del suono sembra inserirsi
con perfetta coerenza, sia pure con le cautele richieste dalla mancanza di organicità delle riflessioni
di Kant, nel suo estremo tentativo di attuare il “passaggio dai principi metafisici della fisica alla
fisica”.
61
Spetta a G. Lehmann (Kants Nachlaßwerk und die Kritik der Urteilskraft, in Beiträge zur Geschichte und
Interpretation der Philosophie Kants, De Gruyter, Berlin 1969, pp. 295-373) il merito di aver richiamato l’attenzione
sulle profonde connessioni fra KU e l’Opus postumum. Sui complicati problemi interpretativi (anche testuali) posti da
quest’ultimo lavoro kantiano cfr. V. Mathieu, La Filosofia trascendentale e l’“Opus postumum” di Kant, Edizioni di
“Filosofia”, Torino 1958.
62
Come è noto (cfr. l’Introduzione di V. Mathieu alla trad. it. da lui curata dell’Opus postumum, Zanichelli,
Bologna 1963, p. 31), l’oscillazione dell’ultimo Kant fra la preferenza per l’etere e quella per il calorico indica
un’incertezza terminologica più che sostanziale. In uno degli scarni accenni al problema del colore contenuti negli
appunti dell’ultimissimo Kant, il “calore come materiale [Stoff]” è contrapposto, in quanto unità al pari dello spazio (e
dunque in quanto trascendentale e a priori), alla luce, che - con chiara risonanza newtoniana - risulta qualitativamente
scomponibile in una pluralità: i colori, appunto (cfr. Kant’s ges. Schriften, Bd. XXI, De Gruyter, Berlin 1936, p. 93;
trad. it., p. 370). Come si può facilmente constatare da questa e da un’altra annotazione in cui, dopo aver accostato il
“gioco dei colori” alla musica e al canto, Kant menziona la luce, la distinzione fra actus continuus e interruptus nonché
Newton (ibid., p. 68), il suo interesse si è ormai spostato decisamente verso le questioni più strettamente
epistemologiche e dunque verso il lato dell’oggettività. Occorre comunque aggiungere che in altri pensieri sparsi dello
stesso torno di tempo viene tenuto saldo il fondamento gnoseologico di KrV: la luce, ossia l’elemento oggettivo,
presuppone il vedere, ossia l’elemento soggettivo (cfr. per es. ibid., pp. 24 [trad. it., p. 350] e 69).
52
III
VERITA’ LOGICA E LOGICA DELLA VERITA’
Secondo Ernst Cassirer, il “problema” di Kant in relazione alla teoria della verità è il
seguente:
“Come è possibile, nonostante la finitezza che proprio Kant ha messo in luce, che ci siano verità
universali e necessarie? Come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Ossia giudizi che nel loro
contenuto non sono unicamente finiti, ma universalmente necessari?”1.
In tal modo Cassirer fa coincidere assai opportunamente le riflessioni kantiane intorno alla verità
con il problema fondamentale della I Critica intesa come teoria generale della conoscenza. In
effetti, il suo giudizio appare giustificato qualora si conceda il valore di un’affermazione di
principio dotata di fondamento alla dichiarazione del § IV dell’Introd. alla Logica trascendentale
secondo cui l’Analitica trascendentale (s’intende: nel suo complesso) è “una logica della verità”2.
In questo caso, infatti, si attribuisce effettivamente al sistema delle strutture a priori della
conoscenza nel loro complesso l’universalità e la necessità che si esigono per una teoria esplicativa
generale dell’esperienza, sia dal punto di vista gnoseologico sia da quello epistemologico; ossia si
concepisce il sistema come un orizzonte tale, da garantire valore nomologico ai giudizi sintetici a
priori. Perché Kant fa una dichiarazione così impegnativa sotto il profilo logico, gnoseologico e
ontologico-metafisico? Perché si compromette fino a sottoporre imprudentemente a giudizio globale
il sistema dei fondamenti a priori della conoscenza, quasi che fosse possibile collocarsi al di fuori
di esso e abbracciarlo a volo d’uccello, varcando il limite di demarcazione assoluto che egli stesso
ha fissato al conoscere? Quale è, in sostanza, il suo obiettivo e quali ne sono le premesse logicoepistemologiche? Per rispondere a queste domande, è indispensabile addentrarsi nei meandri
dell’analisi dei passaggi testuali in cui Kant discute expressis verbis il concetto di “verità”.
1- La “definizione nominale” di verità.
Il punto di partenza per l’analisi è costituito dal § III della già citata Introd. alla Logica
trascendentale, su cui l’attenzione di alcuni interpreti si è a torto esclusivamente appuntata. Come
ricorda Gerold Prauss in un articolo non privo di qualche eccesso di zelo filologico, nessuno dei
lettori “storici” della I Critica, da Hegel a Heidegger, passando per Brentano, ha mai messo in
dubbio che Kant desse per “ammessa e presupposta” nella sua opera la concezione della verità
come adaequatio intellectus et rei3. Soprattutto in area angloamericana si è per contro diffusa l’idea
1
Cassirer fece questa osservazione nel 1929 durante la Davos Disputation con Heidegger (trad. it. in M.
Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 222).
2
KrV A 55/ B 82 (it. 101).
3
Cfr. G. Prauss, Zum Wahrheitsproblem bei Kant, in “Kant-Studien”, 1969, p. 167.
53
che Kant non si limiti affatto ad accogliere acriticamente la vecchia prospettiva corrispondentista,
ma propenda piuttosto (non importa se consapevolmente o inconsapevolmente) per una teoria
coerentista della verità. Tale interpretazione fa leva sul principio fondamentale della fenomenicità
della conoscenza e si presenta in due varianti principali: la prima, più diretta, afferma il coerentismo
di Kant sulla base della tesi del reciproco sostegno fra strutture cognitive e oggetti esperienziali in
funzione della costruzione di giudizi sintetici a priori4; la seconda, più indiretta, nega il
corrispondentismo di Kant sulla base della tesi dell’assoluta inaccessibilità della cosa in sé alla
conoscenza finita5. Come stanno veramente le cose? Kant inizia il suo discorso ricordando che con
la domanda “che cosa è la verità?” si credeva in antico di mettere in imbarazzo i logici, in modo da
costringerli a cadere in un “misero diallelo [Diallele]” o da convincerli a riconoscere la propria
ignoranza, non minore per altro di quella degli stessi interroganti, ossia degli scettici. A questo
punto segue la frase che costituisce l’oggetto preferito delle attenzioni degli interpreti:
“La definizione nominale [Namenerklärung] della verità, ossia che essa sia la concordanza
[Übereinstimmung] della conoscenza con il suo oggetto, è qui ammessa e presupposta” 6.
Ora, senza entrare nel merito delle sottili argomentazioni linguistiche e grammaticali con cui
Prauss si sforza di mostrare che in realtà l’avv. “qui” ha valore temporale e non locativo e che si
riferisce perciò alle antiche discussioni fra scettici e dogmatici e non al contesto della Critica7, si
può senz’altro convenire che Kant non è soddisfatto della sola “definizione nominale”. Subito dopo,
egli aggiunge infatti che quello che davvero si esige (o, seguendo Prauss, che gli scettici esigevano)
Cfr. a questo proposito N.K. Smith, A Commentary to Kant’s “Critique of pure Reason”, Humanities Press
International, Atlantic Highlands (NJ) 1992 (rist. dell’ed. London 1923), pp. XXXVI-XXXIX e 36-37: poiché sono
sintetici a priori, i principi fondamentali dell’esperienza non possono essere fondati né sull’autoevidenza né
sull’induzione; l’unica soluzione possibile è che essi si autoconfermino mediante la loro capacità di dar conto dei
fenomeni e che questi ultimi siano conformi ai principi. Così facendo, Smith centra a suo modo il problema che, come
si vedrà, anche Kant pone esplicitamente: quello della circolarità della verità.
5
Così, per es., si esprime N. Rescher: “In considerazione della pesante ombra gettata sulla concezione della
adaequatio intellectus et rei dalla critica scettica di Kant alla cosa in sé, non è sorprendente che la tradizione filosofica
postkantiana abbia cercato la propria teoria della verità altrove che nella corrispondenza” (Die Kriterien der Wahrheit,
in AA.VV., Wahrheitstheorien, hrsg. v. G. Skirbekk, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1980, p. 346). A questa posizione si può
affiancare quella di H. Putnam, Reason, Truth and History, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1985, p. 72: Kant potrebbe
essere considerato un sostenitore della teoria della verità come corrispondenza se pensasse ad una rassomiglianza diretta
fra le nostre rappresentazioni e le cose in sé e/o sostenesse un “isomorfismo astratto” fra i fenomeni e i noumeni. Si
potrebbe obiettare però che, oltre a questo corrispondentismo forte o radicale, che Putnam considera caratteristico dei
“realisti metafisici”, è possibile ipotizzarne un altro, più debole, in cui l’adaequatio sussista fra i giudizi e le cose in
quanto fenomeni. Da questo punto di vista, si potrebbe sostenere che la posizione di Kant implica una doppia teoria
della verità come corrispondenza: la prima, metafisica, relativa al rapporto con le cose in sé; la seconda, critica, relativa
alla conoscenza dei fenomeni.
6
KrV A 52/B 79 (it. 98). La terminologia qui usata mostra che Kant ha presente la duplice valenza logica e
grammaticale del greco dia/llhloj (sott. tro/poj), che assume sia il significato di “circolo vizioso” sia quello di
“definizione nominale” o “esplicitazione verbale”. Per quanto concerne la trad. it. del termine Diallele, lo scrupolo
filologico mi induce a preferire il masch. “diallèlo”, attestato nei vocabolari della lingua italiana, rispetto alla forma
“diallele” (per lo più al femm.), riportata nelle versioni italiane di Kant e nei lessici filosofici.
7
L’interpretazione di Prauss è stata contestata da H. Wagner, Zu Kants Auffassung bezüglich des Verhältnisses
zwischen Formal- und Transzendentallogik. Kritik der reinen Vernunft A 57-64/B 82-88., in “Kant-Studien”, 1977, pp.
71-76.
4
54
di sapere è “quale sia il criterio universale e sicuro della verità di ogni conoscenza”. Dato per
scontato che, nella sua tradizionale formulazione, la risposta alla domanda “che cosa è la verità?”
sia quella che così poco piaceva agli scettici e che si risolveva in un diallelo, il problema è
propriamente procurare un fondamento alla definizione nominale mediante quella che, conservando
i termini della scuola leibniziana, potremmo chiamare la definizione reale della verità; in altre
parole, si tratta di stabilire non quale sia l’essenza della verità (questione per altro poco consona allo
spirito della Critica), ma quali siano le condizioni della sua possibilità. Per questa ragione si può
concludere con Cassirer che la domanda intorno alla verità coincide con il senso stesso dell’impresa
critica, i cui presupposti universali e necessari sono fissati nell’Analitica trascendentale: stabilire le
condizioni a priori della possibilità della verità equivale a stabilire quali siano le condizioni a priori
della possibilità della conoscenza in generale, dal momento che – come Kant non si stanca mai di
ripetere – essa è tale soltanto in rapporto ad oggetti esperienziali. E’ evidente, dunque, che si
presenta implicitamente qui un riferimento alla domanda che significativamente Kant pone come
centrale nell’Introd. generale all’opera: “come sono possibili giudizi sintetici a priori?”. Ma per
quale ragione la vecchia definizione nei termini dell’adaequatio non è sufficiente? E come si può
davvero stabilire un “criterio universale e sicuro” della verità?
Per rispondere alla prima domanda, occorre innanzitutto vedere in che consista il “diallelo”
rimproverato dagli scettici ai logici, cui sarebbe forse più pertinente aggiungere l’attributo
“dogmatici” o “scolastici”. Un’indicazione esplicita ce la fornisce il § VII dell’Introd. alla Logik,
dove, più chiaramente che nella Critica, la domanda “che cosa è la verità?” significa
“se e in quale misura vi sia un criterio della verità sicuro, universale ed utilizzabile
nell’applicazione”8.
Il circolo sorge, sostiene qui Kant, perché io posso confrontare l’oggetto con la conoscenza solo per
il fatto che lo conosco. Dunque la mia conoscenza deve confermarsi da sé. Ma ciò non è sufficiente
per stabilire la verità: poiché l’oggetto è fuori di me e la conoscenza è in me, posso giudicare
soltanto se la mia conoscenza dell’oggetto concorda con la mia conoscenza dell’oggetto 9. E’ noto
come Hegel abbia rivolto allo stesso Kant l’accusa di non essere in grado di uscire dalla soggettività
con la sua ricerca di un fundamentum inconcussum e di non approdare a nulla con la sua pretesa di
chiarire il metodo prima di applicarlo. Se a questa obiezione affianchiamo il paradosso rilevato da
Cassirer, sembra lecito nutrire qualche dubbio sulla buona riuscita dell’impresa critica: a Kant
8
Logik, p. 50 (trad. it., p. 44).
Cfr. pure la Reflexion n. 2143, in Kant’s gesammelte Schriften, Bd. XVI, De Gruyter, Berlin 1924, p. 251: “Il
mio giudizio deve concordare con l’oggetto. Ora, posso confrontare l’oggetto con la mia conoscenza solo per il fatto
che lo conosco. Diallelo”.
9
55
l’oggettività dell’oggetto sarebbe sempre sfuggita e alla pretesa fondazione trascendentale della
conoscenza sarebbe possibile muovere la stessa accusa degli scettici ai logici dogmatici 10.
In realtà, sul piano logico, il vizio rilevato da Kant è soltanto uno dei problemi posti dalla
definizione della verità come adaequatio. A complicare ulteriormente le cose interviene, nella sua
stessa formulazione della teoria corrispondentista, la confusione fra due accezioni diverse del
termine “conoscenza”, che significa talora “giudizio” e talora “sapere”: esiste un’evidente
differenza fra proferire l’enunciato (asserire che) ‘s è p’ e sapere che s è p. Indipendentemente da
ciò, è chiaro che Kant si è bene avveduto almeno di alcune delle difficoltà logiche connesse con il
concetto di verità: la sua insistenza sulla necessità del reperimento di un “criterio” sicuro della
verità costituirebbe una sorta di exhortatio rivolta a se stesso e la menzione del diallelo avrebbe la
funzione di una sorta di promemoria del pericolo da evitare11. Il fatto è che egli questo “criterio”
pensa proprio di averlo trovato e di differenziarsi in tal modo sia dai logici dogmatici sia dagli
scettici. In tal modo, un chiaro legame unisce queste considerazioni introduttive sul problema della
verità alla Confutazione dell’idealismo inserita nel corpus della II ed. della Critica, allorché egli si
preoccuperà di superare lo scetticismo intorno alla realtà dell’esistenza degli oggetti fuori di noi
imputato a Cartesio, ossia di colmare lo iato fra conoscenza dell’esterno e conoscenza dell’interno,
conformemente all’intento generale della sua gnoseologia, che non è certo quello di ridurre il
fenomeno al noema di una noesis o al positum di un ponere. In attesa di precisare meglio i caratteri
dell’indagine sulla verità compiuta da Kant nel corso del confronto che in diverse riprese egli ebbe
con l’idealismo nelle sue varie versioni, si può fin d’ora anticipare che l’errore di Cartesio (ossia
dell’idealismo cosiddetto “problematico”) consiste nel presupporre necessariamente ciò che intende
dimostrare, ossia che è impossibile accertare inconfutabilmente la realtà degli oggetti esterni. Ciò,
perché un tale idealismo intriso di scetticismo presuppone che la conoscenza sia qualcosa di
meramente interno al soggetto, e – muovendo da un tale presupposto – è assolutamente impossibile
provare qualsiasi cosa che stia al di fuori di esso. Per realizzare un tale obiettivo, occorrerebbe che
il soggetto potesse proiettarsi letteralmente fuori di sé oppure introiettare materialmente l’oggetto. Il
che è per principio assurdo. In realtà, secondo Kant, ciò di cui l’idealismo à la Cartesio non tiene
10
In realtà, la versione kantiana del diallelo costituisce un accomodamento della più generale formulazione
concernente il problema criteriologico reperibile in Sesto Empirico, che costituisce la sua fonte diretta. Su questi aspetti
storico-filosofici cfr. G. Schulz, Veritas est adaequatio intellectus et rei. Untersuchungen zur Wahrheitslehre des
Thomas von Aquin und zur Kritik Kants an einem überlieferten Wahrheitsbegriff, Brill, Leiden 1993, pp. 115-118.
11
Ciò giustificherebbe l’ipotesi di Prauss, secondo il quale la domanda “che cosa è la verità?” Kant la rivolge
più a se stesso che ai logici dogmatici. Tuttavia, come ho già rilevato, Kant non è affatto interessato a stabilire l’essenza
della verità: la sua preoccupazione è piuttosto quella di stabilirne la possibilità (o meglio: le condizioni della
possibilità), ossia di darne appunto una definizione reale. Secondo H. Schnädelbach (Thesen über Geltung und
Wahrheit, in AA.VV., Gedankenzeichen. Festschrift für K. Oehler, Stauffenburg, Tübingen 1988, p. 103), la
trasformazione della domanda intorno all’essenza in domanda intorno ai criteri indica il fondamentale orientamento
“normativo” di Kant e il suo interesse per il problema della “validità” più che per quello della verità, ossia il passaggio da
una logica dei predicati ad un posto ad una logica dei predicati a tre posti.
56
conto è che l’esperienza interna e la conoscenza, per essere tali, presuppongono un’esperienza
esterna, possibile soltanto in virtù del senso esterno e della sua forma: lo spazio. In mancanza di
ciò, la presunta conoscenza dell’oggetto esterno è soltanto una rappresentazione soggettiva, che –
in quanto tale – è insufficiente a provare l’esistenza reale di alcunché. In conclusione, il criterio
cartesiano, quello dell’assoluta indubitabilità del cogito come fundamentum inconcussum, non gode
affatto di forza probatoria e non riesce affatto a sollevarsi dal diallelo.
Che la questione del criterio sia per Kant quella centrale lo mostra la riflessione
immediatamente successiva a quella storico-teoretica con cui inizia il § III dell’Introd. alla Logica
trascendentale. La domanda intorno all’essenza della verità “è assurda e richiede risposte inutili”12.
Ci si chiede: la domanda è assurda perché è ovvia e perché scontata è la risposta, oppure perché
costringe l’interrogato a cadere in un circolo vizioso? Secondo Prauss, la domanda è assurda perché
è posta alla persona sbagliata: al logico formale anziché al logico trascendentale13, il quale –
evidentemente si suppone – saprebbe bene come rispondere. In realtà, però, come mostrano anche
altri luoghi della Critica in cui è riaffermata la validità della concezione della verità come
adaequatio, Kant non vuole dire che la definizione nominale è sbagliata e che totalmente altra è
l’essenza della verità. Anche se di fatto, come si vedrà, la definizione nominale copre soltanto una
parte (e non certo quella fondamentale) del campo semantico del concetto di verità, Kant non la
mette mai davvero in discussione14; né può farlo, considerato che il suo obiettivo fondamentale,
quello di legittimare la validità della conoscenza scientifica, non può essere realizzato con gli
strumenti della logica intensionale di Leibniz, ma esige l’adozione del criterio estensionale.
Sottolineando l’incongruità della domanda e l’inutilità della risposta, Kant vuole soltanto dire che
né il logico dogmatico né lo scettico sono in grado di soddisfare i requisiti per il reperimento di quel
criterio di cui si va in cerca e che solo garantisce il possesso definitivo della verità; si intende:
rimanendo entro l’orizzonte all’interno del quale è concesso all’uomo esercitare il controllo sulle
proprie operazioni mentali, entro l’orizzonte cioè della metafisica intesa come “scienza dei limiti
dell’umana ragione”.
Se, per quanto concerne la posizione dello scettico, possiamo riferirci utilmente alla
Confutazione dell’idealismo della II ed. della Critica e ad altri luoghi con essa collegati, la
dimostrazione dell’inefficacia del criterio del logico dogmatico (ossia dell’irrealizzabilità delle sue
pretese olistiche) Kant la dà in questo stesso contesto. Due sono i passi del suo ragionamento. Il
12
KrV B 79 (it. 98).
Cfr. G. Prauss, op. cit., p. 170.
14
Cfr. in proposito anche la perentoria affermazione reperibile in una riflessione rapsodica in tema di
“semantica trascendentale” appartenente alla collezione Kiesewetter (la Refl. n. 5663, sicuramente posteriore a KrV B e
pubblicata originariamente con il titolo Sul significato formale e materiale di alcune parole): “Verità al singolare (usato
13
57
primo consiste nel negare che vi sia un criterio universale della verità per quanto concerne la sua
materia. Nel tentativo di dimostrarlo si insinua infatti una contraddizione:
“Se la verità consiste nella concordanza di una conoscenza con il suo oggetto, per ciò stesso questo
oggetto dev’essere distinto dagli altri; infatti una conoscenza è falsa se non concorda con l’oggetto cui
si riferisce, sebbene contenga qualcosa che potrebbe magari valere per altri oggetti. Ora, un criterio
universale della verità sarebbe quello che fosse valido per tutte le conoscenze, senza distinzione dei
loro oggetti. E’ tuttavia chiaro che, poiché si astrae in esso da ogni contenuto della conoscenza
(riferimento al suo oggetto) e poiché la verità riguarda proprio questo contenuto, è affatto impossibile
ed assurdo andare in cerca di una marca della verità di questo contenuto delle conoscenze, ed è
dunque chiaro che è impossibile addurre un contrassegno sufficiente e tuttavia al tempo stesso
universale della verità. Poiché sopra abbiamo già chiamato il contenuto di una conoscenza la materia
di essa, si dovrà dire: non si può pretendere un contrassegno universale della verità della conoscenza
quanto alla materia, poiché ciò è in se stesso contraddittorio”15.
In altri termini: coerentemente con l’assunto secondo cui conoscere è giudicare, e il giudicare
consiste nell’attività di distinguere e comparare, conoscere presuppone un criterio di
differenziazione. Asserire che non esiste un criterio universalmente valido di verità significa dunque
che la questione della verità va decisa caso per caso, in relazione ai singoli oggetti cui ci si riferisce
nel giudizio conoscitivo. Con l’introduzione di questo criterio finito di verità è già ampiamente
prefigurato il ruolo dell’Analitica trascendentale, che avrà il compito di stabilire quali sono le
condizioni di possibilità della conoscenza in relazione alla concreta esperienza, cioè in funzione
gnoseologica ed epistemologica. Ma sono anche prefigurati la polemica contro lo Schein
dell’Introd. alla Dialettica trascendentale e, più in generale, il ruolo della Dialettica trascendentale
nel suo complesso, che è quello di delimitare le pretese conoscitive della ragione in relazione ad
alcuni determinati “oggetti”: vi si accerterà infatti proprio quanto Kant qui sostiene, ossia che la
conoscenza a noi possibile contiene “qualcosa” che vale per oggetti diversi da quelli noumenici, in
relazione ai quali essa si rivela fallimentare.
Di pari impegno logico-ontologico è il secondo passo del ragionamento kantiano,
concernente la forma della conoscenza e dunque l’esposizione della validità formale dei criteri di
verità:
“Ma per ciò che concerne la conoscenza quanto alla mera forma (mettendo da parte ogni contenuto), è
parimenti chiaro che una logica, in quanto espone le regole universali e necessarie dell’intelletto,
proprio in queste regole deve esibire criteri della verità. Infatti ciò che le contraddice è falso, poiché
l’intelletto contrasta allora con le sue regole generali del pensiero, e perciò con se stesso. Ma questi
criteri concernono solo la forma della verità, cioè del pensiero in generale, e sono dunque affatto
corretti, ma non sufficienti. Infatti, sebbene una conoscenza possa essere perfettamente conforme alla
forma logica, cioè non contraddica se stessa, nondimeno essa può sempre contraddire l’oggetto.
Dunque il criterio meramente logico della verità, ossia la concordanza di una conoscenza con le leggi
generali e formali dell’intelletto e della ragione, è bensì la conditio sine qua non, dunque la condizione
negativa della verità; ma la logica non può andare oltre, e non può scoprire mediante alcuna pietra di
paragone l’errore che non colpisca la forma, ma il contenuto” 16.
formaliter e qualitative) è la concordanza della nostra conoscenza di un oggetto con esso; verità al plurale (usato
materialiter e quantitative) sono le proposizioni vere” (Kant’s ges. Schriften, cit., Bd. XVIII, 1928, p. 323).
15
KrV A 52-53/B 79 (it. 99).
16
KrV A 53/B 80 (it. 99).
58
Con ciò sono fissati i limiti rigorosi che una logica formale non può assolutamente varcare. La
condizione di cui parla Kant vale, secondo la lezione di Leibniz, per qualsiasi intelletto in generale
(sia esso finito o infinito), indipendentemente dal contenuto cui si applica la conoscenza (e dunque
cui si applica il giudizio teoretico), ed è senza dubbio analitica, giacché definisce a priori la
situazione del nostro intelletto, ne è costitutiva. Ma sappiamo bene che Kant guarda con sospetto la
dimensione meramente analitica del conoscere. Da questo punto di vista, le sue considerazioni
fanno da pendant a quelle intorno all’insufficienza del sapere universale e necessario garantito dai
giudizi analitici a priori. Ma la critica all’analiticità della logica formale (e dunque la critica a
Leibniz e alla scolastica leibniziana) costituisce soltanto uno degli aspetti dell’opposizione di Kant
nei confronti della tradizione. Vi è, implicita fra le righe del discorso, una più sottile venatura
polemica, che intende colpire, attraverso l’impianto logico della scolastica leibniziana, la sua
ontologia. Da un lato, il mero “criterio logico della verità” (ossia la concordanza di una conoscenza
con le leggi universali e formali di intelletto e ragione) rinvia alla tradizionale dottrina dei
“trascendentali”, che – come si vedrà più avanti – Kant criticherà esplicitamente nel § 12 della II ed.
della Critica, senza tuttavia riuscire definitivamente a liberarsene. Dall’altro lato, sul principio di
contraddizione si fonda – come è noto – il concetto leibniziano di possibile, il quale costituisce a
sua volta la base per la prova ontologica. Ma basando la sua versione della prova ontologica sulla
mera possibilità logica, identificando cioè il possibile con ciò la cui esistenza non implica
contraddizione, Leibniz non esce in realtà dalla sfera della “forma”. L’esame del criterio logico
della verità serve dunque a Kant per contestare la definizione reale nel senso leibniziano del
termine. Per Leibniz la definizione nominale è l’enumerazione dei caratteri di un’idea, è un
aggregatum notarum che consente di distinguere il definitum da tutto il resto; alla definizione reale
corrisponde per contro una conoscenza adeguata. E ciò implica la possibilità a priori, perché il
conseguimento di una conoscenza adeguata presuppone che si sia condotta l’analisi del concetto
fino alla fine senza incontrare contraddizioni (la cui assenza costituisce per l’appunto la possibilità).
Un’idea è in sostanza adeguata quando è interamente risolta nei suoi elementi semplici; ed è allora
vera, cioè non contraddittoria. E poiché non contraddittorio equivale a possibile, “vero” in questo
senso non significa nulla più che possibile nel senso logico. Ma se stabilire la verità (di un concetto
o di un enunciato) significa risalire al suo fondamento assoluto, ossia al principio di identitàcontraddizione, essa risulta alla fin fine determinata dalla natura logica dei termini analizzati. Detto
altrimenti: la verità è già sempre insita in essi, in modo tale che ogni dimostrazione si può ridurre a
definizione, giacché è sufficiente analizzare i termini per scoprirla. In tal modo, si istituisce una
stretta relazione fra la teoria della verità e il principio fondamentale della logica di Leibniz:
praedicatum inest subjecto. La conseguenza è ovvia: ogni conoscenza è, de jure e de facto,
59
analitica17. Ora, Kant non può certo condividere una concezione come questa, per la quale tutte le
verità (sia quelle di ragione sia quelle di fatto) sono dimostrabili a priori, ossia si risolvono in
identità.
E’ chiaro che la conoscenza vera sul piano logico formale, consistente proprio in una
dimostrazione fondata sull’analisi dei termini, non è altro che una conoscenza non
autocontraddittoria e, in quanto tale, coincidente con la “consistenza” nel senso che i logici danno al
termine, ossia con la coerenza18. Come si vedrà, Kant non respinge questo risultato, ma nemmeno
giudica esaustivo il criterio della coerenza. E ciò proprio in nome della definizione reale di verità.
Come egli stesso chiarisce nella I ed. della Critica in una nota del capitolo sul “fondamento della
distinzione di tutti gli oggetti in generale in phaenomena e noumena”, mentre la definizione
nominale sostituisce al nome di una cosa altre e più comprensibili parole, la definizione reale
“contiene in sé una chiara nota, grazie a cui l’oggetto (definitum) possa essere sempre riconosciuto
con sicurezza, e che renda utilizzabile il concetto definito in vista dell’applicazione. La definizione
reale sarebbe dunque quella che chiarisce non soltanto un concetto, ma al tempo stesso la sua realtà
oggettiva. Le definizioni matematiche, che esibiscono nell’intuizione l’oggetto conformemente al
concetto, sono di quest’ultima specie”19.
La definizione reale si identifica cioè con quella che Wolff chiamava definitio genetica e che
chiariva con un esempio ricorrente anche in Kant: la costruzione del cerchio mediante la rotazione
di una linea intorno ad un punto fisso20. Ora, come si è visto, poiché si fonda sul principio di
contraddizione, il criterio logico (universale e necessario) non è in grado di fornire questa
definizione reale né dell’oggetto né della verità, giacché – come mostra il primo passo del
ragionamento kantiano – vi si astrae dal rapporto della conoscenza con l’oggetto, ossia dal
contenuto. Poiché dunque non vi si riesce a trovare una “nota” che funga da “marca della verità”,
essa non risulta affatto definita in senso reale, né tanto meno risulta definito l’oggetto della
conoscenza. Al criterio formale si può dunque continuare a muovere quella stessa obiezione di
circolarità che lo scettico muoveva alla definizione nominale del logico dogmatico antico. Ciò
significa che occorre abbandonare questo modo di procedere nell’ambito di una logica
trascendentale, la quale intende dar ragione della validità oggettiva della nostra conoscenza (entro
17
Per una ricostruzione dei concetti di definizione e di verità analitica in Leibniz, cfr.: L. Couturat, La logique
de Leibniz d’après des documents inédits, Olms, Hildesheim 1961 [rist. anast. dell’ed. Paris 1901], pp. 184-200 in
particolare; G. Funke, Der Möglichkeitsbegriff in Leibnizens System, Köllner, Bonn s.d. [1938], pp. 42-43; Y. Belaval,
Leibniz. Initiation à sa philosophie, Vrin, Paris 1975, pp. 110-111.
18
Cfr. G. Prauss, op. cit., p. 172.
19
KrV A 158 (it. 247). In KrV B 205 (it. 246) si trova un chiarimento assai più breve: definire in modo reale le
categorie significa “rendere comprensibile la possibilità del loro oggetto”.
20
Cfr. C. Wolff, Logica, §§ 191, 194 e 195. In particolare: “definitio modum exponens, quod aliquid fieri
potest, realis est” (§ 194). Per le premesse di questa concezione nel pensiero di Leibniz, cfr. L. Couturat, op. cit., p. 190,
n. 3. Sul rapporto fra la logica di Leibniz e quella di Wolff, cfr. W. Lenders, Die analytische Begriffs- und
Urteilstheorie von G.W. Leibniz und Chr. Wolff, Olms, Hildesheim 1971. Per quanto concerne in particolare la
differenza fra il duplice concetto di definizione in Leibniz e Wolff, cfr. M.G. Lombardo, La forma che dà l’essere alle
cose. Enti di ragione e bene trascendentale in Suárez, Leibniz, Kant, IPL, Milano 1995, pp. 233-235.
60
cui soltanto ha senso il concetto di realtà di una cosa in generale) e presenta proprio quel carattere
di “costruttività” che costituisce il contrassegno della definizione reale. Cosa significa dunque
“costruire” la verità, esibendo le sue note definienti, in modo tale che siano garantite la sua “realtà
oggettiva” e più ancora (considerando che ci troviamo all’interno di una riflessione trascendentale)
le condizioni della sua possibilità?
L’intera questione è ripresa nel § VII dell’Introd. alla Logik. Dopo aver riportato per esteso
l’argomentazione circolare in cui si risolve la definizione della verità come adaequatio, Kant
sostiene che il vero punto in questione è se si dia un criterio di verità sicuro, universale, e
utilizzabile nell’applicazione21. Sennonché la ricerca del criterio conduce agli stessi risultati
raggiunti nella Critica. Alla domanda “c’è un criterio universale materiale?” la risposta è negativa.
Alla domanda “c’è un criterio universale formale?” la risposta è positiva, giacché
“la verità formale consiste esclusivamente nella concordanza della conoscenza con se stessa, facendo
totalmente astrazione da tutti gli oggetti nel loro complesso e da ogni differenza fra di essi” 22.
Ma ciò significa ribadire che il criterio formale di verità non giunge ad un risultato diverso rispetto
al diallelo. Di conseguenza, esso coincide con la definizione nominale. A livello dei principi
supremi della logica: non contraddizione significa autoidentità. In sostanza, si conferma
l’identificazione leibniziana dei due principi23.
Ad integrazione di quanto sostenuto nella Critica, si precisa ora che due sono i criteri formali
della verità: il principio di contraddizione e il principio di ragion sufficiente. Mediante il primo si
determina la possibilità logica, nel senso già chiarito secondo cui possibile è ciò la cui esistenza non
implica contraddizione. Come nella Critica, si aggiunge anche qui che questo contrassegno della
verità logica interna è soltanto negativo:
“una conoscenza che si contraddice è bensì falsa, ma se non si contraddice, non è sempre vera” 24.
Quest’ultima nota costitutiva del criterio di verità rappresenta una novità rispetto a KrV, giacché qui veniva
attribuita alla definizione reale.
22
Logik, p. 51 (trad. it., p. 45).
23
Sull’accettazione da parte di Kant della regola leibniziana secondo cui il principio di identità-contraddizione
è il fondamento della logica (formale) nel suo complesso cfr. J. Vuillemin, Reflexionen über Kants Logik, in “KantStudien”, 1960/61, p. 327.
24
Logik, p. 51 (trad. it., p. 45). Non mi pare che – come suggerisce Prauss (op. cit., p. 172, nota 35) – si possa
desumere da questo passo che Kant ignora il problema della validità degli schemi di funzioni di verità semplicemente
perché la giudica ovvia e banale e che per lui la logica formale ha a che fare solo con la “falsità logica” (cioè con la
contraddizione) o con la “consistenza” (cioè con la non contraddizione). La tematizzazione della validità è infatti
implicita nella congiunzione del principio di contraddizione e del principio di identità: ogni enunciato analitico è valido.
Lo si vede chiaramente in quel caso limite di analiticità che è costituito dalla tautologia: p p o (x) (Fx Fx) sono tali
da non veicolare alcuna informazione ulteriore sui membri dell’implicazione. E questo particolare caso Kant lo
menziona esplicitamente nella nota al § 37 della Logik (p. 111; trad. it., p. 105): gli enunciati tautologici (cioè quei
giudizi in cui l’identità è explicita) sono “virtualiter vuoti o vuoti di conseguenze; infatti sono inutili e inutilizzati”. Si
potrebbe addirittura sostenere, con F. Barone (Logica formale e logica trascendentale. I. Da Leibniz a Kant, Edd. di
Filosofia, Torino 1957, p. 158) e H. Schnädelbach (loc. cit.), che quelli logici sono per Kant criteri di validità formale e
non di verità. Sull’analiticità delle forme logiche e delle loro relazioni cfr. pure P.F. Strawson, The Bounds of Sense. An
Essay on Kant’s Critique of Pure Reason, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 64 e 66.
21
61
E nella I sez. dell’opera, con riferimento ai giudizi ipotetici:
“In questi ultimi posso… congiungere fra loro due giudizi falsi, poiché qui importa soltanto la
correttezza del legame – la forma della conseguenza, su cui poggia la verità logica di questi
giudizi”25.
Il che precisa meglio rispetto alla Critica il senso in cui si debba intendere che la non
contraddizione è condizione negativa della verità. In primo luogo, le parole citate equivalgono ad
affermare che la coerenza è condizione necessaria, ma non sufficiente della verità. In secondo
luogo, ad essere sottolineato è lo scarto fra possibilità e realtà e, di conseguenza, vi è uno
slittamento semantico nell’uso del termine “vero”. Emergono ora due concezioni della verità.
Secondo la prima, essa coincide con la non contraddizione logica: si tratta del corrispondente del
moderno livello sintattico26. In virtù della seconda, si esige la conformità rispetto all’oggetto: si
tratta del corrispondente del moderno livello semantico. Poiché ciò che è vero rispetto alla forma
risulta soltanto possibile quanto al contenuto, si riconferma quanto si era in precedenza anticipato,
ossia che il ricorso al semplice concetto di possibilità non dà alcuna garanzia in relazione alla
conoscenza sintetica e , dunque, alla costruzione dell’oggetto esperienziale.
Il secondo criterio formale, il principio di ragion sufficiente (Satz des zureichenden
Grundes)27, fornisce la fondazione logica, garantisce cioè che la verità di una conoscenza abbia le
sue ragioni e che non abbia conseguenze false. Kant afferma che si tratta di un criterio “positivo” e
lo espone ricorrendo alle due forme del modus tollens e del modus ponens:
“1) Dalla verità della conseguenza si può concludere alla verità della conoscenza intesa come
premessa, ma solo in modo negativo: se da una conoscenza deriva una conseguenza falsa, allora la
conoscenza stessa è falsa. Infatti, se la premessa fosse vera, anche la conseguenza dovrebbe esserlo,
perché la conseguenza è determinata dalla premessa. –
Non si può però concludere inversamente: se da una conoscenza non deriva nessuna conseguenza
falsa, allora quella è vera; infatti da una premessa falsa si possono trarre conseguenze vere.
2) Se tutte le conseguenze di una conoscenza sono vere, anche la conoscenza è vera. Infatti, se ci fosse
anche solo qualcosa di falso nella conoscenza, si dovrebbe avere anche una conseguenza falsa” 28.
25
Logik, § 25, pp. 105-106 (trad. it., pp. 98-99).
L. Menzel (Il problema della logica formale nella “Critica della ragion pura”, in “Il pensiero”, 1966, pp.
113-114) mette in relazione il concetto di verità formale di Kant con il “principio di tolleranza” di Carnap e con il più
generale carattere di gioco governato da regole proprio della logica. Su quest’ultimo aspetto cfr. in particolare KrV B
17, nota (it. 26): “Per conoscere un oggetto si esige che io possa provare la sua possibilità (o muovendo dalla sua realtà
sulla base della testimonianza dell’esperienza, oppure a priori mediante la ragione). Ma posso pensare ciò che voglio,
purché non mi contraddica, cioè quando il mio concetto è soltanto un pensiero possibile, sebbene non possa decidere se,
nel complesso di tutte le possibilità, ad esso corrisponda anche un oggetto, oppure no”.
27
Il termine Grund, che Kant usa in abbondanza in questo capoverso, significa “ragione” (e in questo senso è
usato come trad. del latino ratio), “premessa”, “fondamento”, “principio” o addirittura, in un’interpretazione
tecnicamente non troppo raffinata, “causa”. Ciò genera inevitabilmente qualche confusione. In particolare, la polisemia
del termine non deve portare a confondere la ratio con la premessa di un sillogismo e l’antecedente di un’implicazione.
28
Logik, p. 52 (trad. it., p. 46). L’ultima proposizione del punto 1) mostra che Kant ha presente il problema del
valore logico di verità di un giudizio. Se, come ha suggerito Menzel (op. cit., pp. 111-112), il modello dell’affermazione
di Kant è costituito dall’implicazione materiale, ne risulta la corrispondenza con la tavola dei valori di verità, ove p q
risulta vero per p falso e q vero, nonché per p falso e q falso, ossia per la situazione cui si riferisce il passo sui giudizi
ipotetici del § 25 della Logik poc’anzi riportato. Vi è comunque da notare che, conformemente alla tradizione, Kant
applica il modus ponens e il modus tollens sia ai giudizi ipotetici sia ai sillogismi ipotetici, anche se non è affatto
26
62
Poiché, come è noto, il principio di ragion sufficiente è il fondamento delle verità di fatto,
Kant è coerente con la tradizione leibniziana affermando nel compendio che conclude il § VII
dell’Introd. che su di esso si fonda la “realtà (logica) di una conoscenza”29. A temperare la
concessione, egli sostiene però che, nel caso del modus ponens non si può conoscere in modo
apodittico la totalità delle conseguenze e che ci si deve pertanto accontentare di una conoscenza
verisimile e ipotetica nella presupposizione che valga la regola di generalizzazione secondo cui
“là, dove molte conseguenze sono vere, anche le rimanenti possano essere saranno tutte vere” 30.
Oltre ai due principi fin qui discussi, Kant indica come terzo criterio logico il principio del
terzo escluso: una conoscenza risulta necessaria poiché il suo contrario è contraddittorio e perciò
impossibile. Il giudizio è in questo caso apodittico. L’autonomia del principio del terzo escluso
rispetto a quello di ragion sufficiente (di cui era presentato come una sorta di specificazione nel
corso dell’esposizione dettagliata dei criteri formali della verità) è data dal fatto che vi sono casi di
disgiunzione finita in cui è possibile giungere per divisione del concetto alla determinazione di tutte
le conseguenze possibili di una premessa. In questo senso già si esprimeva per altro il commento ai
giudizi disgiuntivi nella Critica: gli enunciati conoscitivi che li compongono si escludono
reciprocamente, e tuttavia “determinano nel loro complesso la vera conoscenza”, in quanto – presi
tutti insieme – “costituiscono l’intero contenuto di un’unica conoscenza data”31.
Al di là delle obiezioni che si possono muovere a Kant a proposito della mancata distinzione
fra “conoscenza” e “giudizio” e di quella fra rapporto premessa-conseguenza e antecedenteconseguente, il risultato più evidente di questo giro d’orizzonte nell’ambito della logica formale in
versione kantiana è l’insufficienza dei suoi principi ad una fondazione della conoscenza sintetica, e
dunque della verità in senso non più formale, ma trascendentale-costitutivo. E’ quanto Kant si
sforza di chiarire nella residua parte del § III dell’Introd. alla Logica trascendentale, respingendo il
presunto uso sintetico della logica generale: essa è un “canone” e diventa logica dello Schein, ossia
dialettica, quando pretende di trasformarsi in “organo” della conoscenza, esponendosi in tal modo
alla salutare critica della Dialettica trascendentale.
L’obiettivo, nonostante le conclusioni negative cui conduce il tentativo di fondazione logica,
rimane infatti pur sempre quello di conseguire la verità, ossia – nei termini del dibattito
convinto che questi ultimi siano veri e propri sillogismi (cfr. Logik, § 75 e le Refl. 3263-3265 in Kant’s ges. Schriften,
Bd. XVI, cit., pp. 746-747).
29
Logik, p. 53 (trad. it., p. 47).
30
Ibid., p. 52 (trad. it., p. 46). Sul problema dell’ipotesi ritornerò più diffusamente nel § 3 con particolare
riferimento ai suoi aspetti epistemologici.
31
KrV A 62/B 89 (it. 110). Sulla connessione fra i tre principi logici, le tre categorie della modalità (possibilità,
realtà, necessità), i tre giudizi modali (problematico, assertorio, apodittico) e i tre di relazione (categorico, ipotetico,
disgiuntivo) cfr. pure la lettera a K.L. Reinhold del 19 maggio 1789 (I. Kant, Briefwechsel, Bd. II, in Kant’s ges.
Schriften, Bd. XI, cit., p. 45; trad. it. in Epistolario filosofico, cit., pp. 197-198).
63
contemporaneo – passare da una sorta di posizione “falsificazionista” ad una “verificazionista”. E’
possibile, in questa nuova prospettiva, un criterio universale e sicuro della verità? La risposta
positiva a questa domanda è prospettata da Kant allorché definisce come una “logica della verità”
l’Analitica trascendentale, ossia quella parte della Logica trascendentale che
“espone gli elementi della conoscenza intellettuale pura e i principi senza i quali nessun oggetto può
assolutamente essere pensato”32.
La giustificazione kantiana della definizione merita di essere letta con attenzione:
“Infatti nessuna conoscenza può contraddirla senza perdere al tempo stesso ogni contenuto, cioè ogni
relazione con un oggetto qualsiasi, e quindi ogni verità” 33.
In primo luogo, rientra qui in gioco il principio di contraddizione, ma con una significativa variante:
la non contraddizione deve aver luogo fra la conoscenza da un parte e gli elementi e i principi della
conoscenza in generale dall’altra. Ossia, a fornire ora il criterio di verità non sono i principi generali
della logica classica (formale) filtrati attraverso la scolastica leibniziana, ma le strutture individuate
dallo stesso Kant come presupposti a priori indispensabili della validità del conoscere. Sono queste
strutture, e in primo luogo (ma non esclusivamente) le categorie, a garantire il valore oggettivo delle
conoscenze esperienziali34. La soluzione adottata da Kant è però assai curiosa. Come si è visto, la
non contraddittorietà è soltanto una condizione negativa della verità, nel senso che: 1) è condizione
soltanto necessaria, ma non ancora sufficiente; 2) la conoscenza (o meglio: l’asserzione)
contraddittoria è falsa, ma non abbiamo alcuna garanzia che quella non contraddittoria sia vera.
Ragionando per analogia, dovremmo aspettarci qui qualcosa di simile: la conformità alle strutture
cognitive (e in particolare alle categorie) dovrebbe essere un criterio negativo35. Ora, invece, nel
caso della logica trascendentale non contraddizione non significa semplicemente possibilità nel
senso logico, ma realtà, e per di più necessaria. La soluzione della difficoltà non è però lontana:
soltanto mantenendo la propria aderenza alle strutture intellettuali, la conoscenza si pone infatti in
rapporto con gli oggetti, ossia conserva il proprio contenuto. Non che il “canone” diventi “organo”,
perché altrimenti si dovrebbe ammettere che la possibilità di emettere giudizi sintetici a priori sia
illimitata, contro la tesi centrale della finitezza della conoscenza umana; oppure si dovrebbe
ammettere che l’intelletto umano è in grado di creare i propri oggetti, contro la tesi della
collaborazione di intelletto e sensibilità nella costruzione dell’oggetto esperienziale. E tuttavia il
32
KrV A 55/B 82 (it. 101).
Ibid.
34
Sulla base delle esplicite dichiarazioni di Kant, pecca di unilateralità la tesi secondo cui la deduzione
trascendentale sarebbe il luogo di fondazione della verità come adaequatio. Per questo problema, cfr. R. Hiltscher,
Kants Begründung der Adäquationstheorie der Wahrheit in der transzendentalen Deduktion der Ausgabe B, in “KantStudien”, 1993, pp. 426-447. Sull’equazione fra verità e valore oggettivo della conoscenza e sulla coincidenza di
quest’ultimo con il carattere di forme dell’unità dell’esperienza che è proprio delle categorie cfr. H.J. De Vleeschauwer,
La Déduction transcendantale dans l’oeuvre de Kant, Garland Publ., New York-London 1976 [rist. anast. dell’ed.
Antwerpen 1934/37], vol. II, p. 366.
33
64
contenuto dell’Analitica trascendentale è la verità; e poiché, secondo la nota definizione kantiana,
“trascendentale” è ciò che concerne non direttamente il nostro rapporto con gli oggetti, ma il
rapporto a priori fra la conoscenza e le strutture cognitive, è assai agevole concludere che la verità
di cui egli sta parlando può essere chiamata “verità trascendentale”.
In secondo luogo, sembra riaffermarsi la validità della definizione nominale di verità: se la
conoscenza stesse in contraddizione con le strutture messe in luce dall’Analitica trascendentale,
perderebbe ogni contenuto, cioè – aggiunge Kant – ogni verità intesa come riferimento ad un
oggetto qualsivoglia. Ma occorre prestare bene attenzione alla formulazione della tesi. Egli non sta
dicendo che la verità (quella oggetto dell’Analitica trascendentale) consiste nella concordanza fra
conoscenza e oggetto in generale; sta dicendo piuttosto che la verità è il contenuto della
conoscenza, cioè che la conoscenza si qualifica per il suo essere in relazione con l’oggetto, che la
conoscenza è conoscenza di oggetti. E, nonostante la genericità dell’espressione, si tratta di oggetti
ben determinati: quelli esperienziali. In caso contrario, si dovrebbe infatti ammettere che si possa
avere conoscenza di quegli oggetti che – per definizione – sfuggono alla capacità conoscitiva
dell’intelletto. In questo caso particolare, dunque, sebbene la verità sia colta nella rarefatta
atmosfera trascendentale delle strutture a priori, non sussiste agli occhi di Kant alcun diallelo, né
quel regressus in infinitum che – come si vedrà meglio in seguito – alcuni hanno rilevato. Come è
possibile ciò? E’ possibile perché in realtà è qui da Kant “ammesso e presupposto” che l’unica
conoscenza sia quella esperienziale (ossia quella propria della scienza), e che gli oggetti di questa
conoscenza siano reali tanto quanto lo è il nostro atto conoscitivo mediante la sintesi a priori. Ossia:
da Kant (s’intenda: da un Kant incurante delle difficoltà che la sua definizione di “trascendentale”
procura) è ammesso e presupposto, in risposta ante litteram all’obiezione di Hegel, che non si può
conoscere prima di conoscere.
Ma se questa interpretazione è plausibile, è ancora possibile considerare la verità come
adaequatio? E, di fatto, Kant la considera come tale, a dispetto delle numerose dichiarazioni sparse
per la Critica? La risposta è insieme positiva e negativa. Positiva lo è in duplice senso. In primo
luogo, perché il legame con l’oggetto esperienziale è condizione imprescindibile per la validità dei
giudizi conoscitivi, e dunque per la costruzione di una scienza della natura fondata: come è stato da
più parti rilevato, per un certo verso vi è una stretta correlazione fra il “criterio” logico-formale di
Kant e la semantica di Tarski, giacché – in un senso abbastanza generale, ossia prescindendo dalle
precisazioni e dalle restrizioni introdotte dalla “Convenzione V” – per entrambi vale che l’enunciato
‘s è p’ è vero se e solo se s è p 36. In secondo luogo, perché l’ancoraggio all’oggetto esperienziale
Per l’obiezione, ibid., p. 367.
Cfr.: G. Prauss, op. cit., pp. 176-177; D. A. Rohatyn, Commento critico al concetto di verità in Kant, in
“Rivista di filosofia”, 1974, p. 223. E’ tuttavia opportuno ricordare che il concetto tarskiano di vero-in-L esclude la
35
36
65
impedisce lo sconfinamento nel noumenico e, in quanto tale, costituisce un argine sicuro al di qua
del quale si ha universalità e necessità. La risposta è infine negativa, perché ciò che assume rilievo
essenziale a questo punto è il concetto di oggetto. E’ questa una conclusione già sfiorata in
precedenza: quando si dice che la conoscenza vera non riguarda il possibile, ma il reale, si ha in
mente un’interpretazione del termine “verità” in forza della quale ad essere in questione non è il
rapporto fra l’enunciato e la cosa, ma la struttura ontognoseologica di questa cosa stessa. Detto
altrimenti: verità coincide con realtà. A ben vedere, è questo l’unico modo che Kant ha per sottrarsi
all’identificazione leibniziana fra possibilità e realtà, fra verità e risoluzione analitica dei termini,
sia essa attuale o soltanto attuabile in linea di principio. La contestazione della teoria
dell’adaequatio non ha dunque di mira la logica formale in quanto tale (che conserva comunque
una sua validità in quanto si occupa di principi necessari), ma quel tipo di logica che ignora lo
scarto fra possibilità e realtà, e che anche quando istituisce una differenza fra di esse (e con la
necessità), rimane pur sempre ancorata al piano della teoria tradizionale.
2- Idealismo e “verità trascendentale”.
Un’interessante chiave per l’approfondimento della prospettiva che sottende l’idea di una
“logica della verità” (evidentemente irriducibile a quella formale, sufficientemente munita contro
gli attacchi degli scettici antichi e moderni e ben distinta dallo Schein trascendentale della
Dialettica) ce la offre la critica, da Kant più volte ripresa, all’idealismo di Cartesio e di Berkeley. Se
la celebre recensione di Garve-Feder aveva potuto rimproverare alla I ed. della Critica una certa
inclinazione verso il soggettivismo esasperato di Berkeley, era giocoforza per Kant chiarire in modo
opportuno il senso del proprio idealismo, allo scopo di sgombrare il campo da ogni equivoco ed
allontanare il pericoloso sospetto di confusione fra realtà e mera parvenza, che l’affinità semantica,
sonora ed etimologica fra Erscheinung e Schein contribuiva a nutrire. Affrontando – prima nei
Prolegomena e successivamente nella II ed. della Critica – l’obiezione, Kant torna a parlare di
verità e tenta pure di sottrarsi a quel circolo in cui inevitabilmente si risolve la definizione
nominale.
Nella nota III al § 13 dei Prolegomena egli cerca di mostrare come la distinzione di natura
fra sensibilità e intelletto da lui istituita in contrapposizione a quella soltanto quantitativa o di grado
dei leibniziani non autorizzi a pensare che il punto di approdo della teoria del fenomeno sia
l’idealismo di Berkeley:
“Quando ci è dato un fenomeno, siamo ancora del tutto liberi riguardo a come vogliamo giudicare la
cosa. Quello, il fenomeno, poggiava sui sensi, ma questo giudizio poggia sull’intelletto, e ci si chiede
solo se nella determinazione dell’oggetto vi sia o meno verità. Ma la differenza fra verità e sogno non
possibilità di elaborare una teoria della verità per il metalinguaggio dall’interno di esso e coincide quindi con una
posizione antitrascendentalista.
66
è costituita dalla natura delle rappresentazioni che sono riferite all’oggetto, perché queste sono della
stessa specie in entrambi, ma dalla loro connessione secondo le regole che determinano il
collegamento delle rappresentazioni nel concetto di un oggetto, e nella misura in cui esse possono
coesistere o meno in un’esperienza” 37.
Non dovrebbe costituire una difficoltà comprendere che in tutto questo contesto il termine “verità” è
sinonimo di “realtà”: il senso dell’affermazione di Kant è ovviamente che il fenomeno è realtà, e
non una proiezione fantastica del soggetto38. Ma alla base della scelta terminologica sta comunque
la consapevolezza che la verità si trova nel giudizio conoscitivo, ossia in un’operazione di carattere
squisitamente intellettuale39, e che è la conformità alle norme della sintesi esperienziale a garantire
la corrispondenza fra giudizio conoscitivo e realtà. Con ciò Kant pensa di ottenere un primo
risultato significativo: confutare la tesi che l’interpretazione della conoscenza come limitata ai
fenomeni conduca ad equiparare l’esistenza ad una vita trascorsa in stato onirico, a confondere cioè
la realtà con l’apparenza illusoria. In questo senso, continua l’autodifesa, a differenza dell’idealismo
di Cartesio e di Berkeley, l’idealismo critico non mette in dubbio la reale esistenza delle cose, ma –
affermando che la conoscenza è conoscenza di fenomeni – nega la conoscibilità delle cose in sé: i
fenomeni non sono né cose, né proprietà di cose in se stesse, ma “modi di rappresentazione”40.
A questo punto è tuttavia lecito chiedersi: se è vero che, secondo la ricostruzione che gli
stessi Prolegomena ne fanno, per Cartesio la verità concerne l’indubitabilità del mio Io e la
constatazione dell’impossibilità di provare l’esistenza del mondo, mentre per Berkeley concerne la
riduzione delle cose a collezioni di predicati soggettivi (e pertanto la sua teoria della conoscenza
comporta la distruzione e della cosa in sé e del fenomeno), quale via potrà seguire Kant per
mantenere la denominazione di “idealismo” per il proprio sistema e salvaguardare al tempo stesso i
criteri per giungere alla verità, ossia impedire l’assimilazione dell’idealismo critico a quello
tradizionale? La sua risposta è, almeno per ora, soltanto indiretta:
“La parola trascendentale, che per me non significa mai un riferimento della nostra conoscenza a cose,
ma solo alla facoltà conoscitiva, doveva evitare questa falsa interpretazione” 41.
Ma con ciò è davvero superata il diallelo? Proprio perché “trascendentale” non è la conoscenza
immediata delle cose, ma – conformemente alla famosa definizione della II ed. della Critica –
quella sorta di conoscenza di secondo grado che concerne il nostro modo di conoscere le cose, la
37
Prol., p. 290 (trad. it., p. 85).
Per la distinzione fra Erscheinung e Schein, nonché per la polisemia del secondo termine, cfr. H. Vaihinger,
Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, Scientia Verlag, Aalen 1970 [rist. anast. dell’ed. Stuttgart 19222], Bd.
2, pp. 488-492.
39
Cfr. KrV A 188/B 234 (it. 285) e Logik, p. 53 (trad. it., p. 47). Una declinazione particolare della teoria è
reperibile nella Refl. n. 2124: “La verità e la falsità sono solo nei giudizi. Essa concorda con l’oggetto se concorda con
se stessa” (Kant’s ges. Schriften, Bd. XVI, cit., p. 244 ). Ciò equivale a dire che un enunciato è vero se è vero, ossia
propone in versione rinnovata il circolo.
40
Prol., p. 293 (it. 89).
41
Ibid.
38
67
“verità trascendentale” non sarà forse qualcosa di valido solo soggettivamente, incapace di
raggiungere l’oggetto nella sua realtà indipendente dall’oggetto? E anche se Kant si sottraesse alla
circolarità da lui stesso denunziata nella Logik semplicemente perché non si ha a che fare qui
direttamente con la conoscenza degli oggetti e dunque con la tradizionale teoria dell’adaequatio42,
non sarebbe possibile rimproverargli un’altra forma di circolarità, che richiama da vicino la
versione del diallelo in Sesto Empirico? Se infatti la conoscenza di oggetti (o conoscenza diretta,
non trascendentale) è conoscenza vera, in quanto garantita da una serie di strumenti cognitivi
adeguati, quella conoscenza che si occupa di tali strumenti cognitivi sarà trascendentalmente vera.
Tuttavia essa sarà comunque costretta a fare i conti con la verità come adaequatio, perché io non ho
nessuna possibilità di verificare se vi è conformità fra il mio modo di concepire tali strutture
cognitive e la loro organizzazione effettiva se non verificando la mia ipotesi mediante la validità
della conoscenza diretta, ossia – come direbbe Kant – mediante la verità delle conseguenze. In
sostanza, però, accade che l’esperienza e la sua fondazione a priori costituiscono l’una la conferma
dell’altra, in modo tale che la verità della mia conoscenza trascendentale (o verità trascendentale)
garantisce la verità della mia conoscenza diretta (o verità nel senso classico), ma soltanto tramite la
verità della mia conoscenza diretta ho la prova della verità trascendentale.
A ciò si aggiunge l’obiezione di regressus in infinitum, anch’essa già presente in Sesto
Empirico. In quanto si applica al nostro modo di conoscere gli oggetti, la conoscenza
“trascendentale” dovrebbe essere certa di concordare con esso, essere cioè certa di essere davvero
una conoscenza, la quale ha a sua volta a proprio oggetto una conoscenza. Ma, così suona
l’obiezione43, se dev’essere certa della verità, la conoscenza dovrebbe conoscere anche l’accordo
della conoscenza con l’oggetto. L’accordo sarebbe perciò il nuovo oggetto, e così via all’infinito.
Emerge così il problema ontologico: nella riduzione dell’oggetto a fenomeno (ossia a nostro modo
di rappresentazione) che ne è della sua oggettività? Esso non sarebbe infatti più “in sé”, ma per la
conoscenza. Non può sfuggire a questo punto l’orientamento “hegeliano” dell’obiezione 44: se
oggetto del sapere è la verità, non si esce alla fin fine dall’ambito intracoscienziale, giacché – in
quanto oggetto del sapere – il vero è un saputo, e dunque la coscienza ha in sé sia il sapere sia la
verità. Se da un lato la coscienza (che in Kant come in Hegel è sempre “coscienza di”) implica
distanza dell’oggetto da sé e, dunque, concezione dell’oggetto come esistente in sé (come
Gegenstand, cosa nella sua autonoma consistenza e indipendenza dal soggetto), dall’altro lato,
In realtà, l’autodifesa di Kant rappresenta al tempo stesso un attacco indiretto a Garve-Feder: l’accusa di
idealismo contenuta nella loro recensione presuppone un’erronea teoria della verità come rigida corrispondenza esternointerno. Su questo punto cfr. il saggio Il colore: quasi una teoria.
43
Cfr.: H. Rademacher, Zum Problem der transzendentalen Apperzeption bei Kant, in “Zeitschrift für
philosophische Forschung”, 1970, p. 28; R. Hiltscher, op. cit., p. 428.
44
Per quanto segue, cfr. in particolare l’Introd. alla Fenomenologia dello Spirito.
42
68
proprio in quanto il soggetto ne ha coscienza, l’oggetto è riferito al soggetto (diventa dunque
Objekt). Hegel, come è noto, risolverà il problema facendo coincidere il vero con
l’autodispiegamento della coscienza: sapere sé è sapere l’oggetto e sapere l’oggetto è sapere sé, in
modo tale che – alla fine dell’itinerario – il sapere coinciderà con il saputo e la veritas sarà norma
sui et falsi. Soltanto così Hegel ritiene possibile superare lo scoglio costituito dalla presunzione
kantiana di anteporre il metodo al metodo, la conoscenza del nostro modo di conoscere alla
conoscenza reale. In sostanza, l’obiezione del regressus, che rimprovera alla posizione di Kant quel
“soggettivismo” contro cui nei Prolegomena con tanto ardore egli si sforza di difendersi, si situa
nell’ambito di una concezione che dà già per acquisito il mantenersi ab origine della coscienza
entro l’orizzonte della verità come totalità, e dunque anche come coincidenza di sapere e saputo,
conoscere e oggetto del conoscere. Nell’ambito di una ricerca intorno al problema della validità
oggettiva del conoscere condotta, come quella kantiana, muovendo dalla tesi della separazione fra
soggetto e oggetto, una tale prospettiva è impossibile, giacché ci si deve muovere passo passo
seguendo un determinato filo conduttore. Non si può dunque saltare sic et simpliciter alle
conclusioni, ossia all’unificazione del sapere in virtù del potere sintetico delle strutture cognitive,
ma occorre preliminarmente stabilire come queste strutture operino in funzione dell’unificazione, e
dunque anche quali ne siano i contenuti. Il filo conduttore consiste proprio nella progressiva
scoperta del modo in cui si organizza la sintesi esperienziale.
Non c’è dunque in realtà nulla di nuovo nel “principio fondamentale” del proprio idealismo
che Kant enuncia nei Prolegomena:
“Ogni conoscenza delle cose che muova dal mero intelletto puro o dalla ragione pura non è altro che
semplice parvenza [Schein], e solo nell’esperienza vi è verità”45.
Il tema dell’insufficienza delle leggi della logica formale a fornire un criterio adeguato di verità si
presenta qui con un’integrazione: l’accusa di illusorietà che colpisce ogni sconfinamento della
facoltà di conoscere oltre i limiti dell’esperienza. Ciò, perché il genuino criterio della verità è
trovato da Kant nelle leggi universali e necessarie che costituiscono il presupposto
dell’esperienza46.
Mette inoltre conto rilevare che la polemica contro l’idealismo, sia di Cartesio sia di
Berkeley, è condotta muovendo dalla scoperta della preliminarità delle forme pure dell’intuizione
rispetto all’esperienza concreta (percettiva o scientifica). L’“idealismo” à la Kant consisterebbe
dunque essenzialmente nella dimostrazione della natura ideale (Idealität) dello spazio e del tempo,
la quale sola garantirebbe alle conoscenze a priori realtà oggettiva. Sebbene costituisca soltanto uno
degli aspetti della strategia complessiva di Kant, questa scoperta è la sola ad essere menzionata
45
Prol., Appendice, p. 374 (trad. it., p. 222).
69
nella polemica antiidealistica dei Prolegomena, perché il suo scopo fondamentale è qui contestare la
confusione del proprio idealismo con quello di Berkeley, e tale risultato può essere conseguito solo
insistendo sul carattere a priori delle intuizioni spazio e tempo contro la riduzione berkeleyana dello
spazio a qualità secondaria.
Nella II ed. della Critica l’obiettivo della Confutazione dell’idealismo è, secondo quanto
chiarisce la formulazione del “teorema”, fornire una prova dell’esistenza “degli oggetti nello spazio
fuori di me” (cioè una prova della verità della nostra conoscenza) a partire dalla “coscienza
empiricamente determinata della mia esistenza”47. Il presupposto è ovviamente la tesi secondo cui
nel concetto di una cosa non è contenuta l’esistenza. In sostanza, il problema di Kant è: come si
passa dall’esistenza concettuale o possibilità all’esistenza empirica o realtà (Wirklichkeit)? Se la
possibilità di una cosa consiste nella sua conformità alle condizioni formali dell’esperienza,
secondo Kant si può già parlare di verità:
“Se mi rappresento una cosa che è permanente in modo tale che tutto ciò che in essa muta appartenga
solo al suo stato, non posso mai conoscere sulla base di un tale concetto soltanto che una cosa simile è
possibile. Oppure, se mi rappresento qualcosa che sia siffatto che, se è posto, ad esso segue sempre ed
immancabilmente qualcos’altro, ciò può essere senz’altro pensato senza contraddizione; ma non si
può con questo giudicare se una tale proprietà (in quanto causalità) si possa riscontrare in una qualche
cosa possibile. Infine posso rappresentarmi diverse cose (sostanze) che siano siffatte che lo stato
dell’una comporti una conseguenza nello stato dell’altra e viceversa; ma se un rapporto siffatto possa
convenire a qualche cosa, non può affatto essere ricavato da questi concetti, che contengono una
sintesi meramente arbitraria. Dunque solo dal fatto che questi concetti esprimono a priori i rapporti
delle percezioni in ogni esperienza si conosce la loro realtà oggettiva, cioè la loro verità
trascendentale, indipendentemente, certo, dall’esperienza, ma non indipendentemente da ogni
relazione alla forma di un’esperienza in generale e all’unità sintetica, in cui soltanto gli oggetti
possono essere conosciuti empiricamente”48.
Come si può agevolmente constatare, siamo ben oltre il piano della concezione logico-formale della
possibilità come mera assenza di contraddizione: in questo caso l’accento è posto non sulla
conformità alle leggi formali del pensiero in generale, ma sulla conformità alle condizioni formali
della determinazione degli oggetti esperienziali. E per questo motivo la verità in gioco è chiamata
“trascendentale”: se ne fa salvo il carattere a priori e al tempo stesso si subordina la
rappresentazione della possibilità alla conservazione del rapporto con l’esperienza. Poiché però,
come si è detto, nel mero concetto di una cosa non è implicita l’esistenza, il suo carattere di realtà è
dato dalla concordanza delle condizioni formali a priori dell’esperienza con la percezione, ossia con
il dato sensoriale filtrato attraverso la coscienza. In questo modo, cioè non perdendo mai di vista il
legame con le condizioni a priori dell’esperienza e con la percezione, procedono secondo Kant i
fisici quando dimostrano l’esistenza di realtà non immediatamente percepibili49.
46
Ibid., pp. 374-375 (trad. it., p. 222).
KrV B 191 (it. 230).
48
KrV B 187 (it. 225-226. Il corsivo è mio).
49
L’esempio è quello della “materia magnetica”, inferita dalla percezione dell’attrazione della limatura di ferro
in conformità ai principi sintetici denominati “analogie dell’esperienza”.
47
70
Proprio a questo punto della riflessione Kant inserisce nel testo la Confutazione
dell’idealismo, tutta giocata sul rapporto immediato fra coscienza della mia esistenza e coscienza
dell’esistenza degli oggetti esterni. Poiché l’esperienza esterna è condizione dell’esperienza interna,
la quale pertanto appare come qualcosa di mediato (al pari delle realtà coglibili per via soltanto
inferenziale), si avrà anche che “la coscienza della mia propria esistenza è ad un tempo coscienza
immediata dell’esistenza di altre cose fuori di me”50. Ossia: l’autocoscienza è coscienza non
inferenziale dell’oggetto. Non ci si può però in pari tempo sottrarre alla tentazione di pensare che
essa fornisca una sorta di garanzia aletica di qeust’ultimo. Si parla qui ovviamente di autocoscienza
empirica, come del resto lo stesso Kant si sforza di chiarire non solo nella già citata formulazione
del “teorema”, ma soprattutto in una lunga nota esplicativa aggiunta alla Pref. della stessa II ed.51.
In quanto empirica, l’autocoscienza è legata ad un’intuizione interna e non discende dalla semplice
“coscienza intellettuale” della mia esistenza che si esprime nella rappresentazione “Io sono”.
Sennonché, giunti a questo punto, ci si accorge che qualcosa non torna. Si dà infatti il caso che la
“rappresentazione” (o meglio: autorappresentazione) intellettuale di un soggetto pensante, la quale
non può racchiudere immediatamente in sé la coscienza della mia esistenza in quanto soggetto del
pensiero “Io sono”, non può non fondarsi su una struttura assai più solida, che sia esente dalla
mutevolezza ed instabilità di una mera rappresentazione psichica. E ciò significa che il presupposto
inespresso di tutte queste considerazioni è un’altra, e anch’essa insopprimibile, determinazione del
pensiero: quella che si esprime nell’enunciato “Io penso” e che notoriamente coincide con “Io esisto
pensando” (Ich existiere denkend). In altri termini, la coscienza del mio Io è in pari tempo coscienza
dell’esistenza di me stesso in quanto soggetto. Ora, nello stesso momento in cui l’identità
(manifestamente analitica)52 fra “Io penso” e “Io sono” è affermata, ossia nel corso della
confutazione del paralogismo psicologico, Kant si sforza di precisare che, sebbene l’enunciato in
questione sia empirico, sebbene cioè l’atto “Io penso” non abbia luogo senza che una
rappresentazione empirica gli fornisca la materia e sia dunque imprescindibilmente legato al senso
interno e allo stato psicologico, l’Io è una rappresentazione intellettuale pura. E ciò ovviamente non
mette per nulla in discussione il fatto che l’“Io penso” in quanto appercezione trascendentale è il
fundamentum inconcussum di ogni sintesi, e pertanto di ogni giudizio e di ogni conoscenza sintetica
a priori. In quanto punto supremo della filosofia trascendentale nel suo complesso, in quanto
coincidente con la facoltà conoscitiva ut sic, è chiaro che non si può più chiedere su quale
50
KrV B 191-192 (it. 231. Il corsivo è mio).
Cfr. KrV B 23-25 (it. 34-36).
52
Una conferma indiretta proviene dalle considerazioni “psicopatologiche” dell’Anthropologie in
pragmatischer Hinsicht: il pensiero “Io non sono” vi è giudicato contraddittorio, ossia contrario al principio logicoformale su cui si fondano i giudizi analitici, in forza dell’impossibilità dell’autonegazione. Su questa e altre questioni
“ontoegologiche” della gnoseologia kantiana cfr. O. Meo, La malattia mentale nel pensiero di Kant, cit.
51
71
presupposto esso a sua volta si fondi. Ogni considerazione de jure (e tale è ogni operazione di
carattere trascendentale) poggia su questo factum che è un actus. In quanto condizione a priori della
possibilità di ogni esperienza in generale, è esso a rappresentare la fonte suprema di ogni verità,
intesa sia come giudizio oggettivamente cognitivo sia come accertamento delle strutture a priori del
conoscere. L’autoaccertamento della conoscenza, ossia la pretesa aletica che ogni atto conoscitivo
porta con sé, trova la propria garanzia nell’“Io penso”; ciò, perché tale autoaccertamento è possibile
soltanto in virtù della coscienza a priori della sintesi in cui la conoscenza consiste53. In tal modo,
sembra proprio che il “sistema” trascendentale degli elementi e dei principi cognitivi si regga da sé
e trovi in sé la propria verità, senza dover a sua volta dipendere da altro estraneo alle funzioni del
pensiero, al loro corso, al loro ambito di applicazione specifico. Se così stanno le cose, anche Kant
sembra condividere, ovviamente a suo modo (ossia senza pericolose inclinazioni teologizzanti), la
tesi che uscire da sé è rientrare in sé o che in interiore homine habitat veritas. Proprio in forza di
questa opzione “coerentista”, nella Confutazione dell’idealismo, dopo aver ribadito che la
“rappresentazione Io” è una “rappresentazione meramente intellettuale della spontaneità
[Selbsttätigkeit = attività de facto] di un soggetto pensante”54, conclude riprendendo la distinzione
dei Prolegomena fra “verità” (= realtà) e “sogno” (cui accosta il “delirio” [Wahnsinn]): al rispetto
dell’“accordo con i criteri di ogni esperienza reale” (cioè della verità nel senso trascendentale)55 fa
da contrappunto il gioco rappresentazionale puramente idiosincratico dell’immaginazione
soggettiva di cui il sogno e il delirio sono il prodotto.
Siamo ora in grado di comprendere meglio cosa intenda Kant quando, nel § IV dell’Introd.
alla Logica trascendentale presenta l’Analitica trascendentale come una “logica della verità”: ad
essere chiamata primariamente in causa non è evidentemente la teoria dell’adaequatio, ma la verità
che egli stesso chiama “trascendentale”, ossia la conformità delle rappresentazioni ad un’esperienza
possibile, mentre la verità nel senso logico-formale si limitava all’accordo puramente intellettuale
(analitico a priori) con il principio di contraddizione. E poiché contiene il complesso delle
condizioni a priori di ogni esperienza a noi possibile in generale, l’Analitica trascendentale fornisce
53
Sulla subordinazione della logica all’unità sintetica dell’appercezione cfr. J. Vuillemin, op. cit., pp. 313 e
330.
54
KrV B 193 (it. 232).
KrV B 193 (it. 233). E’ ovviamente adombrata in tutta questa discussione kantiana la distinzione fra “Io
empirico” e “Io trascendentale”. Come è noto, la giustificazione e le modalità del loro rapporto costituiscono una delle
difficoltà più spinose della tarda evoluzione della filosofia kantiana, da KrV fino all’Opus postumum (cfr.: G. Lehmann,
Beiträge zur Geschichte und Interpretation Kants, cit., pp. 295-408; V. Mathieu, Introduzione a I. Kant, Opus
postumum, cit., pp. 3-57). Il problema dell’autoaffezione dell’Io è esplicitamente affrontato in relazione al tema qui in
discussione in un breve scritto della raccolta Kiesewetter, giuntoci con il titolo Confutazione dell’idealismo e pubblicato
come Refl. n. 6311 nel vol. XVIII delle Kant’s ges. Schriften, cit., pp. 607-612 (trad. it. in I. Kant, Questioni di confine,
a cura di F. Desideri, Marietti, Genova 1990, pp. 90-93). Sebbene E. Adickes ne abbia contestato con persuasive
argomentazioni l’autenticità, esso costituisce inequivocabilmente la sia pur sciatta rielaborazione da parte di
Kiesewetter di idee originali di Kant.
55
72
ai meri criteri formali della logica generale quel complemento che affianca alla loro necessità in
vista del pensiero in generale il requisito della sufficienza e consente pertanto di discriminare i
giudizi veri da quelli falsi56. Ciò di cui ne va ora è la questione non dell’universalità e necessità di
un criterio logico-formale, ma dell’universalità e necessità delle conoscenza dell’uomo in quanto
essere finito e tuttavia capace di raggiungere la certezza57. E’ per altro evidente che la definizione di
verità come adaequatio intellectus et rei non viene meno come generalissimo punto di riferimento:
essa rimane valida, e l’impianto concettuale della Critica ha il compito di fornirle l’indispensabile
legittimazione a priori, contribuendo in pari tempo a mutare sostanzialmente il suo significato,
ossia a riempirla di contenuto e ad evitare definitivamente il pericolo del diallelo.
Questo sembra essere l’orientamento che scaturisce dal seguente passo del cap. sullo
“schematismo”:
“… nella totalità di ogni esperienza possibile stanno tutte le nostre conoscenze, e nel riferimento
generale ad essa consiste la verità trascendentale, che precede ogni verità empirica e la rende
possibile”58.
La legittimazione trascendentale delle condizioni della conoscenza è, al tempo stesso, anche una
legittimazione dei criteri di verità, giacché è in grado di battere in breccia d’un solo colpo l’accusa
di circolarità e di regressus. La “totalità di ogni esperienza possibile” presuppone infatti la
fondazione a priori di un sistema trascendentale, compiuto ed autofondantesi, in cui valga
incondizionatamente che le condizioni della possibilità dell’esperienza in generale sono ad un
tempo le condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza. Ciò significa che, all’interno del
“sistema”, è garantito (verrebbe quasi da dire: automaticamente) quel riferimento agli oggetti
esperienziali senza cui la verità come adaequatio risulta puramente vuota; o meglio: senza cui
funziona solo come condizione negativa. Non è un caso che, proprio immediatamente prima di
enunciare il “principio supremo di tutti i giudizi sintetici”, Kant precisi:
“Poiché… l’esperienza, in quanto sintesi empirica, è nella sua possibilità l’unico modo di conoscenza
che conferisca realtà ad ogni altra sintesi, quest’ultima, in quanto conoscenza a priori, ha anche verità
56
Cfr. su questo punto R. Stuhlmann-Laeisz, Kants Logik. Eine Interpretation auf der Grundlage von
Vorlesungen, veröffentlichen Werken und Nachlaß, De Gruyter, Berlin-New York 1976, p. 29.
57
Per un’interpretazione in chiave teoretico-conoscitiva del concetto kantiano di verità, cfr. W.L. van Reijen,
Die Wahrheitsfrage in der transzendentalen Deduktion der reinen Verstandesbegriffe, in “Kant-Studien”, 1970, p. 339.
58
KrV A 104/B 139 (it. 169). Significativamente tali parole seguono un chiarimento importante sul ruolo delle
categorie in relazione all’“Io penso”: “Ora, risulta chiaro da ciò che lo schematismo dell’intelletto, mediante la sintesi
trascendentale dell’immaginazione, non mira a null’altro che all’unità di tutto il molteplice dell’intuizione nel senso
interno, e così indirettamente all’unità dell’appercezione come funzione che corrisponde al senso interno (ad una
ricettività). Dunque gli schemi dei concetti puri dell’intelletto sono le vere ed uniche condizioni per procurare ad essi
una relazione con oggetti, e dunque un significato, e le categorie non hanno perciò alla fine altro uso che quello
possibile empirico, nella misura in cui servono semplicemente, sul fondamento di un’unità necessaria a priori (per
mezzo dell’unificazione necessaria di ogni coscienza in un’appercezione originaria), a sottoporre i fenomeni alle regole
universali della sintesi e a renderli in tal modo atti alla connessione completa in un’esperienza” (KrV A 103-104/B 138139; it. 168-169).
73
(accordo con l’oggetto) solo a patto che non contenga null’altro se non ciò che è necessario all’unità
sintetica dell’esperienza in generale”59.
L’ancoraggio ai fenomeni (e dunque la realtà della conoscenza e la validità della teoria
dell’adaequatio) è garantito proprio in virtù del fatto che le regole dell’unità nella sintesi dei
fenomeni sono condizioni della possibilità dell’esperienza.
Il risultato della ricognizione fin qui condotta è che in Kant la declinazione, per così dire,
“coerentista” e la declinazione “corrispondentista” della teoria della verità si trovano intersecate in
un tale viluppo concettuale, che risulta assai difficile isolarle. Ciò, perché in realtà i due paradigmi
si sorreggono reciprocamente: in considerazione del fatto che l’a priori è condizione genetica
dell’esperienza, essi stanno o cadono insieme. Ma forse questa è un caratteristica inevitabile in una
teoria finitista che – come quella kantiana – sia comunque alla ricerca costante di un fundamentum
inconcussum.
3- Il verum e il problema epistemologico.
Nella II ed. della Critica, Kant inserisce quasi incidentalmente, nell’intermezzo fra la
deduzione metafisica e quella trascendentale, il § 12, dedicato alla discussione di una tematica
presentata come ormai obsoleta: quella dei “trascendentali”60. Egli giustifica però l’interesse, sia
pure marginale, nei loro confronti con la vetusta tradizione da cui provengono, che si condensa
nella “famosa proposizione” quodlibet ens est unum, verum, bonum. L’obiettivo dichiarato è
liberare rapidamente il campo dalla loro ingombrante presenza:
“Questi presunti predicati trascendentali delle cose non sono null’altro che esigenze e criteri logici di
ogni conoscenza delle cose in generale, e pongono a fondamento di essa le categorie della quantità,
ossia unità, pluralità e totalità; solo che queste categorie, che dovrebbero essere propriamente prese in
senso materiale, come pertinenti alla possibilità delle cose stesse, essi [sc.: gli scolastici] le usarono di
fatto solo in senso formale, come pertinenti all’esigenza logica in relazione ad ogni conoscenza, e
tuttavia di questi criteri del pensiero fecero imprudentemente proprietà delle cose in se stesse” 61.
Considerando i vecchi trascendentali come mere “esigenze logiche”, confinandoli cioè
nell’ambito della logica generale, la quale ha per l’appunto il compito di fissare i criteri necessari,
ma non sufficienti, del pensiero, Kant evita di doverli annoverare fra le categorie e di contravvenire
in tal modo alle rigide regole della deduzione metafisica da lui stesso fissate. La logica in cui la
teoria dei trascendentali trova la sua collocazione è in sostanza quella che si fonda sul principio di
contraddizione, ossia quella che stabilisce le condizioni negative della possibilità di pensare un
59
KrV A 110/B 145 (it. 176). Sulla verità trascendentale come criterio normativo della verità empirica e
dell’esperienza cfr. F. Kaulbach, Objektwahrheit und Sinnwahrheit in Kants Perspektivismus: Die Transzendentale
Deduktion der Ideen, in “Wiener Jahrbuch für Philosophie”, 1987, pp. 121-122.
60
Dell’argomento si occupa diffusamente, compiendo anche una panoramica dei testi complementari, De
Vleeschauwer, op. cit., vol. III, pp. 71-79. Di “importanza non intrinseca” e come esempio del gusto architettonico di
Kant giudica invece il § 12 N.K. Smith, op. cit., pp. 200-201.
61
KrV B 97-98 (it. 119-120).
74
oggetto in generale62. Se ci si pone sul piano dei “criteri universali”, tutto quello che si ottiene con i
vecchi trascendentali non è altro che una serie di tautologie: di qualsiasi cosa in generale (quodlibet
ens) vale che essa, in quanto una, non è molteplice (unum), che è ciò che è (verum), che ha tutto ciò
che deve avere (bonum); ma si tratta di mere ovvietà, che non apportano alcun contributo alla
conoscenza. Ciò esclude che i trascendentali possano essere interpretati come condizioni della
possibilità reale di un oggetto, ossia che possano essere confusi con le categorie e dunque associati,
mediante gli schemi, ai principi.
La limitazione al piano formale fa sì che unum, verum e bonum costituiscano l’aspetto
qualitativo del concetto, o – per meglio dire – il lato qualitativo della quantità, la quale –
considerata da un punto di vista quantitativo – costituisce il quantum o grandezza reale. Così,
l’unum è l’“unità della comprensione del molteplice delle conoscenze”, una sorta di unità tematica
che è il fondamento logico di un concetto quantitativo, ma distinto da questo63. La differenza fra i
due aspetti qualitativo e quantitativo risulta ancora più evidente nel caso del secondo trascendentale.
Alla “molteplicità” (o “pluralità”) della tavola delle categorie corrisponde, dal punto di vista
qualitativo, la “verità delle conseguenze”:
“Quante più conseguenze vere da un concetto dato, tanti più indizi [Kennzeichen] della sua realtà
oggettiva. Questa la si potrebbe chiamare la pluralità qualitativa delle note che appartengono ad un
concetto come fondamento comune (e non sono pensate in esso come grandezze)”64.
Queste “note” dovrebbero essere considerate come immanenti per essenza, ossia come predicati
analitici, giacché si sta parlando di conseguenze di un concetto, ossia ci si mantiene all’interno del
criterio logico-formale cui i trascendentali sono stati fin dall’inizio ricondotti. Né, d’altro canto, si
può far riferimento ad un quantum, giacché non entra qui in gioco la costituzione di un oggetto
reale. In terzo luogo, infine, si ha la perfezione, intesa come risultante dall’unione dei due
trascendentali precedenti. Si tratta in sostanza dell’idea secondo cui la molteplicità delle note si
62
Ciò non significa che tali condizioni non siano positive, qualora ci si ponga sul piano del puro pensiero. Non
mi pare pertanto persuasivo quanto sostiene De Vleeschauwer, op. cit., vol. III, pp. 78-79, ossia che – a differenza del
principio di contraddizione – i trascendentali sarebbero criteri positivi risultanti dal principio di identità: come mostra la
riflessione della Logik in precedenza discussa, Kant non si discosta dall’unificazione dei due principi fondamentali della
logica classica operata da Leibniz.
63
Nel già citato scritto Sul significato formale e materiale di alcune parole Kant fornisce un esempio concreto:
dal punto di vista qualitativo, al calore può essere attribuito – conformemente al principio delle “analogie
dell’esperienza” – un grado, determinato secondo gli effetti che esso produce (unità in senso formale). Il rapporto in atto
sarebbe dunque di premessa-conseguenza.
64
KrV B 98 (it. 120). Cfr. la definizione di Baumgarten: “Veritas metaphysica (realis, obiectiva, materialis) est
ordo plurium in uno, veritas in essentialibus et attributis entis, transcendentalis” (Metaphysica, § 89). Il richiamo di
Kant al rapporto premessa-conseguenze si collega al successivo § 90: “Cum omnis entis determinationes coniungantur,
essentiales secundum principium contradictionis, …, et accidentales, attributa secundum principium contradictionis, …,
et rationis, …, et sufficientis, …, modi secundum principium contradictionis, …, et rationis, …, essentialia et
affectiones secundum principium rationati, …, hinc regulas communes, …, omnes ens est verum transcendentaliter”.
Per una ricostruzione del rapporto fra l’interpretazione dei trascendentali in Kant e nei suoi autori di riferimento (Wolff,
Meier e Baumgarten), con ampi riferimenti alle tesi esposte nelle lezioni di metafisica, cfr. G. Schulz, op. cit., pp. 153179.
75
accorda perfettamente con il concetto, in modo tale che – aristotelicamente – nulla debba essere
aggiunto o tolto65.
Le considerazioni più interessanti in funzione del tema discusso nel presente lavoro Kant le
fa però allorché, avviandosi alla conclusione del suo excursus, si sforza di chiarire mediante esempi
l’uso dei trascendentali, di cui viene per altro apprezzato il valore di concetti utili a collegare
elementi derivati da un concetto (eterogenei) con il concetto stesso, indipendentemente – come già
si è detto – dall’unità sintetica del quantum, che può essere conseguita soltanto per via categoriale.
Il primo esempio è quello della possibilità di un concetto; il suo criterio è la definizione
(evidentemente reale), in cui unità del concetto, verità di ciò che se ne può dedurre, compiutezza di
ciò che se ne è tratto costituiscono quanto è necessario per la produzione del concetto stesso. Ma
cosa si intende propriamente per “verità”? Una precisazione in questo senso proviene dal secondo
esempio. Il criterio di un’ipotesi è triplice: l’intelligibilità del principio esplicativo assunto
(corrispondente alla sua unità, senza l’aggiunta di ipotesi ausiliarie o sussidiarie)66, la verità delle
conseguenze che se ne devono dedurre, ed infine la compiutezza del principio esplicativo, cioè il
fatto che le conseguenze non richiedano nulla più e nulla meno di ciò che era stato ammesso, e
dunque la loro analisi restituisca esattamente ciò che era stato presupposto. In questo contesto la
verità è definita come “accordo fra loro stesse [sc.: le conseguenze] e con l’esperienza”67.
Dall’esposizione di questo secondo esempio si possono trarre tre conclusioni. In primo
luogo, il criterio ultimo della verità di un’ipotesi è pur sempre il raffronto con l’esperienza, e ciò
non afferma nulla di più rispetto all’esigenza espressa dal paradigma corrispondentista68. In secondo
luogo, le conseguenze debbono concordare inter se, cioè debbono possedere una coerenza interna.
Ad essere invocato esplicitamente qui è un embrione di connessionismo (per altro conforme
all’intento sistematico di fondo), cioè l’esigenza che l’insieme di determinati elementi costituisca un
tutto solidale, tale che ciascuno sostenga l’altro. In terzo luogo, tale presa di posizione rivela una
genuina esigenza epistemologica; e ciò insinua il sospetto che i vecchi trascendentali costituiscano
per Kant qualcosa in più di un inutile ciarpame, dotato di senso soltanto all’interno della logica
65
In realtà, sul concetto di perfezione Kant è sempre stato piuttosto oscillante e talora fortemente ambiguo. Dal
punto di vista storico, anche in questo caso il riferimento diretto è la Metaphysica di Baumgarten.
66
Il che presuppone che il principio esplicativo sia perfetto, ossia che contenga già la totalità delle condizioni
dell’explanandum. Per la critica delle ipotesi subsidiariae, cfr. pure KrV B 504-505 (it. 592).
67
KrV B 98 (it. 120-121).
68
Sul paradigma corrispondentista poggia pure la tesi secondo cui l’accordo intersoggettivo è indizio
presuntivo dell’accettabilità di una teoria scientifica. Infatti “la verità si basa sulla concordanza con l’oggetto, in
relazione al quale di conseguenza i giudizi di ogni intelletto debbono essere d’accordo (consentientia uni tertio
consentiunt inter se)” (KrV B 532; it. 622). Cfr. pure Prol., p. 298 (trad. it., p. 97): “… quando troviamo ragione per
considerare un giudizio come necessariamente universale…, dobbiamo anche considerarlo come oggettivo; dobbiamo
cioè ritenere che esso non esprima soltanto una relazione della percezione con un soggetto, ma una proprietà
dell’oggetto. Infatti non ci sarebbe alcuna ragione per cui i giudizi di altri debbano necessariamente concordare con i
miei, se non si riferissero tutti all’unità dell’oggetto, concordando con il quale debbono anche concordare tutti fra loro”.
76
intensionale della scolastica leibniziano-wolffiana. In sostanza, grazie alla mediazione operata dal
concetto di “conseguenza”, si è verificato un surrettizio passaggio dal piano analitico a quello
sintetico.
Il concetto kantiano di ipotesi fa sorgere per la verità un certo numero di problemi.
Un’ipotesi esplicativa non è infatti una conoscenza reale e completa: come si è visto, Kant stesso
afferma che l’accumularsi di conseguenze vere non è una dimostrazione, ma solo un “indizio” della
verità (= realtà oggettiva) di un concetto. Per questo motivo il § 12 termina con la riaffermazione
della validità logico-formale dei trascendentali:
“Mediante i concetti di unità, verità e perfezione la tavola trascendentale delle categorie non è dunque
affatto completata, come se essa fosse carente; soltanto che, mettendo totalmente da parte il rapporto
di questi concetti con gli oggetti, il loro impiego è ricondotto sotto le regole logiche generali della
concordanza della conoscenza con se stessa”69.
Sennonché il fatto che l’ipotesi non si identifichi con una conoscenza conclamata mette
indirettamente in discussione il suo statuto di verità: conformemente alla già discussa presentazione
del modus tollens e del modus ponens reperibile nella Logik, dire che le conseguenze di un’ipotesi
debbono essere vere (non importa se in senso coerentista o corrispondentista) non significa che essa
stessa sia vera. E proprio nella Logik sono fissati chiari limiti allo statuto aletico dell’ipotesi. La
definizione generale suona:
“Un’ipotesi è la credenza [Fürwahrhalten] del giudizio nella verità di una premessa in virtù della
sufficienza delle conseguenze; o, più brevemente: la credenza in una presupposizione come
premessa”70.
Il presupposto è sufficiente a spiegare alcune conoscenze, intese come sue conseguenze, quando si
conclude dalla verità di queste alla verità di quello. Ma, prosegue Kant, un’inferenza di questo tipo
conduce alla certezza apodittica, ed è dunque criterio di verità, solo se tutte le possibili conseguenze
sono vere. Poiché è impossibile determinare tutte le possibili conseguenze, allo stesso modo in cui è
impossibile raggiungere l’omnimoda determinatio di una cosa, le ipotesi possono aspirare tutt’al più
ad uno statuto di verisimiglianza, fino a giungere ad un analogon della certezza nel caso in cui tutte
le conseguenze finora riscontrate siano riconducibili esplicitamente a quella premessa.
Per quanto concerne le implicanze epistemologiche del ragionamento kantiano, questo passo
può essere messo a confronto con il cap. I, sez. IV della Dottrina trascendentale del metodo, che
affronta il problema delle dimostrazioni apagogiche o indirette. Il valore del modus tollens è
inferiore a quello delle dimostrazioni che Kant chiama “ostensive” o dirette, e tuttavia è più chiaro
69
70
KrV B 99 (it. 121).
Logik, p. 84 (trad. it., p. 77).
77
ed intuitivo71. La dimostrazione apagogica procura certezza, è facile e rigorosa, anche se non
produce una
“comprensibilità della verità in relazione alla connessione con i fondamenti della sua possibilità” 72.
E’ un’altra buona ragione per parlare del modus tollens (e della dimostrazione per assurdo)73 come
di uno strumento per l’acquisizione di una verità negativa, e di limitare dunque la portata del
“falsificazionismo”74. Ma quello che più interessa è che il problema della verità è qui messo in
relazione con i fondamenti logici della scienza: veri o falsi sono gli asserti che enunciano le
conseguenze di un principio. Ennesima prova, se mai ve ne fosse stato ancora bisogno, che per Kant
la verità si trova sempre e solo nei giudizi.
Ci si chiede a questo punto: quali conseguenze ha per lo statuto ontologico della scienza il
fatto che l’ipotesi si collochi al confine fra la sfera logico-formale e quella trascendentale? In realtà,
all’obiezione si può rispondere in prospettiva kantiana che proprio solo nella scienza può essere
consentito il criterio apagogico perché in essa è impossibile sostituire condizioni soggettive
(rappresentazionali) alla conoscenza oggettiva75. Il problema sorge, semmai, là, dove si dà
indecidibilità di fondo semplicemente perché le opzioni concorrenti sono entrambe false; e ciò
accade, come è noto, nel caso delle antinomie: poiché si assume un presupposto errato, in esse viene
infatti meno il principio del terzo escluso e dunque anche il criterio di demarcazione fra vero e
falso76. In matematica e in fisica, ossia là, dove non è possibile alcuno Schein dialettico (ossia non è
possibile confondere soggettivo con oggettivo), si può con assoluta tranquillità epistemologica far
ricorso sia al modus tollens (e alla dimostrazione per assurdo) sia al modus ponens (sia pure
mettendo in atto tutte le cautele del caso). Ma ciò significa che nelle scienze, ossia nei sistemi di
sapere rigorosamente fondati la cui legittimità la critica della ragione ha il compito primario di
garantire fornendo le condizioni a priori della possibilità del loro prodursi, risulta perfettamente
plausibile servirsi di quel concetto di verum espulso dalla deduzione metafisica delle categorie (e a
fortiori da quella trascendentale). Di qui il facile sospetto che almeno alcuni aspetti della teoria del
verum (e precisamente quelli che inducono Kant a considerare l’ipotesi come esempio di uso dei
71
Cfr. KrV B 514-515 (it. 603).
Ibid. 514 (it. 602). Chiarisce la Refl. n. 2139, in Kant’s ges. Schriften, Bd. XVI, cit., p. 249: “Possiamo
concludere in modo apagogico dalle conseguenze alle premesse più facilmente che directe perché basta una
conseguenza falsa per falsificare la conoscenza”.
73
Nella dimostrazione per assurdo si applica manifestamente il sillogismo che procede secondo il modus
tollens.
74
Sui rapporti fra Kant e Popper cfr. H. Wagner, Poppers Deutung von Kants Kritik der reinen Vernunft, in
“Kant-Studien” 1976, pp. 425-441.
75
Cfr. KrV B 514-515 (it. 603).
76
Ciò non è evidentemente sufficiente per affermare che Kant ammette una violazione del principio del terzo
escluso. Lo mostra la sez. VII del cap. sulle antinomie: la tesi (“il mondo è infinito”) e l’antitesi (“il mondo è finito”)
non sono veri e propri enunciati contraddittori, ma soltanto contrari. Ad un’analoga conclusione di non contraddittorietà
72
78
trascendentali) trovino la loro fondazione a priori nella verità trascendentale e che la prospettiva
corrispondentista e quella coerentista non siano affatto in contrasto fra di loro: è giocoforza, quando
ci si muove nell’ambito epistemico, recuperare gli aspetti positivi di un paradigma come quello
dell’adaequatio. Il fatto che alla verità trascendentale spetti un rango superiore è perfettamente
coerente con l’idea secondo cui la ricostruzione razionale della realtà e del procedere scientifico
stesso è resa possibile dall’attività costruttiva dell’intelletto legislatore. Soltanto se ciò che Kant ne
dice non potesse essere dimostrato trascendentalmente a priori, si ricadrebbe nel circolo e nel
regressus. Ma l’impresa è secondo Kant possibile. E l’Analitica trascendentale è una “logica della
verità” proprio perché egli pensa di essere in grado di mostrare in essa come sono possibili giudizi
sintetici a priori, ossia di rispondere alla domanda che – come fa osservare Cassirer – coincide con
quella intorno alla possibilità della verità in una filosofia contrassegnata dalla coscienza della
finitezza del conoscere.
si giunge allorché gli enunciati in competizione risultano entrambi veri perché si istituisce un confronto fra domini
incommensurabili.
79
APPENDICE
IMMANUEL KANT
< SULL’ILLUSIONE POETICA >
Nel 1776 si rese vacante all’Università di Königsberg la cattedra di Poetica. Fu chiamato a coprirla Johann
Gottlieb Kreutzfeld, il quale – secondo gli statuti dell’epoca – era tenuto a discutere, nel corso di altrettanti pubblici
dibattiti organizzati come veri e propri dibattimenti giudiziari, due dissertazioni in latino appositamente redatte per
l’occasione: una pro receptione in ordinem philosophorum, cioè per essere accolto nella Facoltà di Filosofia, e una pro
loco professionis poeseos ordinario rite sibi vindicando, cioè ai fini dell’insediamento ufficiale. Kreutzfeld scrisse un
unico lavoro, diviso in due parti (o sectiones), raccolte sotto il titolo Dissertatio philologico-poetica de principiis
fictionum generalioribus (Dissertazione filologico-poetica sui principi più generali delle finzioni). Le due disputationes
pubbliche ebbero luogo, rispettivamente, il 25 e il 28 febbraio 1777. A quest’ultima parteciparono: il candidato, che
aveva il ruolo di praeses, ossia di patrocinatore in prima persona o relatore; Christian Jakob Kraus, scolaro di Kant, in
qualità di respondens (= “risponditore”, in tedesco Respondent), ossia di avvocato difensore; tre studenti cui fu affidato
il ruolo di opponentes (= “opponenti”, in tedesco Opponenten), ossia di pubblici accusatori; Kant e un altro professore
ordinario, i quali – anch’essi in qualità di opponentes – intervennero, come prevedevano gli statuti, dopo gli studenti.
Kant lesse la controrelazione in latino di cui si presenta la traduzione italiana .
Lo scritto ci permette di cogliere Kant in un momento particolarmente importante della vita accademica,
nell’esercizio delle funzioni cui il suo ruolo di professore ordinario di Logica e Metafisica lo destinava. Ma si tratta pur
sempre di uno scritto d’occasione, per quanto ufficiale, non destinato alla pubblicazione, la cui origine e la cui finalità
sono chiaramente mostrate dalla non eccessiva cura dedicata alla disposizione degli argomenti e dalle ripetizioni che vi
si incontrano. D’altro canto, il manoscritto originale conserva ampie tracce grafiche dei numerosi ripensamenti e
correzioni. Come si addice alla requisitoria dell’accusa nel corso di un pubblico contraddittorio, la vis polemica – pur
rimanendo nei limiti della notoria urbanità di Kant – è elevata, il tono è talvolta spigoloso e pungente, sempre
puntiglioso nel sottolineare le mancanze del lavoro di Kreutzfeld e nel rivendicare la dignità della filosofia.
Che cosa aveva scritto dunque Kreutzfeld, in modo a dire il vero un po’ confuso e senza mostrare grande rigore
nello sviluppo delle sue argomentazioni? La prima sezione della sua dissertazione, che comunque non è oggetto delle
obiezioni di Kant, muove dalla definizione di “finzione” (fictio), la quale comprende non soltanto le “personificazioni
poetiche”, ma anche “qualunque opinione poetica, conforme non tanto alla verità oggettiva, o assoluta, quanto a quella
apparente o relativa”. Mentre in precedenza si indagavano soltanto le cause esterne del ricorso alla finzione poetica,
Kreutzfeld si propone di studiare le cause interne, ossia quelle che risiedono nella natura umana. L’obiettivo non è
dunque compiere una ricerca storico-filologica, ma utilizzare lo strumento psicologico per reperire principi universali
della mente umana. Per quanto infatti forma, rivestimento e struttura dei singoli miti mutino da popolo a popolo e da
epoca a epoca, mostrando la loro origine “domestica” e “occasionale”, pure è possibile giungere a quei principi
universali mediante un’indagine sull’origine della conoscenza in “animi rozzi” e primitivi e mediante la constatazione
che i miti dei diversi popoli e delle diverse epoche soggiacciono tutti agli stessi errori. Secondo Kreutzfeld, le
invenzioni poetiche sono riconducibili a due fonti. La prima, che costituisce oggetto specifico della seconda sezione,
consiste nelle illusioni e negli inganni dei sensi. La seconda consiste nel dominio della sensibilità negli uomini
primitivi. Poiché l’intelletto è condizionato dal tipo di impressioni sensoriali e poiché dalle loro modificazioni
dipendono le modificazioni nella conoscenza, i sensi sono i primi educatori della mente umana. Per es., la mitologia e la
cosmogonia di un popolo dipendono dall’elaborazione concettuale delle esperienze sensoriali. Dal fatto che l’uomo
tende a trasporre nella natura ciò che esperisce in se stesso traggono origine non solo l’animismo e la credenza in
demoni, ninfe, ecc., ma anche la poesia. Analoga è pure l’intima motivazione delle lingue, che attribuiscono agli enti
astratti facoltà, capacità di azione, ecc. Anche la lingua, in generale, può dunque porsi all’origine dell’invenzione di
miti. Il ricorso alle stesse fonti spiega l’origine dell’antropomorfismo, del politeismo, di taluni elementi religiosi.
Come ho già anticipato, nella seconda sezione, che è oggetto specifico del discorso di Kant, Kreutzfeld
sviluppa il tema delle illusioni e degli inganni dei sensi, intesi come fonti delle finzioni poetiche. Sono essi a fornire al
poeta le più magnifiche immagini e i mezzi per ornare il suo canto. Molti miti sono nati da illusioni, per es. ottiche,
come la leggenda degli scogli semoventi nella saga degli Argonauti (§ 1). Sennonché l’errore, sostiene Kreutzfeld
assumendo una posizione non troppo lontana da quella di Kant, non è propriamente dei sensi, ma del giudizio, che trae
con eccessiva precipitazione conclusioni sbagliate. Di conseguenza, egli indaga i diversi tipi di ragionamento sbagliato,
iniziando da quello che conclude all’identità (o al reciproco influsso) di cose diverse perché si riscontra in esse qualche
somiglianza (§ 2). Nei §§ 3-6 vengono forniti come esempi dell’errore la magia, l’idolatria, l’astrologia,
l’interpretazione dei presagi, la mitologia. Nel § 7 vengono addotti esempi tratti da autori moderni. Nel § 8 vengono
chiamati in causa i metafisici: si cita Giordano Bruno e il principio della coincidenza degli opposti, nonché i
materialisti, che, dall’accordo funzionale fra anima e corpo, concludono alla tesi della materialità dell’anima. Nel § 9
comincia la discussione del secondo errore nel ragionamento: considerare due cose uguali come diverse a causa di
80
qualche loro differenza. Come esempi vengono citati il politeismo e, nel § 10, la distinzione operata dagli “psicologi”
fra anima sensitiva e razionale. Il § 11 menziona un terzo tipo di fallacia: cose che coesistono o si succedono vengono
considerate come trapassanti l’una nell’altra o come influenzanti l’una l’altra. Fino al § 13 si susseguono esempi di
figure retoriche tratti da poeti antichi e moderni. Nel § 14 vengono citate le vicende di amore e guerra dei poemi
cavallereschi. Nel § 15 l’esempio è costituito dall’amore di Petrarca per Laura, che assunse un carattere quasi religioso
a causa dell’atmosfera mistica in cui il loro primo incontro avvenne. Nel § 16 si inizia a parlare della confusione fra
“segno” e “designato”, che fa sì che si attribuiscano al primo le qualità del secondo. Nel § 17 si menzionano vari tipi di
“segni”: geroglifici, numeri, statue e monumenti, cerimonie e riti, parole. Nei §§ 18-20 se ne forniscono esempi in gran
copia. Nel § 21 si menzionano altri modi di confusione: astratto-concreto, causa-effetto, mezzi-fini. Infine, nel § 23
Kreutzfeld sostiene di non aver voluto fornire un’“ermeneutica” completa delle varie fictiones, ma soltanto indagare la
ragione e il modo degli errori della mente umana, ossia elaborare una “metafisica della mitologia”.
Per quanto concerne le tematiche affrontate da Kant nel suo scritto, la più importante è costituita dalla
distinzione fra inganno (in tedesco: Betrug) e illusione (in tedesco: Illusion, o anche Schein): mentre il primo viene
giudicato negativamente (come kantianamente si addice ad ogni forma di menzogna) e dilegua al manifestarsi della
verità, la seconda, che è lo strumento proprio del poeta, può coesistere con l’accertamento della verità ed arreca uno
specifico piacere estetico. C’è un solo testo pubblicato vivente Kant in cui compaia questa stessa distinzione: il § 13 di
ApH. Tuttavia, come rilevano R. Brandt e W. Stark nell’Introd. al vol. XXV delle Kant’s ges. Schriften, De Gruyter,
Berlin 1997, pp. XXXVII-XXXIX, non solo il tema è prefigurato nelle Beobachtungen über das Gefühl des Schönen
und Erhabenen, ma soprattutto si riscontrano convergenze con altri due testi cronologicamente assai vicini:
l’Anthropologie Friedländer, che riproduce il corso di antropologia del semestre invernale 1775/76 (ibid., p. 502), e
l’Anthropologie Pillau, che riproduce il corso del sem. inv. 1777/78 (ibid., p. 745). Ad essi si possono aggiungere la
Menschenkunde oder philosophische Anthropologie, ossia il corso del sem. inv. 1781/82 (ibid., pp. 928-929) e una delle
Reflexionen zur Anthropologie: la n. 1482 (in Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, De Gruyter, Berlin 1923, pp. 683 sgg.).
Sono ancora Brandt e Stark a sottolineare la rilevanza non soltanto antropologica ed estetica, ma anche teoretica ed etica
della distinzione kantiana. Sotto il profilo teoretico, non si può non ricordare la dottrina dell’“illusione trascendentale”
di KrV: proprio uno degli argomenti trattati anche nello scritto qui tradotto e nei §§ 8-11 di ApH, ossia in immediata
prossimità a quel § 13 in cui si distinguono inganno (Betrug, fraus) e illusione (Täuschung o Illusion, illusio), è
affrontato all’inizio del § I dell’Introd. alla Dialettica trasc. Rimarcando il proprio distacco dalla tesi della scolastica
leibniziana secondo cui esiste una cognitio sensitiva, Kant vi afferma che i sensi non errano perché non giudicano;
l’errore nasce semmai dall’influenza inavvertita della sensibilità sull’intelletto. Ma oltre ad un’apparenza (Schein)
empirica, ve ne è pure una trascendentale, che non cessa anche quando la critica trascendentale la smaschera. Questa
illusione (Illusion) è per altro inevitabile, così come lo sono quelle ottiche, ossia empiriche; in quanto tale, essa
continuerà ad indurre in errore. Sotto il profilo etico, nella Menschenkunde (op. cit., pp. 930-931) la generale condanna
della menzogna non impedisce a Kant di considerare illusione e non inganno l’apparenza di moralità che l’uomo
assume nel commercio sociale: vedendo un esempio di rispettabilità si è indotti a emularlo. Allo stesso modo, anche
l’autocontrollo (che, tecnicamente, non è altro se non una forma di dissimulazione) costituisce una sorta di
addestramento al dominio sulle passioni. In sostanza, l’arte di stare in società produce almeno un analogon della virtù e
l’apparenza che ne scaturisce è gradevole ed amabile. A queste segnalazioni è opportuno aggiungere la possibilità di un
confronto con i §§ 53 e 54 dell’Analitica del Giudizio estetico (cfr., nella presente raccolta, il saggio La logica del
comico). Si comprende da questi brevi cenni che la distinzione fra inganno ed illusione si pone come nucleo, almeno
potenziale, di sviluppi filosofici estremamente interessanti, anche se – nel corso dell’intera opera di Kant – essa è
trattata soltanto in maniera episodica e per lo più in esposizioni complementari e non destinate alla pubblicazione. Se si
guardano le cose da questo punto di vista, accostarsi a scritti minori come il discorso contro Kreutzfeld consente di
rintracciare i fili nascosti della meditazione kantiana, il quotidiano lavoro di tessitura da cui sarebbero scaturite le opere
maggiori.
Come riferisce A. Warda nella presentazione della prima edizione, apparsa in “Altpreussische Monatsschrift”,
1910 (47), pp. 663-670, il manoscritto kantiano è noto da moltissimo tempo: appartenuto originariamente al ricchissimo
fondo raccolto da G.B. Jäsche, alla sua morte esso passò a K. Morgenstern e successivamente alla Biblioteca
dell’Università di Tartu. Il testo è redatto sui fogli intercalati alla seconda sezione della dissertazione di Kreutzfeld e, in
parte, sui fogli del testo. Kant usò caratteri di scrittura assai grandi, verosimilmente per poter leggere meglio mentre
parlava. Poiché Kant non riporta le citazioni da Kreutzfeld e scrive che sta maneggiando la dissertazione, si può
congetturare che egli – oltre a sfogliarla durante la lettura – apportasse magari qualche modifica orale al proprio
manoscritto. La presente traduzione si basa sul testo pubblicato da E. Adickes nella prima appendice, intitolata Entwurf
zu einer Opponenten-Rede [Progetto di un discorso come opponente], alle Reflexionen zur Anthropologie (Refl. n 1525,
in Kant’s ges. Schriften, Bd. XV, cit., pp. 901-935. Una traduzione tedesca del testo, ma non dell’indirizzo a Kreutzfeld
e a Kraus, fu pubblicata da B.A. Schmidt in “Kant-Studien”, 1911 (16), pp. 5-21 con il titolo Eine bisher unbekannte
lateinische Rede Kants über Sinnestäuschung und poetische Fiktion [Un discorso latino di Kant finora sconosciuto
sull’illusione sensoriale e sulla finzione poetica]. Schmidt corredò pure il testo con l’indicazione della maggior parte
delle fonti delle citazioni kantiane e si premurò anche di segnalare che la distinzione inganno-illusione era stata ripresa
da Schiller nella ventisettesima delle Lettere sull’educazione dell’uomo. Dall’ottima traduzione di Schmidt mi discosto
in alcuni punti. Con il titolo Concerning Sensory Illusion and Poetic Fiction R. Meerbote ha pubblicato una traduzione
inglese, anch’essa priva dell’allocuzione iniziale, nella raccolta Kant’s Latin Writings. Translations, Commentaries, and
81
Notes, ed. by L.W. Beck in collaboration with M..J. Gregor, R. Meerbote, J.A. Reuscher, Lang, New York 19922, pp.
161-183. Recente la prima traduzione italiana, pubblicata – insieme alla II sezione della Dissertatio di Kreutzfeld e ad
una postfazione che fa il punto sul contesto storico-filosofico – con il titolo Inganno e illusione in I. Kant – J.G.
Kreutzfeld, Inganno e illusione. Un confronto accademico, a cura di M.T. Catena, Guida, Napoli 1998, pp. 41-62. La
curatrice dà anche notizia dell’esistenza di una traduzione russa.
Contrariamente a quanto accade spesso negli scritti di Kant non destinati alla pubblicazione (e non di rado
anche in questi ultimi), in questo caso la grammatica e la sintassi non pongono problemi gravissimi. Probabilmente il
carattere ufficiale della circostanza e il fatto di dover usare il latino resero il suo stile più sorvegliato. Oltre che da
alcune sconnessioni, per altro non in punti fondamentali dal punto di vista teoretico, il problema maggiore è costituito
dal frequente passaggio dalla seconda pers. sing. alla seconda plur. nell’uso dei pronomi personali e dei possessivi.
Anche se le formulazioni originali di Kant danno il senso di una maggiore immediatezza e non si prestano mai ad
equivoci, ho preferito seguire Schmidt e uniformare l’uso, volgendo tutto alla terza pers. Mi pare infatti francamente
improponibile far parlare Kant, che – come mostrano le lettere – era notoriamente attentissimo e precisissimo nell’uso
dell’allocuzione, come un funzionario dell’impero romano. Per quanto concerne la notazione critica, ho indicato fra [ ]
le integrazioni e le interpolazioni nonché i numeri di pagina dell’ed. dell’Accademia. Nelle note ho fornito le
indicazioni filologiche indispensabili ed alcune informazioni sulle problematiche filosofiche toccate nel testo. Qui do
conto soltanto della scelta di rendere uniformemente fictio e i termini connessi (usati prevalentemente da Kreutzfeld: in
Kant si trovano soltanto rarissime occorrenze di fictus e confictus) con “finzione” (e “finto” o “fittizio”) nell’attuale
accezione, corrispondente al tedesco Fiktion e all’inglese fiction (con cui si designa l’invenzione narrativa, il peculiare
statuto di realtà dei prodotti artistici e infine, agostinianamente, l’illustrazione figurata della verità, che corrisponde
all’“illusione” di Kant), e non nell’abituale accezione negativa di “simulazione” o “menzogna” (la fictio che nihil
significat di Agostino, l’“inganno” di Kant). Seguo in ciò la soluzione adottata nelle tradd. itt. delle seguenti opere di
A.G. Baumgarten, ossia di un autore che entrambi i contendenti avevano ben presente: Riflessioni sul testo poetico, a
cura di F. Piselli, Aesthetica, Palermo 1985 (in particolare le note ai §§ 58 e 59, pp. 115-117) e L’Estetica, a cura di S.
Tedesco, Aesthetica, Palermo 2000 (ivi, nel § 525, viene citata esplicitamente la distinzione agostiniana). Ho pensato
opportuno assegnare allo scritto il titolo Sull’illusione poetica in considerazione delle tematiche specifiche che Kant vi
affronta. Ringrazio infine Enrica Salvaneschi e Giorgio Bertone per le loro preziose informazioni storico-filologiche.
[903]
Nobilissimo, Illustrissimo, Eccellentissimo, Dottissimo Signore,
Dottore in Filosofia, a pieno merito Professore Pubblico Ordinario di Poetica,
Patrocinatore1 Autorevolissimo,
Promotore [Fautor] stimatissimo di questa Dissertazione,
e Lei, nobilissimo Risponditore, chiaro, dotto,
Dilettissimo Amico,
Disputatori entrambi onoratissimi!
Stupefacente e quasi incredibile è la propensione della mente umana alle vane illusioni
[ludibria]2 e alle apparenze fittizie di cose [fictas rerum species]3, a tal punto, che essa si fa
1
Il testo ha Praeses, che non ha un corrispondente esatto nelle lingue moderne e che fino al Settecento
indicava, nel lessico della vita universitaria, il candidato a una carica accademica o anche il relatore di una
dissertazione. Nel 1756 lo stesso Kant si qualificava come Praeses nella dedicatio della Monadologia physica. Per
quanto concerne il campo semantico del termine, è opportuno rilevare che possono essere considerati sinonimi di
praesideo i verbi defendo, che Kant utilizza nella titolazione della Principiorum primorum cognitionis metaphysicae
82
ingannare [falli] non solo facilmente, ma
[905]
addirittura volentieri. Donde il noto proverbio: “il
mondo vuole essere gabbato [decipi]”, cui gli artefici di inganni [fraudum] aggiungono: “sia dunque
gabbato”. Ma da questa arte di ingannare una massa ingenua a scopo di lucro, che l’esecrabile sete
dell’oro4 insegnò ai ciarlatani, ai demagoghi e non di rado anche ai gerofanti, ammetto volentieri
che l’ingegno dei poeti è alieno al massimo grado. Anzi, si riferisce che l’avidità dell’oro non
assalga affatto i loro cuori; e di loro dice Orazio: “difficilmente il poeta ha il cuore avido; ama i
versi, di questo solo si cura”5.
[906]
Ma si dà un certo tipo di inganno [fallendi genus], non lucroso, e tuttavia non inglorioso,
che lusinga le orecchie con apparenze fittizie di cose [fictis rerum speciebus], commuove ed allieta
l’animo. Ad esso i poeti hanno consacrato la loro opera.
Poiché questa Dissertazione è interamente dedicata agli artifizi per ingannare i sensi, nella
misura in cui essi servono ai poeti, non considero improprio sottolineare preliminarmente qualcosa
concernente questo tipo di inganno piacevole ed esente da dolo.
nova dilucidatio e della Monadologia physica, e tueor, che compare nella titolazione della De mundi sensibilis atque
intelligibilis forma et principiis.
2
Scelgo “illusioni” al posto di altre soluzioni più radicali, ma anche troppo specifiche, per il fatto che, come
illudo e i termini ad esso collegati, anche ludibrium denunzia chiaramente nella sua radice il carattere di ludus, ossia di
“gioco dei sensi”, proprio del fenomeno. Schmidt rende con nichtiges Spiel e Meerbote con deceptive play.
3
E’ assai difficile rendere in italiano i termini di cui Kant fa uso per indicare le illusioni. Nelle sue prime
occorrenze, species è sempre accompagnato dalla specificazione rerum e sembra pertanto designare più propriamente
un’apparizione sensibile cui non corrisponde nulla di reale, mentre apparentia è usato da solo e sembra pertanto
designare una qualità più astratta e generale. Sennonché, successivamente, apparentia compare accompagnato dalla
specificazione rerum, mentre species occorre da solo. Dal contesto dei primi capoversi si intende poi abbastanza
chiaramente che Kant non ha operato una radicale distinzione semantica e che pertanto i due termini vanno intesi per lo
più come sinonimi. In particolare, l’indecisione lessicale delle pp. 907-908 del testo sembra indicare che egli ha in
mente in entrambi i casi un unico termine tedesco: Schein. Ho pertanto risolto di tradurre sia species sia apparentia con
“apparenza”, specificando di volta in volta il termine latino corrispondente. D’altro canto, anche Schmidt ricorre
preferibilmente al termine Schein, rendendo apparentia con Erscheinung (ossia apparire della cosa nel senso
fenomenico) soltanto nel quarto capoverso del testo di Kant, dove il discorso verte esplicitamente sulla manifestazione
sensibile della verità nella poesia. Di diverso avviso è Meerbote, che – assai sottilmente – cerca di tracciare una linea di
demarcazione più netta fra species e apparentia. Riassumo qui di seguito le sue argomentazioni. Species è termine
generico, designante sia l’illusione sensoriale sia la finzione poetica sia gli errori percettivi. Meerbote lo traduce con
semblance (“parvenza”), specificando che soltanto una sua specie è ingannevole. Egli rende poi con illusion la illusio
propria della poesia, che non inganna, ma diletta. In generale, ricorre ad appearance (“apparenza” nel senso di
“apparenza fenomenica” o Erscheinung) per indicare la apparentia di Kant, ossia quella forma di species che non
inganna. Egli stesso ammette però che, a questo stadio della sua elaborazione teoretica, Kant non ha ancora distinto fra
“parvenza” (Schein) e “apparenza” (Erscheinung) ed è costretto in singole occasioni a ricorrere a semblance per rendere
apparentia. Per quanto concerne poi la illusio, Meerbote considera qui come sinonimi Täuschung e Betrug, che – come
ho già rilevato nell’introduzione generale – corrispondono invece rispettivamente secondo il § 13 di ApH all’illusione e
all’inganno: entrambi sarebbero compresi nella species che inganna e – in quanto tali – distinti dalla illusio, o species
che non inganna. Le premesse di quest’ultima distinzione sarebbero da ricercare nella contrapposizione fra Schein
“vuoto” (o ingannevole) e Schein reale operata da J.H. Lambert nella lettera a Kant del 13 ott. 1770 (cfr. Kant’s ges.
Schriften, Bd. X, De Gruyter, Berlin 1922, pp. 103-111; trad. it. parziale in appendice a C. Wolff, Logica tedesca, a cura
di R. Ciafardone, Patron, Bologna 1978, pp. 238-242).. Tuttavia, per quanto apprezzabile, lo sforzo di non equivoca
classificazione compiuto da Meerbote si infrange contro la mancanza di rigore terminologico del testo kantiano, in cui
palesemente i termini continuano ad intrecciarsi e a scambiare il proprio campo semantico.
4
Auri sacra fames: Virgilio, Eneide, III, 57.
5
Vatis avarus non temere est animus, versus amat, hoc studet unum: Orazio, Epistole, II, 1, 119 sg.
83
Ora, ci sono alcune apparenze di cose [rerum species], dalle quali la mente non è giocata,
ma con le quali gioca. Per loro mezzo l’artefice non esibisce agli ingenui un errore, ma la verità
abbigliata con la veste dell’apparenza [apparentiae], la quale non offusca il suo abito interiore, ma
la mostra agli occhi decorata, non raggira con il belletto
[907]
e gli inganni gli inesperti e i creduli,
ma – usando le luminose bellezze sensibili – porta in scena l’arida e secca immagine della verità
tinta di colori sensibili.
Se in tale apparenza di cose [in tali rerum specie] c’è alcunché mediante cui essa, come si
dice comunemente, inganna, sarà piuttosto da chiamare illusione [illusio]. L’apparenza [species]
che inganna, una volta scoperta la sua vanità ed illusorietà, svanisce; ma quella che illude, poiché
non è se non la verità fenomenica [veritas phaenomenon], anche quando la si scopre nella sua
realtà, non di meno dura e al tempo stesso mette gradevolmente in movimento l’animo, facendolo
come fluttuare ai confini fra errore e verità; e lo lusinga mirabilmente, conscio come è della propria
avvedutezza al cospetto delle seduzioni dell’apparenza [apparentiae]6. L’apparenza [species] che
inganna [fallit] dispiace; quella che illude [illudit] piace assai e diletta. Così, quasi per saggiare la
mia perspicacia contro la sua astuzia, in un primo tempo mi attira vedere l’illusionista, del quale si
dice che fa giochi di scarsella7, dal momento che tenta di raggirami con l’inganno.
[908]
Ma, una
volta scoperto l’inganno, lo disprezzo; se lo ripete, provo fastidio; se poi me lo tiene nascosto, lo
detesto, continuando a non crederci8, stupito bensì, ma al tempo stesso indignato per essere stato
vinto dall’astuzia di un impostore.
Per contro, nelle illusioni ottiche, quantunque percepisca bene l’apparenza [apparentiam] e
sia premunito contro l’errore, ogni volta mi diverto. In tale artifizio l’apparenza [species] diletta,
proprio perché non inganna, ma induce con forza, ancorché invano, all’errore. Così le apparenze di
cose [rerum apparentiae], nella misura in cui ingannano, ci arrecano fastidio; in quanto ci illudono
6
Il senso del passo, anche alla luce del capoverso che lo precede e di quello che lo segue, è sufficientemente
chiaro. Kant intende sottolineare che, quando alla base dell’illusione percettiva c’è una realtà, il soggetto si avvede
presto dell’errore e rimane piacevolmente sorpreso del fatto di non potersene comunque liberare. La veritas
phaenomenon è dunque ciò che io continuo a percepire anche se sono informato che si tratta di un’illusione (per es.
ottica); è ciò che non è né realtà oggettiva né transitoria impressione sensoriale e, in quanto tale, possiede un ambiguo
status ontologico. Si tratta di un uso abbastanza singolare del termine “fenomeno”, che mi pare denunciare una certa
difficoltà da parte di Kant a trovare collocazione adeguata alle illusioni percettive nel proprio sistema gnoseologico
(almeno a questo stadio della sua evoluzione). Dilegua in tal modo l’impressione di equivocità provocata dal
riferimento iniziale alla illusio come apparenza ingannevole: la illusio (che è sia quella offerta dalla poesia sia la vera e
propria illusione ottica) non cessa di stupire piacevolmente il fruitore perché non è mai dolus intenzionale, ma è sempre
manifesta e giocosa.
7
Il testo ha: qui e crumena ludere dicitur. La trad. it. suona inevitabilmente criptica, ma per capire che cosa qui
intenda Kant è sufficiente osservare che il sintagma latino non è altro se non il calco del termine che in tedesco designa
il prestigiatore: Taschenspieler = lett. “colui che gioca dalla borsa”, ossia che trae da un contenitore apparentemente
vuoto oggetti di ogni sorta. Sebbene non si possa escludere una maliziosa allusione al rapporto fra l’estrazione di oggetti
e l’intascare denaro, fa sospettare un fraintendimento la troppo decisa traduzione di Meerbote: who is said to practice
his art for gain.
8
Incredulus odi: Orazio, Ars poetica, v. 188.
84
soltanto, ci arrecano piacere. E all’incirca questa differenza intercorre fra i comuni inganni dei sensi
e le illusioni familiari ai poeti.
[909]
Non di meno la Dissertazione che sto rigirando fra le mani freme per il desiderio di far
derivare tutte le attrattive e gli splendori dell’arte poetica da quella fonte impura e descrive la
disposizione della mente come a tal punto incline alle vane illusioni [ludibria], da indurre a credere
che, quanto più essa è giocata dalla vanità delle immagini, da tanto maggior gioia il cuore sia
invaso. Ma se anche, nel caso del lodatissimo artifizio dei poeti, le cose stessero così, mi sembra
che un tale segreto dovrebbe essere celato dall’alunno di Apollo, per non recare da se stesso
pregiudizio alla propria arte mostrandolo pubblicamente e per non allontanare indignati, una volta
scoperto l’inganno, gli ammiratori della poesia catturati in precedenza dall’incanto di quest’ultima.
Certamente c’è un altro modo di ingannare i sensi, in virtù del quale la poesia sembra
conquistarsi la palma sottraendola a moltissime altre arti; e perciò dev’essere celebrato con lodi
anche dal filosofo, in quanto promuove il dominio della mente sull’ignobile volgo dei sensi e
procura in certo modo obbediente rispetto [obsequium]9 alle leggi della sapienza.
[910]
Tanto grande è infatti la forza indomita dei sensi, di contro all’impotenza della ragione,
anche di quella retta bensì, ma debole nell’imporsi, che è più avveduto indebolire con l’inganno
quelli che non è concesso aggredire con aperta violenza. E ciò accade abituando l’animo alle
lusinghe tanto delle belle lettere quanto delle belle arti e liberandolo in questo modo gradualmente
dal desiderio bruto come da un padrone rozzo e dissennato. A questo disegno, che si può perciò con
un certo qual buon diritto chiamare “onesto inganno”10, serve non poco l’arte poetica, che è
annoverata fra le arti nobili e liberali, cioè che promuovono la libertà dell’animo, proprio perché,
lusingando i sensi, inganna la loro avida attesa e, adescatili con i suoi splendori e spogliatili della
loro rozzezza ferina, li rende tanto più rispettosi degli insegnamenti della sapienza.
[911]
Ma ora il riguardo per il tempo e per il luogo mi impongono di esporre non ciò che
penso di questo argomento, ma quale tesi la Sua Dissertazione sviluppi intorno alla natura della
poesia, in quanto germina dal grembo stesso dei sensi umani. Perciò mi accingo tosto ad esaminare
i punti di questo per altro dotto ed elegante saggio che mi hanno lasciato perplesso, pregandoLa con
il dovuto rispetto di concedermi benevolmente la libertà di cui è lecito servirsi in una contesa di tipo
ludico e la licenza di controbattere a mio piacimento.
I
Obsequium è termine polisenso, che significa sia “rispetto” sia “obbedienza”. In considerazione del peculiare
atteggiamento che, nell’etica del Kant più maturo, il virtuoso tiene nei confronti della maestà della legge, preferisco
ricorrere ad una trad. articolata piuttosto che optare per uno dei due sostantivi italiani. Più radicalmente, Schmidt –
seguito da Meerbote – sceglie Gehorsam [“obbedienza”].
10
Pia fraus è espressione di valore proverbiale, attestata in Ovidio, Metamorfosi, IX, 711.
9
85
Poiché per la materia sottoposta ad esame possiamo tranquillamente tralasciare i rigiri
sillogistici, condurrò la mia critica esponendo gli argomenti in un libero discorso. [912] Ho intenzione
di sottoporre innanzitutto il Suo studio ad un esame generale, prima di procedere all’indagine
speciale.
E in primo luogo, nel titolo della Sua Dissertazione vedo appesa l’edera, ma nel corpo della
trattazione non riesco a trovare del vino in vendita11. Il saggio dell’Eccellentissimo Signore si
intitola: Dissertazione filologico-poetica. Ma qualsivoglia trattazione poetica deve necessariamente
consistere di versi, e perciò un trattato sulla poesia non si può chiamare “poetico”, allo stesso modo
in cui non chiameremo trattato “filosofico” una storia della filosofia o studio [“]matematico[”] un
encomio della matematica. Il predicato assunto da un’arte o da una scienza non indica infatti
l’oggetto, ma il modo in cui lo esponiamo. Una dissertazione filologico-poetica sarebbe quella che,
al pari del celebre poema di Orazio sull’arte poetica, fosse stesa in versi, e al tempo stesso corredata
di note filologiche assai abbondanti.
[913]
II
Ma procedo alla seconda osservazione generale.
Sostengo12 dunque che l’eccellentissimo Autore della Dissertazione ha immerso la falce
nella messe altrui, poiché di fatto, mentre nel corso di questo saggio dovrebbe uscire in scena da
poeta, repentinamente interpreta la parte del filosofo. Infatti questa medesima Dissertazione sarebbe
potuta servire in modo assai idoneo anche per il conseguimento, secondo la forma prescritta, di una
cattedra di ordinario di Metafisica: sarebbe stato sufficiente mutare il titolo in Dissertazione sulle
fallacie dei sensi e sul loro influsso sulle arti e sulla conoscenza comune degli uomini. In modo
davvero abile e arguto, da p. 3 a p. 8 l’Autore espone le fallacie dei sensi in generale e poi, d’un
solo colpo, le vane illusioni della mente che ne scaturiscono: l’interpretazione di presagi, la magia,
l’astrologia, il politeismo, il coacervo delle ipotesi filosofiche e molte altre cose; poi aggiunge
anche i numeri pitagorici, [914] la cabala, il barbara e il celarent13 dei logici. Sennonché, di fronte a
tutte queste cose, è lecito far sentire con Orazio un sonoro: “Ma non era questo il loro posto”14.
Allusione al tralcio di edera (la pianta sacra a Bacco) che costituiva l’insegna delle taverne.
Rendendo in questo modo lo arguo dell’originale, opto ovviamente per un’interpretazione più sfumata dello
stile generale del discorso, che è certamente polemico ed ironico, ma non duramente requisitorio. Una soluzione di gran
lunga più incisiva, adatta al tono dell’invettiva, sarebbe: “Accuso dunque l’eccellentissimo Autore di …”.
13
Sono le parole mnemoniche usate dai logici medievali per indicare i primi due modi del sillogismo di prima
figura.
14
Sed nunc non erat his locus: Orazio, Ars poetica, v. 19.
11
12
86
Gli esempi poetici, che tuttavia nuotano rari nell’immenso gorgo15, poteva adattarli al suo
scopo anche un filosofo, il quale per il resto ignorasse, alla pari dei più ignari, che cosa si richieda
per comporre poesie eleganti.
Perciò congetturo che, mediante questa dissimulata metábasis eis állo génos, con un titolo
che ha un bel suono l’Autore della Dissertazione volesse dare proprio un esempio di artifizio per
ingannare i sensi.
Supponiamo che, interpretando il ruolo del filosofo, l’Autore della Dissertazione abbia
fallito nella sua speranza; tuttavia ciò non toglierebbe nulla al Suo onore di poeta.
[915]
Proverebbe
che Ella è un cattivo psicologo, ma un eccellentissimo poeta. Donde Ella vede che non ha
sottoposto ad esame un saggio per il conseguimento della cattedra di professore di poetica16.
III
Procedo al mio terzo argomento generale.
Dopo aver stabilito che le fallacie dei sensi sono una provvista assai importante dell’arte
poetica, l’Autore della dotta Dissertazione paragona ripetutamente il filosofo con il poeta; in questo
modo egli assegna ad entrambi una sorte molto simile in questo ambito malsicuro, mentre di fatto
prova con i suoi esempi che essa è totalmente opposta. Come infatti il poeta inganna in modo
eccellente con la vana apparenza sensibile [sensuum vana specie], così il filosofo ne è ingannato
vergognosamente17. Donde il poeta riporta la corona d’alloro, di solito il filosofo trae disonore,
[916]
e ciò che all’uno vale come lode, all’altro reca ingiuria. Con questo paragone l’Autore ha commesso
due colpe: in primo luogo, perché – ponendo sullo stesso piano cose che, per sua stessa
testimonianza, sono opposte – contraddice se stesso; in secondo luogo, perché – innalzando i poeti
(p. 2) e disonorando i filosofi (pp. 8 e 10)18 – è stato ingiusto nei confronti di una delle due parti.
15
Il chiaro riferimento al celeberrimo rari nantes in gurgite vasto di Eneide, I, 118 intende corroborare
ironicamente quanto Kant dirà subito dopo.
16
Questo luogo in particolare, con l’inopinato passaggio dalla terza pers. all’allocuzione diretta, mostra il
carattere di abbozzo del testo. La vis polemica di Kant è altissima: qui, come del resto più velatamente nel § III, egli sta
semplicemente sostenendo che Kreutzfeld non capisce nulla di filosofia.
17
Kant tocca qui, con tono lieve e superficiale, alcuni argomenti teoretici per lui importantissimi in quegli anni
di preparazione dell’opus magnum: l’errore dei sensi e il loro influsso sul giudizio; l’illusione trascendentale. E’
inevitabile pensare all’Introd. alla Dialettica trasc. di KrV.
18
A p. 2 della sua dissertazione Kreutzfeld scrive: “Dagli inganni dei sensi tutti poeti, talvolta per errore, più
spesso intenzionalmente, traggono le immagini più splendide e il maggior ornamento del discorso”.
A p. 8, dopo aver rimproverato alcuni studiosi (fra i quali Herder) di aver scambiato semplici analogie per
prove di identità, trascurando le differenze a causa di un’illusione dei sensi, Kreutzfeld accusa anche i metafisici di
soccombere a questo genere di inganno. In sostanza, “speculazione contemplativa” e “finzione poetica” trapassano
l’una nell’altra. Un esempio è costituito dalla tesi di Giordano Bruno secondo cui effetti opposti derivano da una stessa
causa e cause opposte originano lo stesso effetto. Analoga critica tocca ai materialisti (il cui rappresentante è Lucrezio):
poiché le funzioni psichiche e corporee presentano evidenti affinità e l’anima patisce mutamenti insieme al corpo, essi
concludono che l’anima è materiale e mortale, ossia “per nulla diversa dal corpo”.
A p. 10, nel § 10, Kreutzfeld rimprovera ai filosofi di cadere vittime di un altro inganno dei sensi. I primi
“psicologi” suddivisero l’anima in funzioni e separarono la parte sensitiva e vegetativa da quella razionale e immortale.
87
Per quanto concerne il primo punto, è certo che il filosofo è ingannato dai sensi in quanto non è
filosofo, mentre il poeta inganna con le fallacie dei sensi in quanto è poeta. E quale è la somiglianza
di destini così diversi? Qui si trova un rapporto non di somiglianza, ma di opposizione. Per quanto
concerne il secondo punto, ossia l’ingiustizia fatta al filosofo, tanto più energicamente essa sembra
dover essere biasimata, quanto più in questa Dissertazione lo stesso Autore ha deviato nei propri
campi i ruscelletti dei filosofi.
IV
Il quarto argomento generale è diretto contro un’opinione dell’Autore che si spande per tutte
le pagine della Dissertazione e in cui consiste il suo cardine,
[917]
ossia che il poeta si serve delle
fallacie dei sensi come dei più eccellenti ornamenti delle poesie. A questa opinione sono
apertamente contrarie tanto la retta ragione quanto una folla di importanti esempi. Per quanto
concerne il primo punto, le fallacie dei sensi delle quali sarebbe lecito al poeta far uso dovrebbero
essere tratte da quelle comuni e generalmente diffuse, legiferante Orazio: “Il materiale pubblico
diventerà possesso privato”19. Ma le comuni fallacie dei sensi non hanno niente di piacevole. Infatti,
essendovi abituato, l’intelletto se ne libera subito; pertanto, poiché la fallacia è già svanita da un
pezzo, il poeta non può lusingare la mente mediante apparenze di cose [per rerum apparentias],
nella misura in cui esse contengono fallacie.
Per quanto concerne il secondo punto, ossia i poeti, gli esempi dei quali, secondo il mio
parere, provano il contrario, è sufficiente citare quelli che l’Autore stesso riporta, per es. a p. 12.
…20 Ne risulta evidente che, qualunque cosa abbiano scelto di cantare, i poeti sono totalmente dediti
ad irrorarla con la massima [918] luminosità sensoriale possibile. A questo scopo, non vanno in cerca
delle fallacie dei sensi intenzionalmente, ma perché non può far loro difetto l’apparenza della cosa
Ciò accadde perché il “rozzo speculativo” avverte in se stesso la tensione fra impulsi opposti. Il § 10 si conclude con
una domanda che più avanti attirerà nuovamente l’indispettita attenzione di Kant: “E sono forse più sobri certi psicologi
della nostra epoca, che – quante diverse funzioni della mente avvertono – in altrettante piccole giurisdizioni per così
dire separate l’una dall’altra spezzano l’anima umana?” [Et nostrae aetatis psychologi quidam magis sobrii, qui, quot
diversas operationes mentis sentiunt, in totidem forulos quasi, seiunctos a se invicem animam humanam dissecant?].
19
Publica materies privati iuris erit: Orazio, Ars poetica, v. 131. In realtà, la publica materies di cui parla
Orazio è l’Iliade: è meglio mettere in scena un canto di quest’ultima che proporre novità in modo scriteriato.
20
A p. 12 la dissertazione di Kreutzfeld contiene diverse citazioni. Innanzitutto vi sono i vv. 194-196 del
poema Mosella di Decimo Magno Ausonio (IV sec. d.C.), che narra un viaggio sul fiume da Birgen a Treviri. Si tratta
della descrizione di un’illusione ottica: “Montagne intere nuotano con increspati movimenti; e, pur assente, tremulo è/ il
pampino, e turgida è l’uva nelle vitree onde;/ ingannato, conta il marinaio le verdi viti”. Vi sono poi alcuni singoli
sintagmi tratti da Virgilio: “frescura ombrosa” (frigus opacum), anziché “ombra fresca”; “il bosco è oscuro di paura”
(caligere formidine lucum), anziché “l’oscurità del bosco incute paura”. Infine, vi è una più ampia citazione tratta dalla
descrizione della fabbricazione dello scudo in Eneide, VIII, 429-432: “Tre raggi di grandine, tre di nube carica di
pioggia/ avevano aggiunto, tre di rosso fuoco e di veloce austro;/ ora bagliori terrificanti, e strepito e spavento/ univano
all’opera, e l’ira alle fiamme docili [sequacibus, che taluni interpretano come “persecutrici”]”.
88
[rei apparentia], che deve riprodurre la natura con perfetta somiglianza21. Ciò appare manifesto
nell’esempio virgiliano da Lei addotto, dove, per accrescere l’ammirazione per l’opera di Vulcano e
per commuovere l’animo con stimoli sensoriali tratti d’ogni dove, il poeta nomina molte cose che
non si sarebbe potuto affatto introdurre nella fabbricazione di uno scudo22. Per es.: …23. Da ciò Ella
vede che il poeta cerca questo soltanto, di cingere la propria idea fondamentale con un
doviziosissimo corteggio di immagini aderenti, nelle quali le apparenze fallaci [apparentiae
fallaces] si trovano solo accidentalmente, poiché non ne può fare a meno, quando vuole dipingere
un’immagine al vivo.
[919]
Passo al secondo genere di argomenti, toccando alcuni singoli punti della Sua
Dissertazione e, con il Suo permesso, segnandoli con la linea censoria24.
Il paragrafo 1 comincia così: …25.
L’Autore della Dissertazione
[920]
spiega nelle due parti della sua opera che l’animo umano
dev’essere all’inizio istruito dai sensi e da questa educazione attinge al tempo stesso i primi stami
dell’arte poetica. Nella prima parte sostiene che i sensi servono da maestri, mentre in questa
seconda parte sostiene che sono degli impostori. In entrambe le parti però sostiene che essi sono
usati in modo egregio ed elegante. Ma come queste cose si conciliano fra loro? Infatti, se siamo
ingannati dai sensi, non ne siamo istruiti. Se la conoscenza umana è corrotta dalle fallacie, che cosa
sarà il poeta, che ha istituito il loro commercio, se non un falsificatore?
Avverto w(j e)n paro/d% [= di passaggio]26 che l’espressione “gli insegnamenti dei
sensi”27 della prima riga della Dissertazione è presa in un senso affatto distorto. Infatti, presso gli
antichi, mai i sensi esercitano un insegnamento, ma lo subiscono28, nella misura in cui sono piegati
21
Come spesso accade a Kant, il pensiero è espresso in modo ellittico. Per rendere perspicuo il passo, Schmidt
interpola fra “fallacie dei sensi, ma” e “perché” le parole: “le usano soltanto”. Mi pare però una correzione inopportuna:
come chiarisce la fine del capoverso, Kant vuole dire che i poeti non applicano la loro cura nel cercare le illusioni
sensoriali, ma che esse si presentano loro accidentalmente, in quanto devono fornire al lettore – secondo il precetto
quintilianeo che egli aveva assimilato da Baumgarten – una descrizione vivace e verisimile [vivida descriptio] delle
immagini. Kant ha dunque soltanto posposto di qualche riga l’avverbio con cui sarebbe dovuta iniziare a mo’ di pendant
l’avversativa. Se di interpolazione vi è dunque bisogno, essa dovrebbe consistere nelle parole “solo accidentalmente”.
22
Seguendo Schmidt, è anche possibile interpretare come una sineddoche il fabricam clypei ingredi del testo:
“introdurre nell’officina di un armaiolo”.
23
A questo punto, nella sua allocuzione pubblica, Kant sicuramente citò (di nuovo, se già l’aveva fatto poco
prima) i versi dell’Eneide.
24
La virgula censoria (o “obelo”) era un segno critico usato per indicare passi sospetti. Segnare con la linea
censoria equivale pertanto a sollevare dubbi e a criticare.
25
“Abbiamo già stabilito che l’insegnamento dei sensi, dei quali ogni conoscenza umana si serve come dei suoi
primi condottieri e maestri, è la prima fonte delle finzioni; ora passiamo alle fallacie dei sensi, il secondo principio delle
creazioni della fantasia [phantasmatum]”.
26
Ripristino la corretta grafia greca.
27
In realtà Kreutzfeld aveva usato il sing.: disciplina.
28
Schmidt fa notare che l’errore di Kreutzfeld consiste per Kant nell’aver considerato il gen. ogg. sensuum
disciplina come un gen. sogg.
89
[921]
finché non obbediscano al dominio della mente. A questo scopo miravano gli esercizi telestici
un tempo diffusi.
Ella avrebbe potuto chiamarla “educazione” dei sensi, dalla quale ricaviamo i primi elementi
della conoscenza. Ma di questo non mi occupo ulteriormente.
§ 3. L’Eccellentissimo Autore computa fra le fallacie dei sensi molte cose che non sono
affatto pertinenti: magia, interpretazione dei presagi, astrologia, ecc. Alle fallacie dei sensi sono da
ascrivere soltanto quelle cose che mi sembra di afferrare con gli occhi o di catturare in qualunque
modo con un senso, sebbene di fatto siano errori del giudizio precipitoso29. Sennonché quelle cose
che so con certezza di non percepire, mentre sono conscio di decidere intorno ai percetti [sensa]
soltanto congetturando o comunque inferendo [ratiocinando], ebbene queste cose, per quanto siano
erronee, tuttavia non possono essere chiamate fallacie dei sensi: comunemente si chiamano enti
della ragione raziocinante [entia rationis ratiocinantis]30. Così, nel volo degli uccelli o nella
posizione degli astri mai la superstizione pensò
[922]
di osservare e leggere i segni fatidici;
sennonché l’uomo, fatto già dalla natura per il consorzio con esseri intelligenti e agitato dal timore o
dalla brama, è incline ad errare a proposito dell’influsso di potenze invisibili che governerebbero il
suo destino (errore, questo, che chiamiamo superstizione); e ha spontaneamente supposto che molte
cose avvolte in simboli o da un Genio o da un Demone gli sarebbero rivelate, purché egli riesca ad
intendere quei simboli, e che sia anche possibile istituire un qualche commercio con quegli esseri.
Donde sono sorte tanto l’astrologia quanto la magia31.
Ma per quanto concerne i sensi, essi sono tanto lontani dall’averlo tuffato in questi errori,
che piuttosto, come guide fidate, lo preservano senz’altro da essi, e, costretto dall’esperienza, ne lo
liberano completamente con certezza.
Proseguo con il § 9, p. 9.
[923]
Qui l’Eccellentissimo Autore ascrive ancora alle fallacie dei sensi la moltiplicazione
degli enti senza necessità e la precipitazione nell’assegnare a fenomeni in certo modo diversi
altrettante cause diverse per genere, donde il grande numero di potenze divine nella teogonia e nella
Che l’errore non stia nei sensi, ma nel giudizio, è tesi ben radicata in Kant. In questo caso specifico, essa
riecheggia un’analoga espressione di Kreutzfeld e si accompagna all’affermazione immediatamente precedente che i
sensi debbono essere educati con la forza ad obbedire alla ragione. E’ una delle diverse soluzioni che Kant tentò di dare
ad un problema che gli appariva assai complesso.
30
La distinzione fra ciò che credo di percepire (ossia l’illusione sensoriale) e ciò che inferisco o congetturo con
un processo razionale conscio è estremamente chiara. Poiché per Kant alla classe degli entia rationis appartengono
anche i noumeni, non si può escludere – anche in considerazione del contesto generale – un embrione di critica allo
Schein trascendentale.
31
La polemica contro i presunti rapporti con gli spiriti extraterrestri è costante nel pensiero di Kant fin dal
periodo precritico e trova la sua espressione più chiara nello scritto contro Swedenborg del 1766. Non è poi escluso che
l’obiettivo della sua critica alla credenza che fenomeni inspiegabili siano indizi di una loro origine soprannaturale sia
non tanto la superstizione degli antichi, quanto piuttosto la Schwärmerei del suo ex allievo Herder, che – come si è già
ricordato – è esplicitamente menzionato da Kreutzfeld nel § 7 come vittima di un’illusione dei sensi. In generale, Kant
vuol fare intendere che l’esaltazione fanatica di ogni tempo non è un errore dei sensi, ma della ragione.
29
90
cosmogonia dei Greci. Ma che originariamente queste cose fossero non errori comuni sorti dalle
illusioni dei sensi, bensì finzioni intenzionali dei poeti [de industria a Poetis conficta], lo testimonia
anche Aristotele, il quale nella Metafisica, dopo aver detto che “alla natura divina non si addice
essere invidiosa”, aggiunge: “ma i poeti, come dice il proverbio, mentono molto”32. Costoro infatti,
senza lasciare intentato nulla che potesse suscitare il movimento della mente ed ammaliarla con la
forza unita delle sensazioni, infusero la vita in ogni parte della natura e ripartirono i fenomeni,
quanti essi sono,
[924]
in altrettanti domini governati da un dio. E non furono sedotti da altri, ma
fabbricarono essi stessi l’inganno [doli]33.
Ma non vi tratterrò oltre su queste cose. E ora al § 10.
Sostenendo di nuovo che i filosofi sono soggetti insieme alla plebaglia alle stesse vane
illusioni sensoriali34, l’Autore attribuisce a queste ultime la distinzione fra anima [anima] e animo
[animus] diffusa fra gli antichi35. Ora, se questa distinzione è un errore, esso non può certamente
essere imputato ad una comune fallacia dei sensi; piuttosto, fu accettato ponderatamente, non
perché appaia [che le cose stanno] così, ma perché sembrava un’ipotesi necessaria a spiegare i
fenomeni della natura umana. E sono in dubbio se gli psicologi che in questa incerta questione
decidono sconsideratamente e audacemente qualcosa meritino di essere chiamati sobri, come
32
Cfr. Metafisica,. I, 2, 983 a, 2 sgg. Adickes riporta la trad. latina di Bessarione, dalla quale Kant si discosta
soltanto marginalmente: la differenza di maggior rilievo sta nella sostituzione di ut in proverbiis est a secundum
proverbium. Il proverbio in questione è attribuito a Solone. Superfluo ricordare che nelle parole di Aristotele risuona
l’eco della dura posizione di Platone nei confronti dei poeti, in particolare Omero ed Esiodo.
33
Come si vede, Kant concorda qui con la posizione platonica, secondo cui – a differenza delle “apparenze
sensoriali” di cui i poeti si servono accidentalmente per descrivere con vivacità – la teologia omerica ed esiodea è dolus
intenzionale e non illusio. Quello che sembra davvero stargli a cuore in questo momento è non l’aspetto estetico, in
merito al quale non può essere d’accordo con Platone, ma quello ontologico, in merito al quale assume un
atteggiamento analogo. D’altro canto lo stesso Kreutzfeld aveva affermato nel § 1 della seconda sezione della
dissertazione che i poeti traggono dalle fallacie sensoriali immagini splendide e, in generale, per quanto lascia scorgere
il modo alquanto confuso di procedere, il tono della sua trattazione del problema non pare aderire totalmente al
rigorismo platonico.
34
Il testo ha: Auctor iterum philosophos iisdem cum plebecula sensuum ludibriis obnoxios esse contendens.
Come Meerbote, intendo il gen. sensuum (che costituisce per altro un’aggiunta successiva di Kant) come specificazione
di iisdem ludibriis. Schmidt lo intende invece come riferito a plebecula. In realtà, entrambe le soluzioni sono accettabili.
In favore della soluzione di Schmidt sta la costruzione della frase, ossia il fatto che il presunto sintagma cum plebecula
sensuum è incastonato fra iisdem e ludibriis. In favore della soluzione qui adottata stanno due considerazioni: 1) per
ragioni di senso cum plebecula sensuum non potrebbe essere un complemento di compagnia né un complemento di
modo, mentre per ragioni grammaticali non potrebbe essere un complemento di mezzo; 2) poiché nei §§ 9 e 10
Kreutzfeld parla a più riprese di errori da parte di un intellectus rudis o di uno speculator rudis, non è improbabile che
Kant abbia pensato, più che ad una mente filosoficamente primitiva, ad una mente primitiva in generale, ossia a quella
della massa incolta.
35
Meerbote rinvia a questo proposito alla distinzione fra Gemüt (= animus) come facoltà di sentire e percepire
in generale e Seele (= anima) come sostanza del § 24 di ApH e dell’Allegato alla lettera a S.T. Soemmerring del 10 ago.
1795 (in Kant’s ges. Schriften, cit., Bd. XII, 1922, p. 32; trad. it. in I. Kant, Epistolario filosofico, cit., p. 350).
Nonostante il lungo intervallo trascorso fra il presente scritto e gli altri due, in tanto il rilievo di Meerbote è
condivisibile, in quanto – come osservai a suo tempo nella nota al passo dell’Allegato a Soemmerring – l’opposizione
fra Gemüt e Seele mostra un orientamento dell’indagine kantiana in direzione decisamente psicologico-fisiologica ed
una tendenza ad interpretare in questo senso anche il fondamentale concetto di “composizione” delle rappresentazioni.
In tal modo, Kant sembra recuperare l’impostazione di KrV A, ossia dell’opera cronologicamente più vicina al presente
scritto.
91
sembra all’Autore, oppure inebriati dalla coppa dell’egocentrismo, avveduti oppure saccenti 36. Sta
di fatto che nell’epoca nostra il celeberrimo Unzer, nel libro Physiologie
[926]
der tierischen Natur
tierischer Körper [= Fisiologia della natura animale dei corpi animali] e, in tempi recentissimi, il
dottissimo inglese Morgan nel libro Sulla natura dei nervi, che apparirà presto in versione tedesca,
sono ricorsi alla stessa spiegazione della duplice vita come ad una sacra ancora di salvezza37. Ella
vede dunque che qui non emerge una comune fallacia del senso,
[927]
ma un’ipotesi, ancorché
erronea, non indegna di un filosofo. Ma proseguo con il § 15, p. 15.
Qui l’Autore crede di aver trovato nell’amore concepito da Petrarca per Laura durante un
esercizio di adorazione un fenomeno memorabile nella storia della poesia e un enigma degno di
Edipo38. Ma l’infelice, come mi sembra, si affatica inutilmente a
[928]
spiegare sulla base dei propri
principi la castità, l’ardore e la costanza di Petrarca. Qui sicuramente c’è bisogno solo di un Davo 39,
non di un Edipo. La differenza fra amore fisico e poetico è infatti facilmente riconoscibile. L’amore
fisico è il desiderio della persona amata, mentre del poeta Orazio dice: “ama i versi, di questo solo
si cura”. Il poeta persegue una bella descrizione dell’amore; e questa gli riesce tanto meglio, quanto
più è lontano dalla frequentazione con l’oggetto amato. Così Petrarca, guardando per la prima volta
la sua Laura, non fu preso e irretito dall’avvenenza di lei;
[929]
ma, poiché il suo animo era già
commosso dalla solennità festiva, come gli si mostrò una figura graziosa ed immersa in adorazione,
dalla quale spirava, per la devota afflizione, un certo languore mentre bisbigliava preghiere dal
36
Secondo Schmidt, interpretando la domanda che conclude il § 10 dello scritto di Kreutzfeld (cfr. supra, nota
17) come se fosse un’affermazione, Kant equivoca sul senso della requisitoria di Kreutzfeld contro la distinzione fra
anima sensitiva e razionale. Adickes ribatte, a ragion veduta, che tutt’al più Kant interpreta il magis sobrii di Kreutzfeld
come attributo di psychologi e non come predicato, e di conseguenza vede comunque bene la pointe polemica da cui il
suo avversario è animato. In realtà, il responsabile dell’equivoco, se di equivoco si tratta, è proprio Kreutzfeld, il quale
– omettendo il sunt – può lasciar intendere che la sua domanda sia retorica ed ironica e dà adito ad un’interpretazione
come quella kantiana. Considerata la posizione dell’inciso quemadmodum Auctori videtur nel testo di Kant, si potrebbe
anche supporre che gli intenda riferirlo alla proposizione che precede (ossia alla temerarietà degli psicologi nel giungere
a conclusioni) e non voglia perciò attribuire a Kreutzfeld un’affermazione che questi non ha fatto. Per quanto concerne
poi l’aspetto teoretico, sicuramente – come nota Adickes – Kant si sentì punto sul vivo dalla critica alla divisione della
mente in funzioni, giacché essa colpiva direttamente la sua teoria delle facoltà e, più in generale, la sua concezione
antropologica.
37
L’opera menzionata da Kant, il cui titolo esatto è Primi principi della natura propriamente animale dei corpi
animali, era stata pubblicata da Johann August Unzer nel 1771. Secondo Unzer, oltre al substrato fisico, alla struttura
organica e alle forze meccaniche, i corpi organici possiedono forze governate da leggi proprie, diverse sia da quelle
meccaniche sia da quelle di cui si serve l’anima per influenzare il corpo. La sede di queste forse speciali sono il cervello
e i nervi. Per quanto concerne il presunto Morgan e la sua opera, Adickes comunica che dalle ricerche effettuate non
risultano né un autore inglese con quel nome né un libro con quel titolo. Egli suppone che Kant si riferisca alle
Considerazioni sui nervi e le malattie nervose di Samuel Musgrave, apparse nel 1776 e subito tradotte in tedesco.
Musgrave era seguace della teoria di W. Cullens, come del resto quel John Brown particolarmente apprezzato da Kant
per le sue tendenze vitaliste e per il tentativo di ricondurre ad un unico principio i processi organici. Secondo Musgrave,
i nervi influenzerebbero il battito cardiaco e la circolazione sanguigna e le malattie somatiche sarebbero provocate da
cause neurali. Anche Musgrave combatte la concezione materialista, secondo cui il ricorso a cause meccaniche e
chimico-fisiche sarebbe sufficiente a spiegare ogni fenomeno corporeo.
38
Secondo Kreutzfeld, Petrarca avrebbe compiuto una sorta di transfert: avrebbe cioè riversato sulla persona
di Laura l’impressione provocata in lui dall’atmosfera mistica del loro primo incontro.
39
E’ uno schiavo, personaggio dell’Andria di Terenzio. Quando il suo padrone fa una serie di allusioni che egli
non capisce, o non vuole capire, esclama: Davos sum, non Oedipus (v. 194).
92
profondo del cuore, d’un tratto gli nacque il pensiero che questa sarebbe stata una materia adatta ai
propri versi. Sennonché, dopo essere stato – per così dire – colpito da questa idea, non fece mai
alcun tentativo per riuscire a conquistare un giorno Laura; ma, per poter protrarre più a lungo i
lamenti ed i sospiri, fuggì l’amplesso di lei, tuffandosi esclusivamente nella propria afflizione
poetica, cioè finta e organizzata in funzione dell’apparenza [ad speciem]. Perciò anche quella
castità, santità e quella certa celestialità dell’amore che spirano dalle poesie di Petrarca e che sono
esaltate dall’Autore
[930]
possono essere intese più che a sufficienza e con estrema facilità, senza
ricorrere ad alcuna ipotesi che muova dalle fallacie dei sensi. Avendo abbracciato una nube al posto
di Giunone40, egli abbellì a modo suo, cioè entusiasticamente, il simulacro che aveva una volta
concepito nella mente, curandosi per altro non di Laura, ma dell'eleganza e dell'ardore dei propri
versi e della celebrità del proprio nome.
Le sarà noto un colloquio di Petrarca con il Papa. Avendogli questi detto una volta che era
addolorato per la sua sorte, ma che si sarebbe adoperato per far sì che egli potesse prendere la sua
Laura in moglie, il poeta esitò, e poi rifiutò apertamente, dicendo di temere che, se avesse sposato
Laura, i propri versi avrebbero perduto ogni ardore ed eleganza41.
[931]
Nel matrimonio infatti accade ciò che Lucrezio dice della morte: “Allora appunto la vera
voce prorompe: cade la maschera, rimane la realtà”42.
Ma mi affretto alla fine, e poiché in molti altre questioni alquanto ostiche da me toccate la
giurisdizione affidatami è stata se non altro posta fuori della portata dei dardi, ora mi rivolgo contro
quel luogo della Dissertazione che può muovere la bile del logico in quanto filosofo.
L’Eccellentissimo Autore, dopo aver abbondantemente discusso la fallacia del senso in forza della
quale trasferiamo erroneamente nei segni la forza e i poteri dei designati [signatorum], così
prosegue alla fine del § 18: …43.
40
Allusione al mito di Issione, che Zeus ingannò in questo modo per punirlo della sua inverecondia.
La fonte dell’episodio, quasi sicuramente apocrifo, è probabilmente costituita dalla biografia petrarchesca di
J.F. de Sade, che era all’epoca assai celebre.
42
Citazione imprecisa da Lucrezio, De rerum natura, III, 57-58: nam verae voces tum demum pectore ab imo
eliciuntur, et eripitur persona, manet res. La stessa citazione compare pure in ApH, § 33, a proposito del matrimonio
come terapia per il mal d’amore causato dall’immaginazione produttiva. Essa ritorna infine nell’Opus postumum Nel
contesto di un’osservazione sul significato del termine latino persona (Kant’s ges. Schriften, cit., Bd. XXI, 1936, p. 142;
trad. it., Zanichelli, Bologna 1963, p. 383).
43
L’erroneo scambio di signum e signatum, che conduce ad attribuire un valore magico a grafemi, numeri,
parole, ecc., è discusso da Kreutzfeld nei §§ 16 sgg. Dopo aver considerato come vittime di questo errore anche i mistici
moderni, da Jakob Böhme a Emanuel Swedenborg, alla fine del § 18 egli scrive: “Con un inganno poco diverso ha
incantato i logici scolastici dell’epoca moderna la costellazione dei termini sillogistici: barbara, celarent, ecc.; a tal
punto, che, trascurato il nesso interno delle premesse, essi hanno creduto che in quelle, per così dire, torture della
mente, si trovi una grande forza occulta per strappare verità di ogni sorta”.
41
93
[932]
Non dovrà forse l’Autore temere con questa accusa l’ira dei calabroni che ha
stuzzicato44? Infatti la schiatta dei logici è assai bellicosa, e difficilmente uno la provoca
impunemente. E qui certamente i logici sono accusati falsamente di inganno. Infatti non promettono
formule “nelle quali si trovi una grande forza occulta per strappare verità di ogni sorta”, come viene
qui loro rimproverato, ma mostrano soltanto un meccanismo concernente la posizione dei termini
nei sillogismi, affinché – allo stesso modo di quanto fanno i grammatici a proposito delle lingue –
divenga manifesta nell’uso generale dell’intelletto una formula generale per esprimere le
conoscenze [signandi cognitiones] senza avere alcun riguardo per la materia in esse contenuta45. Ciò
qui non può essere dibattuto46. Quando due
[933]
fanno la stessa cosa, non è la stessa cosa.
Comunque, una contesa fra due logici è amichevole. Ma se irrompe un nemico esterno, tutti
formano come una schiera e si gettano contro di lui.
Ma, ormai esaurita la faretra, pongo fine alla contesa. E innanzitutto mi congratulo di cuore
per l’impresa [da Lei] fin qui felicemente condotta. Poi auguro di cuore a Lei, Eccellentissimo
Signore, che si accinge a provvedere egregiamente alla Sparta che ha ottenuto47, un inizio del Suo
ufficio sotto gli auspici più favorevoli ed un felice successo. Abbondantemente istruito nelle belle
lettere, lettore e critico esperto di poeti di diverse lingue, tanto antiche quanto moderne, cultore
fervido e felice soprattutto delle magnifiche opere che ci sono state tramandate dai Greci, non può
accadere che Ella non dispieghi alla gioventù accademica un ampio campo per coltivare l’ingegno,
affinché, sconfitta la barbarie, essa stringa connubio con le Grazie, per quanto ciò possa aver luogo
senza suscitare l’invidia di Minerva, protettrice delle scienze e delle arti più utili. Mi auguro che
queste Sue fatiche
44
[934]
e questi Suoi meriti siano ricompensati anche dalla prosperità domestica
Irritare crabrones è espressione proverbiale, attestata in Plauto, Anfitrione, 707, cui corrisponde
propriamente il nostro “stuzzicare un vespaio”.
45
Questa presentazione a grandi linee concorda con il più dettagliato esame della “logica dell’uso generale
dell’intelletto” contenuto nel § I dell’Introd. alla Logica trasc. di KrV: essa astrae da ogni contenuto della conoscenza e
dalla differenza degli oggetti, tratta solo della forma, non ha principi empirici (e perciò psicologici, come sembrerebbe
per contro doversi ricavare dalle argomentazioni di Kreutzfeld), è una dottrina dimostrata e interamente a priori. Di
conseguenza è chiaro che essa non può fornire quel criterio di verità che invece Kreutzfeld le rimprovera di voler
perseguire.
46
Nel manoscritto di Kant questa frase e le tre successive sono collocate al margine inferiore del foglio
contenente quanto le precede. Non mi sembra indispensabile congetturare, come fa Meerbote, che non sia
sufficientemente chiaro a cosa si riferisca lo haec con cui essa inizia.
47
Kant trae probabilmente da Cicerone, Lettere ad Attico, IV, 6 (cfr. pure I, 20), ed adatta liberamente un
frammento del Telefo di Euripide passato in proverbio: Spa/rtan e)/laxej, tau/tan ko/smei [“Ti è toccata Sparta; ora
governala”]. Infondata la congettura di Schmidt (accolta da Meerbote), il quale – basandosi sull’iniziale minuscola di
spartam – suppone che Kant abbia coniato un neologismo latino sul calco del termine spa/rth, che designa il filo di
sparto usato per tracciare linee e, per metonimia, l’area tracciata, ossia – nel caso specifico – l’incarico ottenuto. Il senso
generale e l’intento retorico evidentemente non mutano; ma occorre osservare che, se avesse voluto indicare lo
strumento di misurazione o avesse equivocato sul referente di Spa/rtan, Kant avrebbe avuto a disposizione il latino
spartum. D’altro canto, da un punto di vista strettamente tecnico, va notato che sparta non sarebbe affatto un
neologismo, giacché veniva usato nel latino medievale come sinonimo di spelta.
94
come da una seconda fortuna e che al tempo stesso il sommo Nume Le conservi la vita e la salute, e
in pari tempo mi raccomando alla Sua benevolenza ed amicizia.
Mi rivolgo infine a Lei, esimio Risponditore, che – dotato dalla natura di eccellenti doti
dell’animo, non superficialmente educato sia nelle belle lettere sia nelle scienze utili, e al tempo
stesso amabile per la dolcezza del carattere – ho annoverato per lungo tempo fra i miei più uditori
più eletti. Mi congratulo innanzitutto di cuore per il saggio di ingegno e dottrina che Ella ha fino a
questo momento lodevolmente offerto. E poiché ormai si approssima il tempo che, conformemente
ai Suoi meriti, l’opera cui Ella si è attivamente dedicato e la seminagione che ha sparso
copiosamente siano ricompensate con una larga messe, auguro alla Sua speranza a buon diritto
concepita un prospero e non esitante successo48. Inoltre, prego che il sommo Nume La protegga e
La serbi incolume.
Stiano in salute e siano benevoli [verso di me].
48
Nell’originale il passo è fortemente sconnesso: Et cum iam tempus ingruat, quo, quam impiger collocasti
operam et quam liberaliter sparsisti segetem, illa tibi pro meritis larga messe rependatur. Spei tuae iure conceptae
fortunatos et non cunctantes successus opto. Adotto qui la proposta di Adickes di leggere il punto come una virgola e
l’iniziale maiuscola seguente come un lapsus calami. Accettabile è però anche la soluzione di Schmidt, accolta da
Meerbote: sostituire cum con tum e leggere pertanto: “E poi: venga presto il tempo in cui l’opera… e la seminagione…
siano [o: saranno] ricompensate con una larga messe. Auguro alla Sua speranza…”. Meno sostenibile è l’obiezione di
Schmidt, secondo il quale se si conservasse il cum, il primum del periodo precedente rimarrebbe sospeso. In realtà,
come sostiene Adickes, al primum fanno da pendant i successivi Et dell’inizio e ceterum della fine del passo in
questione.
Christian Jakob Kraus (1753-1807) fu non solo uno degli scolari prediletti, ma anche amico di Kant e
appartenne alla cerchia dei suoi commensali più assidui. Nel 1781 divenne ordinario di filosofia pratica e scienze
dell’amministrazione dello stato [Kameralwissenschaften] nell’Università di Königsberg.