SILVIA NICCOLAI - ILENIA RUGGIU
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE:
QUALCHE RIFLESSIONE SULL’«ARGOMENTO CULTURALE»
E LE RESPONSABILITÀ DELLA GIURISDIZIONE*
SOMMARIO: 1. Un exemplum di interpretazione sistematica della Costituzione.
– 2. Il caso della donna rom che in Italia, anni 2000, chiede l’elemosina
accompagnata dal figlio. – 3. La soluzione adottata dalla Corte di cassazione. L’accattonaggio come una pratica culturale. Una definizione
piena di buone intenzioni, ma: controproducente, probabilmente erronea, sicuramente non sufficientemente comprovata. – 4. Sulla possibilità
di individuare la pratica culturale, anziché nel manghel, nelle caratteristiche della famiglia Rom e in particolare sulla relazione madre-figlio.
Una scelta forse più corretta, certamente più dialogante, di sicuro altrettanto, se non più, controproducente. – 5. Sulle ragioni che possono
avere spinto il giudice a utilizzare l’argomento culturale. Il peso di un
graduale formarsi dell’idea della diversità culturale come bene pubblico.
Il peso della argomentazione di parte. – 6. Ambiguità dell’argomento
culturale. – 7. Per una maggiore cura del giudizio.
1.
Un exemplum di interpretazione sistematica della Costituzione
A rileggerlo oggi, a distanza di quasi trent’anni dalla data in
cui fu pubblicato, il saggio che Lorenza Carlassare ha dedicato,
nel 1980, a «Posizione costituzionale dei minori e sovranità popolare» nello storico volume curato da M. De Cristofaro e A.
* Questo
omaggio a Lorenza Carlassare nasce da un dialogo tra le due autrici,
sviluppato incrociando le loro idee sul multiculturalismo e sull’argomentazione. Sono
di Silvia Niccolai i §§ 1, 5, 7, sono di Ilenia Ruggiu i §§ 2, 4, 6, mentre il § 3 è da attribuire inscindibilmente a entrambe.
2
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Belvedere sulla «Autonomia dei minori tra famiglia e società»1,
risalta per una importante caratteristica, che è stata poi la caratteristica di tutta una cultura costituzionalistica profondamente
innervata dall’impegno a valorizzare le componenti progressiste
ed emancipatrici del disegno costituzionale, una cultura che dava
in quegli anni i suoi risultati più consistenti e duraturi anche, e
specialmente forse, sotto il profilo della capacità della Costituzione di ispirare l’interpretazione e l’applicazione delle altre
branche del diritto2. Questa caratteristica è la scelta, classica, per
una interpretazione sistematica del disegno costituzionale, che
viene adottata per la sua capacità di tenere insieme la lettera e lo
spirito della Costituzione ossia in quanto una interpretazione che
si vuole ad un tempo rispettosa della legalità (costituzionale),
avulsa da solipsismi e ideologismi, ma al tempo stesso innervata
dalla dimensione dei principi.
Scrive Carlassare in apertura del suo saggio:
«è dal contesto globale della Costituzione, dai principi fondamentali che la ispirano, dalla individuazione del tipo di società
che essa prefigura che si potranno trarre criteri interpretativi idonei a leggere correttamente come parte di un tutto gli stessi articoli 29 e 30 della Costituzione.
«Fermando invece l’attenzione esclusivamente su queste ultime disposizioni, ritagliate dal testo complessivo, non si potrà ricavare che una nozione monca e quindi arbitraria, in quanto disancorata dal sistema e lasciata alla scelta ideologica del singolo interprete»3.
L’apparente ossequio che gli art. 29 e 30 fanno alla famiglia
come «società naturale fondata sul matrimonio» e al «diritto e
1 Milano,
Giuffrè, 1980.
letteratura di quell’epoca si ricordino soltanto come esempi per richiamare un intero clima ideale P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, apparso
nel 1982 per Il Mulino; S. RODOTÀ, Alla ricerca delle libertà, Bologna, Il Mulino, 1977;
A. PIZZORUSSO, Stato, cittadino, formazioni sociali: introduzione al diritto pubblico, Bologna, Zanichelli, 1978, il volume inaugurale del Commentario alla Costituzione, Art. 112, Bologna, Zanichelli, 1975.
3 L. CARLASSARE, op. cit., 39. Corsivo nostro.
2 Nella
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
3
dovere dei genitori di istruire ed educare i figli», che potrebbe
portare a una «ricostruzione della struttura familiare in chiave
conservatrice ed autoritaria»4 è così agevolmente superato grazie
alla necessità di «non disgiungere la lettura degli artt. 29 e 30 da
una serie di altre disposizioni costituzionali» e in particolare
l’art. 2 e 3 comma 2, i quali, consentendo di annoverare la famiglia tra quelle formazioni sociali orientate al rispetto e al pieno
sviluppo della personalità umana, fanno concludere che
«il modello di famiglia autoritaria non ha alcuno spazio in Costituzione, i rapporti tra i componenti del gruppo sono basati sul
principio paritario e non su quello gerarchico, in vista dell’arricchimento della personalità e della libertà di ciascuno dei suoi componenti»5.
Grazie alla lettura sistematica prescelta, e forse anche in
parte grazie alla peculiare prospettiva del saggio, che è quella di
indagare gli spazi di autonomia dei minori nella partecipazione
alla vita politica, il principio che maggiormente risalta, il principio
che viene posto al centro della visione costituzionale della famiglia
è quello pluralista.
Una volta stabilito – grazie a una ricostruzione ricca e ampia
della idea di diritti di partecipazione politica che li estende oltre
il momento della espressione del voto e valorizza piuttosto «l’insieme degli altri modi in cui si elabora, si forma, si determina, si
modifica e si mantiene l’indirizzo politico nel gruppo sociale»6 –
che «i minori sono parte del popolo sovrano, titolari di diritti costituzionalmente garantiti attraverso i quali si estrinseca la loro
partecipazione alla società politica […], la tutela dei medesimi
deve essere assicurata anche all’interno della formazione sociale
‘famiglia’»7, Carlassare nota:
4 Ib.,
39 e 40.
42. Corsivo nostro.
6 Ib., 47. Ciò dà modo a Carlassare di sviluppare considerazioni sul concetto di
sovranità popolare di grande vigore e perdurante attualità, laddove l’A. sottolinea che
i diritti politici non si esauriscono nell’esercizio del diritto di voto, né il popolo si esaurisce nel corpo elettorale.
7 Ib., 49.
5 Ib.,
4
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«A fronte del diritto e dovere di istruire ed educare proprio
dei genitori non vi è il nulla, ma diritti costituzionalmente tutelati
propri degli stessi minori, l’esercizio dei quali non può subire limitazioni a discrezione dei primi, e certamente non a causa di motivazioni puramente ideologiche»8.
Il rinvio in chiusura del saggio a una sentenza dei Tribunale
dei minorenni di Bologna, emanata nel 1971, permetteva a Carlassare di affermare conclusivamente:
«All’interrogativo ‘se la patria potestà possa comprendere il
diritto di contrastare, anche mediante restrizioni personali, le
scelte ideologico-culturali del figlio’ si risponde negativamente in
base ai principi della Costituzione: la libertà di pensiero, l’art. 49
in primo luogo, e la norma fondamentale dell’art. 2»9.
Il portato di questa affermazione è piuttosto chiaro: una famiglia di cultura politica conservatrice non ha il diritto di ostacolare i percorsi di identificazione politica dei figli che li conducano verso scelte differenti. In tal modo, il saggio di Carlassare
suggerisce con chiarezza che, proteggendo i diritti dei figli nei
confronti dei genitori, la Costituzione protegge la dinamica pluralista che in questo rapporto può essere implicata (e che gli anni ’60
e ’70 si erano incaricati di mettere in evidenza come uno dei
maggiori portati di quello che allora andava sotto il nome di
‘conflitto generazionale’).
L’interpretazione sistematica sortiva così l’effetto, suo proprio, di far fuoriuscire dall’insieme del disegno e dei principi costituzionali una regola di tipo generale (il genitore non ha il diritto di comprimere le attività in cui il figlio esprima i suoi diritti
di partecipazione politica). E l’immagine che sortiva dal saggio
di Carlassare sui diritti dei minori era una dove la famiglia, struttura portante della società, teatro del rapporto tra genitori e figli,
tra generazioni, modi di pensare, scelte di vita diverse diventava
lo scenario nel quale riconoscere, e proteggere, le spinte trasfor8 Ib.,
9 Ib.,
49, corsivo dell’Autrice.
50.
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5
mative che, a quell’epoca, attraversavano la nostra società; un
terreno nel quale prendere posizione sui contrasti di opinioni e
di valori che percorrono la convivenza, auspicare una evoluzione
del senso comune più aperta ed inclusiva.
D’altra parte Carlassare, da ottima giurista, sapeva, come
ognuno di noi sa, che, pur in presenza di una regola generale,
poi bisogna andare a vedere in concreto. È vero che non si fa diritto limitandosi a dire la propria opinione, da una parte. Ed è altrettanto vero, dall’altra parte, che fare diritto impone una presa
di responsabilità che grava direttamente sull’interprete e richiede
la sua valutazione. Anche in presenza della regola generale per
cui i genitori devono rispettare le scelte politiche dei figli, in una
concreta controversia si sarebbe pure dovuto, e si dovrebbe, apprezzare: questo figlio, quanti anni ha; a che tipo di manifestazione vuole andare; con quali motivazioni; quali sono le ragioni
del dissenso che i genitori hanno espresso, quali le modalità, con
cui quel dissenso si è manifestato.
La regola generale espressa dal sistema ha una grande importanza, perché offre un orientamento, doveroso, alla valutazione dell’interprete; la quale però è altrettanto doverosamente
chiamata a misurarsi con la concreta controversia che lo interpella, che presenta sempre caratteri propri, a partire dalla temporalità in cui si manifesta.
2.
Il caso della donna rom che in Italia, anni 2000, chiede l’elemosina accompagnata dal figlio
Quando Lorenza Carlassare consegnava il suo saggio sui minori e sulla famiglia, e lo imperniava sull’argomento sistematico,
il teatro era quello dei tardi anni ’70, primi anni ’80: la famiglia
era la nostra famiglia, la nostra famiglia borghese messa in discussione dalle tensioni contestative degli anni ’60 e ’70, così
come il lavoro – tema gemello a quello della famiglia per come
ha interrogato la nostra identità costituzionale – era il lavoro
della nostra gente, terreno dei conflitti di classe, politici e culturali di un’Italia che si era urbanizzata e industrializzata con un
6
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processo che si era riverberato con forza peculiare fino agli atteggiamenti interpretativi della magistratura e al dibattito accademico10. Il tema di un passato autoritario e di un presente capace di rinnovamento era l’anima dell’approccio a queste tematiche, e la centralità del richiamo alla Costituzione si spiegava per
essere quest’ultima il documento chiamato naturalmente ad accompagnare il farsi di una identità nazionale che dal congedo col
passato autoritario – quanto di quest’ultimo è ancora presente
proprio nelle pagine di Carlassare che andiamo ricordando! –
traeva la sua sostanza. Era la famiglia degli italiani, il lavoro degli italiani, la Costituzione degli italiani, non c’era nemmeno bisogno di dirlo, perché era prima che l’integrazione comunitaria
manifestasse la sua influenza oltre la dimensione del mercato comune, prima della consapevolezza della globalizzazione, prima
che l’Italia diventasse un paese ad alta immigrazione, prima delle
famiglie multietniche e del recintarsi dei lavori più umili, dello
sfruttamento e della segregazione, intorno a comunità di altri.
Oggi la famiglia diviene, molto spesso, il teatro di un confronto tra culture, tra modi di vivere, tra mentalità, tra costellazioni di valori. Lungo la domanda su come un genitore deve
comportarsi verso un figlio possono innescarsi, e di fatto si innescano, conflitti ideologici molto forti, che sprigionano la dinamica del rapporto tra «noi» e gli «altri». Questi conflitti danno
l’occasione di tornare a interrogarsi sull’atteggiamento interpretativo, se si vuole sul metodo, con cui a questi temi guardare, su
come «fare giustizia» quando lo scenario sistematico è incerto e
la polarizzazione delle valutazioni particolarmente forte11; e in
questo breve scritto, tenendo con noi la proposta metodologica
10 Si
ricordi, sempre a mero titolo di esempio, il dibattito sullo sciopero politico
e le voci, nelle scelte diverse, uguali nell’intensità di impegno, di S. PANUNZIO, Sciopero
e indirizzo politico, Roma, Arti grafiche pedanesi, 1974; V. ONIDA, Lo sciopero politico
è un diritto, in Relazioni sociali, 1970, 7 ss.
11 Questo è particolarmente vero in contesti multiculturali. Tra la vastissima bibliografia, oltre quella di volta in volta citata in nota, S. BENHABIB, La rivendicazione
dell’identità culturale: eguaglianza e diversità nell’era globale, (tr. it., The claims of culture) Bologna, Il Mulino, 2005; C. TAYLOR, Le radici dell’io. La costruzione dell’identità
moderna (1989), Milano, 1993; Y.M. YOUNG, Le politiche della differenza (1990), Mi-
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
7
di Lorenza Carlassare, ci proveremo commentando una sentenza, che ha dato da discutere all’opinione pubblica, e alle due
autrici di questo scritto: la sentenza n. 44516 del 28 novembre
2008 pronunciata dalla Corte di Cassazione, V Sezione penale, in
materia di accattonaggio.
Il fatto che ha portato alla decisione vede una donna e un
minore di etnia Rom che mendicano per la strada. La madre
viene trovata per due volte dalla polizia con una bambina di pochi mesi in braccio e il bambino di quattro anni che chiede l’elemosina ai passanti. Il bambino porta poi i soldi raccolti alla madre, che pure mendica, e ad un uomo che si trova con la stessa.
Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello condannano la donna ai sensi dell’art. 600 c.p. che, modificato dall’art.
1 della legge 228/2003, introduce il nuovo reato di «riduzione in
servitù»12. La donna viene accusata, altresì, di maltrattamenti in
famiglia (art. 572 c.p.) in quanto il bambino per quattro ore non
si era mai seduto e vestiva soltanto in pantaloni e maglietta
(come del resto la madre) pur essendo inverno. I giudici di merito condannano la donna a 5 anni di reclusione per il reato di riduzione in servitù, considerando quello di maltrattamenti assorbito nello stesso. La Cassazione ribalta la decisione e accoglie,
almeno parzialmente, il ricorso della madre, annullando la senlano, Feltrinelli, 1996; C. GALLI (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, Bologna, Il Mulino, 2006; A. PHILLIPS, Multiculturalism without culture, Princeton, Princeton University press, 2007; A. EISEMBERG, «The debate over Shari’a law in Canada», in
Arneil et al (eds.) Sexual justice/cultural justice, London, Routledge, 2007; A. EISEMBERG (ed.), Minorities within minorities, Cambridge, 2005; W. KYMLICKA, Multicultural
Odysseys. Navigating the new international politics of diversity, Oxford University
Press, 2007.
12 Il nuovo reato di «riduzione in servitù» sostituisce la più ambigua fattispecie
di «condizioni analoghe alla schiavitù» ed è stato inserito per adempiere obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia di fronte ai nuovi fenomeni di tratta di persone, di
racket dell’accattonaggio o della prostituzione spesso connessi ai processi migratori.
Sono in particolare la Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale, i
due Protocolli allegati sulla tratta delle persone e sul traffico dei migranti (Palermo 1215 dicembre 2000) e il Piano globale per la lotta alla immigrazione clandestina ed alla
tratta degli esseri umani siglato a livello europeo nel 2000 a costituire il background
della modifica al codice penale realizzata dalla legge 228/2003.
8
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tenza della Corte d’Appello ed imponendo una rideterminazione
della pena sulla base del solo reato di maltrattamenti. Si tratta di
un reato con pena edittale minore di quello di riduzione in servitù, che dovrebbe consentire alla donna di beneficiare della
condizionale senza comportarne l’allontanamento dal bambino.
La Corte di Cassazione usa tre argomentazioni per dimostrare che la fattispecie «riduzione in servitù», in questo caso, non
può considerarsi integrata. Premette la Cassazione: «per servitù il
legislatore intende uno stato di soggezione continuativa in cui una
persona sia ridotta o mantenuta a scopo di sfruttamento sessuale
e/o economico della persona stessa, in particolare mediante la costrizione a prestazioni lavorative o sessuali, attuata mediante violenza, minaccia o abuso di autorità, soggezione che si traduca in
una integrale negazione della libertà e dignità umana del soggetto
passivo, bene quest’ultimo indisponibile». Ma osservando il caso
concreto, si chiede la Corte, è possibile ravvisare tale abuso d’autorità? No: «La situazione è ben diversa però, nel caso della
donna, madre dei fanciulli che porta con sé, che pratichi l’accattonaggio per alcune ore del giorno – o perché tale pratica faccia
parte di una tradizione culturale del gruppo etnico al quale appartenga o perché trovasi in condizioni di grave indigenza economica (o per tutte e due le ragioni, che spesso si sovrappongono) –
e che si faccia anche aiutare dal figlio».
Le tre argomentazioni spese dalla Cassazione per imporre
l’annullamento della condanna sono, dunque, le seguenti:
1) l’attività dell’accattonaggio si svolge soltanto dalle ore
9,00 alle ore 13,00, per cui «è ben possibile che, dopo avere esercitato la mendicità nelle ore del mattino, nella restante parte
della giornata» la madre «si prenda cura dei figli in modo adeguato cercando di venire incontro alle loro necessità e consentendo loro di giocare e frequentare altri bambini». In questo
senso l’attività non lede la dignità del bambino (argomento inerente l’interesse del minore);
2) tale attività serve alle necessità della famiglia, argomento
«economico» che, come torneremo a dire, la Corte di Cassazione
si limita ad accennare;
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9
3) non si può criminalizzare una condotta che è una pratica
culturale (argomento culturale). Individuare se vi sia o no «abuso
di autorità», elemento necessario per parlare di riduzione in servitù, non è facile in generale – dice la Cassazione – ma «ciò è
particolarmente vero per alcune comunità etniche ove, ad esempio, la richiesta di elemosina costituisce una condizione di vita
tradizionale molto radicata nella cultura e nella mentalità di tali
popolazioni… È necessario prestare attenzione alle situazioni
reali al fine di non criminalizzare condotte che rientrino nella
tradizione culturale di un popolo».
Subito dopo avervi fatto ricorso, la Corte di Cassazione
cerca di chiarire il problema della collocazione dei comportamenti culturali nel sistema delle fonti, offrendoci il suo tentativo
sistematico. Si tratta di nuovi diritti costituzionali? E come interagiscono con gli altri diritti? Utilizzando un linguaggio che verrebbe da definire rivelatore (la Corte non parla mai di diritti culturali nel corso di tutta la sentenza, preferendo ricorrere al termine «pratiche culturali», con una scelta che forse intende
comunicare l’inferiorità gerarchica di tali pratiche), la Cassazione
precisa: «fermo restando, però, che se determinate pratiche, magari anche consuetudinarie e tradizionali, mettano a rischio diritti fondamentali dell’individuo garantiti dalla nostra Costituzione o confliggano con norme penali che proprio tali diritti cercano di tutelare, la repressione penale è inevitabile. È fin troppo
evidente, infatti che consuetudini contrarie all’ordinamento penale non possano essere consentite».
La sentenza si muove nel caratteristico e complesso equilibrio del giudizio di legittimità che la Cassazione tende – non
senza che ciò sia fonte di discussione13 – a realizzare, dove l’e13 Nell’economia del presente lavoro il tema non può essere affrontato, ma si
tratta della questione per cui la Cassazione è spesso vista, ormai, come un giudice di
terzo grado nel merito, che non è in grado di assicurare la funzione nomofilattica. Per
un approfondimento v. M. FABIANI, Riflessioni inattuali su formalismo giudiziario e quesito di diritto, in Foro italiano, anno 2008, parte V, col. 226. Come verremo dicendo nel
testo, la sentenza presenta un duplice livello di discorsi. Da una parte, la Cassazione
10
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nunciazione del punto di diritto non va esente da una considerazione esplicita del caso concreto. Nella sentenza che stiamo commentando, la «situazione reale» che la Cassazione tiene sotto gli
occhi sembra essere guardata in una duplice prospettiva. Da una
parte i caratteri reali della fattispecie rilevano per concludere che
nel caso non ricorrono gli estremi del delitto di riduzione in servitù; dall’altra parte, quei caratteri reali della situazione sono citati come prova del ricorrere, nel comportamento della donna
verso il figlio, di una pratica culturale. In tal modo la Corte – e
su ciò ritorneremo – viene a dire due cose, invero diverse tra
loro: che la fattispecie di reato invocata non sussiste, perché nel
caso concreto non ve ne sono gli estremi (giudizio verso il passato); che la fattispecie considerata è una pratica culturale e che
le pratiche culturali non devono essere criminalizzate (giudizio
verso il futuro).
tende alla nomofilachia, quando fa l’enunciazione del punto di diritto, con il modello
sul rapporto ideale tra diritti culturali e diritti costituzionali e quando spiega al giudice
come va letta la fattispecie «riduzione in servitù». Ma queste sono le parti della sentenza che, come cercheremo di dimostrare, sono anche le più esposte a criticità di vario genere. Dall’altra parte, la Corte mostra un modo di valutare, che tiene conto del
caso concreto. Facendo così viene meno alla sua funzione? O non sta forse insegnando
un’idea di nomofilachia che invece di far perno su una «uniforme interpretazione» del
dettato legislativo, apprezzata da chi vuole mettere in primo piano la voluntas legislatoris (e che porterebbe inevitabilmente in primo piano le definizioni generali, i ‘diritti
culturali’ o i diritti ‘universali’ e gli equilibri tutti astratti che si possono costruire con
questi strumenti), quanto piuttosto su una attitudine del giudice a ricercare un retto,
equo equilibrio tra opposte o divergenti valutazioni o interessi, una nomofilachia come
insegnamento non solo sul «come risolvere» una controversia, ma su «che atteggiamento assumere» nel giudicare. Scegliendo di valorizzare questo, l’importanza del
modo di giudicare, le parti critiche della sentenza appaiono quelle più generalizzanti;
quelle vitali diventano quelle che mettono in primo piano il ruolo valutativo e la responsabilità del giudicante e la sentenza non si fa criticare per voler troppo impingere
nel caso concreto, ma per farlo in modo discontinuo e senza un sufficiente impegno
argomentativo e probatorio. Di «nomofilachia ragionevole» ha parlato S. TISCINI, Il
giudizio di cassazione riformato, in Giusto Processo Civile, 2007, 527 ss.; sul tema v. anche S. CIARLONI, Nomofilachia e riforma del giudizio di cassazione, in A. MARIANI MARINI, D. CERRI (a cura di), Diritto vivente. Il ruolo innovativo della giurisprudenza, Pisa,
Ed. Plus, 2007, 41 ss.; M. FRANCESCHELLI, Nomofilachia e Corte di cassazione, in Giust.
cost., 1986, 39 ss.
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
3.
11
La soluzione adottata dalla Corte di cassazione. L’accattonaggio come una pratica culturale. Una definizione piena di
buone intenzioni, ma: controproducente, probabilmente erronea, sicuramente non sufficientemente comprovata
Il riferimento della Cassazione all’argomento culturale è un
segno di come l’attenzione alla diversità culturale stia cominciando ad entrare anche nei ragionamenti delle Corti italiane14, e
rappresenta solo una relativa novità nel diritto italiano, che sta
vivendo forme di riconoscimento della diversità culturale sotto
forma di diritti culturali anche eventualmente «derogatori» del
diritto penale15. Il riferimento ai diritti culturali è svolto da parte
della Corte di cassazione con ottime, trasparenti intenzioni: volontà di non convalidare un atteggiamento irragionevolmente
persecutorio cui si potrebbero prestare le scelte del legislatore,
attenzione a ricordare che il ricorso al diritto penale deve essere
circondato da una preoccupazione di congruità rispetto alla con14 La nozione di diritti culturali ha preso piede nel nostro dibattito specialmente
a partire dagli anni 2000, v. in particolare A. FACCHI, I diritti nell’Europa multiculturale, Laterza, Bari, 2001; per un approccio di tipo categoriale e definitorio, J. LUTHER,
Le frontiere dei diritti culturali in Europa, in G. ZAGREBELSKY (a cura di), Diritti e costituzione nell’Unione europea, Laterza, Bari, 2003, 221 ss. Per il dibattito a livello
comparato v. M.C. FOBLETS, A. DUNDES RENTELN (ed.), Multicultural Jurisprudence.
Comparative Perspectives on the Cultural Defense, Hart Publishing, Oxford and Portland Oregon, 2009; F. BASILE, Immigrazione e reati «culturalmente motivate». Il diritto
penale nelle società multiculturali europee, Milano, CUEM, 2008. Sull’«esimente culturale» v. le notazioni molto accurate e gli ampi rimandi di G. BRUNELLI, Prevenzione e
divieto delle mutilazioni genitali femminili: genealogia (e limiti) di una legge, in Quad.
cost., 2007, 3, 567 ss. spec. 674-576, la quale opportunamente osserva che «al di là dei
numerosi e fondati argomenti critici che possono essere usati contro le cultural defenses [si tratta] di un modo riduttivo di affrontare la questione: in realtà, la funzione del
giudice può essere ben più significativa laddove ci si ponga il problema di interpretare
norme vigenti in chiave di protezione effettiva dei diritti delle vittime o delle potenziali
vittime di queste pratiche».
15 V. in tal senso anche la sentenza del Tribunale Penale di Cremona del 19 febbraio 2009 che assolve dalla condanna di porto abusivo d’armi un Sikh che circolava
con un pugnale rituale, peraltro citando espressamente una sentenza di analogo tenore
della Corte suprema canadese, e la sentenza 923, del 3 giugno 2008 della Corte di Cassazione, VI Sezione penale, che ha ritenuto non colpevole di detenzione di marijuana
un membro della religione rastafariana che usava la droga come erba sacra rituale.
12
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creta lesività delle fattispecie. Così la Corte di cassazione ribadisce che la tutela del minore è un bene primario della nostra convivenza sociale e del nostro quadro costituzionale, per cui i comportamenti che possano includere profili di sfruttamento, abuso
o maltrattamento del minore devono essere guardati con la massima attenzione, senza però dimenticare che la dimensione punitiva dovrà entrare in causa solo allorché il bene del minore si
dimostri concretamente minacciato, e non in nome di una condanna annunciata in generale di comportamenti, come l’accattonaggio, considerati in modo astratto16.
L’intenzione della Corte era di mostrare uno sguardo benevolo nei confronti della diversità culturale. Uno sguardo benevolo nei confronti della diversità culturale può implicare cose diverse: dalla semplice intenzione di non aggressione nei confronti
di questa differenza a quella – che si rivela come la più difficile
da perseguire – di cercare i modi di instaurare un contatto con
l’altro che possa essere scambievole, benefico dunque anche per
la cultura, chiamiamola così, «di accoglienza».
Bisogna riconoscere, sfortunatamente, che qualunque intensità avesse la benevolenza della Cassazione nei confronti della diversità culturale, nei fatti l’impiego della figura della pratica culturale è stato in questa ipotesi indubbiamente controproducente:
come da programma, esso ha valso soprattutto a fomentare reazioni, veementi per non dire scomposte, a difesa della «nostra» o
supposta tale, cultura. La decisione ha scatenato, infatti, aspre
critiche nell’opinione pubblica non disposta ad accettare che in
nome di una pratica culturale come l’accattonaggio si potesse
giustificare quella che veniva percepita come una lesione dell’interesse del bambino17. La risposta del legislatore alla sentenza è
16 Anche in altre decisioni ispirate ad un altro tipo di diversità, quella che deriva
dal corpo, si rileva l’importanza fondamentale dell’attenzione da dare «alla sfaccettata
realtà dei fatti», P. VERONESI, Il corpo e la costituzione. Concretezza dei «casi» e astrattezza della norma, Milano, Giuffrè, 2007, 287-290.
17 Si vedano, ad esempio, i commenti in Mendicante a quattro anni. I giudici: non
è schiavitù. ‘È la tradizione dei Rom’. Insorge il centrodestra e Se era italiano la donna
sarebbe in cella in Il Corriere della Sera, 29 novembre 2008.
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
13
stata di totale chiusura all’approccio culturale di inasprimento
delle sanzioni proprio con il dichiarato scopo di contrastare decisioni simili18.
Oltre che controproducente, la scelta di qualificare come
tradizione culturale del popolo rom l’accattonaggio – o manghel
– è stata molto probabilmente sbagliata, o, per dir meglio, è altamente contestabile.
Contro l’ipotesi di qualificare il manghel come pratica culturale militano in effetti diverse ragioni, la prima delle quali è che,
piuttosto che una pratica culturale, esso potrebbe a buon diritto
essere considerato la conseguenza forzata dei processi di industrializzazione e urbanizzazione che hanno vissuto le popolazioni
Rom, un prodotto del tracollo delle attività tradizionali quali il
commercio del rame, dei cavalli e le attività circensi dato dalle
trasformazioni rapide di una cultura di contatto, quella che possiamo definire latu sensu occidentale. In questa luce, in una luce
che tenga conto della storia del popolo rom, il manghel appare,
piuttosto, una semplice strategia di sopravvivenza; considerarlo
come una pratica culturale, pur con lodevoli intenzioni, rischia –
e qui gli aspetti fallaci del ricorso alla figura della pratica culturale si legano di nuovo alle sue implicazioni, o conseguenze,
inopportune – di negare il problema della discriminazione e dell’ingiustizia sociale di cui sono vittime i Rom e i Sinti nella nostra
società.
Un altro argomento nel senso che l’individuazione della pratica culturale è stata erronea proviene poi dalle immediate reazioni delle varie comunità rom. Da un lato, la sentenza è stata salutata con favore ed è stata percepita come una sentenza in loro
difesa e come un atto di accusa contro le politiche anti-nomadi.
Tuttavia, nessuna comunità ha condiviso l’idea del manghel
come pratica culturale, leggendola prevalentemente come un
18 Nel
d.d.l. A.S. 733, approvato in Senato il 5 febbraio 2009, è stato previsto il
«reato di accattonaggio con minore», che prevede come conseguenza automatica la
perdita della potestà genitoriale. Si tratta, se venisse approvata in via definitiva, di una
disposizione gravissima che porterebbe a spezzare molti legami familiari.
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fatto storico e in alcuni casi come uno stereotipo che continua in
qualche modo a perpetuare discriminazioni19.
È vero, d’altronde, che non mancano ragioni che potrebbero corroborare la scelta della Cassazione. Ad esempio, si potrebbe sostenere che il manghel è una pratica culturale in quanto
rappresenta simbolicamente la questua praticata nelle grandi religioni dell’India, territorio in cui affondano le radici Rom20. Oppure si potrebbe dire che il mendicare può essere una pratica di
vita che si ricollega alla condanna per il lavoro salariato: infatti,
in alcune comunità rom (perché questa è un’altra questione: l’altro non è, come a noi appare, compatto: a dimenticarlo, si manca
di rispetto insieme, alla serietà del tema e ai doveri del giudice)
l’idea di «vendere il proprio tempo» suscita forte avversione, è
vista come una forma di prostituzione.
Vertendo sulla «qualità»21 di una condotta, un fatto o una
azione, tutte le valutazioni giuridiche per loro natura sono contestabili – specialmente quelle che concernono temi quali la qualificazione di una condotta come pratica culturale o meno – e il
giudice, in quanto esperto di valutazioni su cose controverse,
19 V.
le dichiarazioni della Federazione Rom e Sinti Insieme a seguito della sentenza in http://sucardrom.blogspot.com/search?q=manghel+sentenza e in http://coopofficina.splinder.com/post/19188720/Il+. Siamo grate ad Eva Rizzin per le sue osservazioni e chiarimenti in ordine alla generale non accettazione da parte delle comunità
Rom del manghel come propria pratica culturale.
20 Si vedano le osservazioni in http://www.everyonegroup.com/it/EveryOne/
MainPage/Entries/2008/12/3_Rom_e_manghel,_Rom_milionari.html.: «nella cultura
Rom, l’elemosina non è un delitto, ma ha un valore evangelico e sociale; grazie al ‘manghel’ il popolo, sempre perseguitato per motivi razziali attraverso i secoli, è riuscito a
sopravvivere e i bimbi Rom sono orgogliosi di partecipare a questa attività che salvò la
vita a tante generazioni di ‘nomadi’. Condannare un Rom per il ‘manghel’ non è lontano all’idea di condannare un ebreo perché si reca in sinagoga a pregare e chiedere
aiuto a Dio». Anche se l’autore poco dopo precisa: «L’elemosina non fa parte della
cultura Rom, perché i Rom, da sempre, cercano di ottenere condizioni di vita identiche agli altri popoli, ma sicuramente fa parte della loro Storia, quale estremo mezzo di
sussistenza per generazioni».
21 A. GIULIANI, La controversia. Contributo alla logica giuridica, Pavia, 1966., 8587: «i problemi qualitativi sono relativi a situazioni di conflitto, perché l’area della
qualità è quella dell’ambiguo, del preferibile, delle questioni non chiare ed evidenti.
[…] L’area della qualità è quella riferita ai valori».
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
15
non dovrebbe sottrarsi al proprio primo dovere in questi frangenti, che è quello di preoccuparsi della prova, cioè di andare
alla ricerca di buone ragioni su cui fondare il proprio convincimento22, nella consapevolezza che «la qualità non permette un
accordo completo su tutte le questioni al di fuori del tempo, non
esiste un criterio valido in assoluto che prescinda dalle circostanze e dalla natura del fatto. La soluzione implica ricerca»23.
La Corte di Cassazione, invece, non si sofferma a motivare
le sue ragioni, non discute, non pondera le diverse possibili prospettive in cui la questione del manghel può essere vista24. Potremmo pensare, immaginare, supporre che la Corte abbia dedotto un elemento culturale da una situazione di fatto che vede
gran parte dell’economia dei Rom reggersi attualmente su un duplice binario: la raccolta del ferro vecchio per gli uomini, l’elemosina per le donne (peraltro, con una partecipazione dei bambini in entrambe le attività); possiamo pensare che la Corte abbia
inteso limitarsi a fare propria la strategia della difesa. Era stato,
infatti, l’avvocato della madre, come torneremo a ricordare, ad
utilizzare tale argomento.
Resta l’elusione di una precisa e doverosa componente del
giudizio (ricercare, per addurle, buone ragioni, che non saranno
mai definitive, certe, ma devono essere persuasive, convincenti).
Ciò si riverbera in una sorta di rimozione della «pratica culturale», che pur viene difesa, la quale, non indagata, non interrogata, rimane una cosa lontana, quasi incommensurabile. Il men22 Sul
tema della prova nella logica giuridica v. le riflessioni di F. CERRONE, A.
Giuliani: la storicità del diritto tra logica ed etica, in corso di pubblicazione negli Studi
per il Settimo Centenario dell’Università di Perugia. A. GIULIANI, Il concetto di prova.
Contributo alla logica giuridica, Milano, Giuffrè, 1971. Trovare le buone ragioni significa aprirsi al confronto dialettico, e in primo luogo alla confutazione.
23 A. GIULIANI, La controversia, op. cit., 122. Corsivo nostro.
24 In questo senso la Cassazione sembra essere venuta meno alla delicatezza del
suo ruolo che assegna «una forza persuasiva particolare ai suoi precedenti, amplificata
dal suo carattere di giudice di ultima istanza», A. Pugiotto, Sindacato di costituzionalità
e «diritto vivente». Genesi, uso, implicazioni, Milano, Giuffrè, 1994 267, e amplius sul
dialogo che la Cassazione dovrebbe instaurare con la Corte costituzionale e le altre
Corti, cui più avanti accenneremo, 266-272.
16
SILVIA NICCOLAI - ILENIA RUGGIU
dicare, soprattutto con minori, appare una pratica di «quella»
cultura, qualcosa fuori dai nostri orizzonti di senso; qualcosa che
non possiamo criminalizzare, ma di certo nemmeno capire; qualcosa che resta lì, silente, che in qualche modo tolleriamo, ma che
non ci parla.
L’attività del mendicare o del coinvolgere i bambini nel procurarsi i mezzi di sussistenza per la famiglia, trattandoli «da
grandi», da pari agli adulti, sono stati in realtà pratiche presenti
anche nella nostra cultura, ma venendo associate specificamente
ad un gruppo esse possono diventare non pensato, non ricordato
(eppure il farsi del diritto è anche un processo di rammemorazione25). La Cassazione non ricorda, e in particolare non ricorda
l’insieme di apprezzamenti e di valutazioni che hanno circondato
nel nostro paese e nella nostra cultura giuridica il problema del
reato di accattonaggio contemplato dal codice Rocco, non ritiene
opportuno menzionare questo percorso, che pure dà, e vi torneremo, un contributo consistente per la ponderazione del caso di
specie. Eppure: «la ricerca avviene anche nel disaccordo, ma anche nella dipendenza dal passato: ha carattere sociale e temporale e si ripresenta in occasione di ogni problema nuovo»26.
Questa omissione del ricordo è anche la cancellazione di un
possibile tratto di congiunzione tra «noi», che un tempo mendicavamo, e gli «altri», che mendicano oggi per le nostre strade, un
tratto di congiunzione che, a percorrerlo, potrebbe contribuire a
rendere meno «insensata», meno estranea questa pratica del
mendicare coi bambini, che ci fa scandalo. Gli italiani mendicano meno di un tempo; sicuramente i figli degli italiani non
mendicano più, così come non lavorano più per aiutare la famiglia come poteva accadere in passato.
La rimozione del passato fa sparire certe forme di vita dagli
orizzonti di pensabilità, ad esempio portarsi i figli a lavoro, coinvolgerli nella vita degli adulti e nei processi di produzione eco25 A. GIULIANI, Droit, Mouvement, et Réminescence, in Archives de philosophie
du droit, 1984, 101-116.
26 A. GIULIANI, La controversia, cit., 130.
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
17
nomica. In questo senso, leggere il mendicare come pratica culturale dei Rom è in qualche modo il riflesso che nella coscienza
sociale si cerca di rimuovere questa pratica, che ha sempre turbato e attraversato in qualche modo la nostra cultura. Gli anni
’70 la hanno difesa come stile di vita alternativo, addirittura con
valenze positive in quanto sfuggiva la dinamica retributiva del do
ut des e della produttività insita nel sistema capitalistico, ma a
pensarci bene lo stesso cristianesimo ha al suo cuore un’etica
non lavorista. Il mendicare come rifiuto della retributività, la
questua come atto simbolico esprime una scelta di vita estremamente relazionale, in cui ci si affida a dio o agli altri per sopravvivere. Non vogliamo con questo dire che aderiamo a questa lettura, prediligendo piuttosto quella che denuncia il mendicare
come un problema di giustizia sociale, ma merita richiamare l’attenzione sui tanti possibili discorsi intorno a questa pratica che
sono stati a lungo presenti nella nostra stessa società e che oggi
quasi tendono a cadere nell’oblio. Vale a ricordarci che non è
perché la si qualifica come culturale (e anzi, spesso è proprio per
effetto di ciò), che una pratica non si allontana da noi, anche nei
suoi effetti problematizzanti di critica del sistema e finisce per
non riguardarci più.
4.
Sulla possibilità di individuare la pratica culturale, anziché nel
manghel, nelle caratteristiche della famiglia Rom e in particolare sulla relazione madre-figlio. Una scelta forse più corretta,
certamente più dialogante, di sicuro altrettanto, se non più,
controproducente
Tutto questo non è che parlare dello spazio, molto ampio, e
alla responsabilità, delicatissima, che competono alla scelta valutativa del giudice che consiste nell’apprezzare, primo, se fare ricorso alla clausola della «pratica culturale» e, una volta fatta questa scelta, come identificare questa pratica, quale comportamento, situazione o convincimento qualificare come pratica
culturale, al fine di giustificare una condotta o sfumarne la gravità.
18
SILVIA NICCOLAI - ILENIA RUGGIU
Né la prima, e tanto meno la seconda, di queste scelte sono
– in quanto tali – dettate da necessità, nessuna di esse incorpora
un grado distintivo di certezza. In quanto scelte, scelte valutative, queste vanno compiute, siamo venute dicendo, con buone
ragioni, in attenta considerazione del caso, e delle conseguenze
della decisione27.
Vi è allora da chiedersi, intanto, se la ricchezza di temi e di
situazioni racchiusi nel caso sottoposto all’esame della Cassazione, intorno al quale stiamo ragionando, poteva permettere di
orientare la propria valutazione circa il come identificare la pratica culturale verso altro che non l’atto del mendicare, e precisamente verso il modo di intendere le relazioni madre-figlio, e
dunque l’immagine della famiglia, che la donna rom esprimeva,
e se questa scelta avrebbe racchiuso potenzialità tali da renderla
preferibile.
In effetti si sarebbe potuto argomentare che la pratica «culturale» in questione era quella che vuole che i bambini piccoli
seguano costantemente la madre e non si separino dalla stessa; e
porre in luce che i Rom non hanno una visione dell’infanzia
come età dorata e i bambini sono attivamente coinvolti nelle
questioni familiari. L’argomento esimente avrebbe potuto essere:
la madre porta con sé il bambino non per sfruttarlo, ma per effetto di una mentalità e di modi di pensare che fanno parte della
cultura dei Rom (e che, fintantoché non si traducano in concrete
lesioni del bene del bambino, sono accettabili in quanto pratiche
culturali).
Si può avanzare l’osservazione che scegliere questo come
contenuto della pratica culturale avrebbe rappresentato forse
(tutto dipende dalle ragioni che si riescono ad addurre…) una
scelta più corretta, da un lato, e, dall’altro canto, avrebbe rappresentato un uso dell’idea di «pratica culturale» più dialogante,
più disponibile a guardare alla cultura dell’altro come a un inter27 «È impossibile separare ciò che è da ciò che deve essere. Chi giudica non può
ignorare le conseguenze della decisione: l’opportunità è un criterio di giudizio»: A.
GIULIANI, La controversia, cit., 121.
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
19
rogativo aperto sulla nostra, che non come un recinto che ci
chiude gli uni agli altri.
Infatti, mentre l’andare a mendicare non fa più parte dei
comportamenti della «nostra» cultura, dove mettiamo i bambini
mentre lavoriamo è una questione che ci tocca da vicino e che riguarda il ruolo degli asili, come l’Italia di oggi sta formando i
propri figli, quale è la nostra idea dell’infanzia, quali i rapporti
tra tempi della cura e tempi del lavoro. In altri termini, individuare la pratica culturale nella dimensione del rapporto madrefiglio potrebbe essere stato il segno di una disponibilità a collocare le cose che fanno i Rom (anziché in una sfera fantasmatica e
rimossa di comportamenti, problematiche e condizioni che ci
sono estranei, come il vivere d’elemosina), esattamente all’interno degli stessi comportamenti, problematiche e condizioni
che noi viviamo, e come modi diversi di svolgere un tema comune,
quello del rapporto che riteniamo giusto avere coi nostri figli: il
tema delle pratiche intergenerazionali, elemento portante e
chiave di ogni cultura28, e che, da noi, solleva anche molte paure
e perplessità, perché si intreccia con le conquiste delle donne e,
soprattutto, con tutta l’organizzazione del lavoro. Tali perplessità
sono quelle sollevate dalla psicologia sui traumi che i bambini
subiscono all’essere separati dalla famiglia per diverse ore al
giorno e che hanno, di recente, portato a sostenere che fino all’età di 3 anni è meglio che il bambino stia a casa. Sono quelle
perplessità che hanno portato a considerare certi sistemi educativi praticati negli asili una fonte di aggressività, tanto che ad essi
si attribuisce il fatto che un’intera generazione della Germania
Est sia cresciuta disadattata e con tendenze naziste29. Sono quelle
28 Ed elemento su cui si sono svolti interi scontri culturali. Pensiamo a quando i
coloni europei, alla fine del XVII secolo, si accorsero che gli «indiani» del Canada non
volevano assimilarsi e decisero che l’Indian problem non potesse che essere risolto che
rompendo le pratiche intergenerazionali. Nacquero così le residential schools, collegi in
cui i bambini indiani venivano educati nella sola lingua inglese, secolarizzati e socializzati nella nuova cultura. Il tutto con gravissimi traumi storici che soltanto di recente,
dopo la chiusura dell’ultima residential school nel 1984, si stanno studiando e denunciando.
29 Si veda la mostra permanente al Museo della DDR a Berlino.
20
SILVIA NICCOLAI - ILENIA RUGGIU
perplessità che nel Regno Unito, sulla base dei disagi presenti
negli adolescenti, hanno portato alla proposta di assegnare un assegno di 500 sterline al mese al genitore che sceglie di stare a
casa a svolgere il lavoro di cura nei primi tre anni di vita del
bambino30. Sono quelle perplessità che, tradotte più propositivamente, hanno spinto alla proposta di instaurare sale di accoglienza per i bambini nei luoghi di lavoro dei genitori.
È un fatto che nel panorama delle culture la regola è che il
bambino stia con la madre e la segua anche nei luoghi di lavoro,
normalmente i campi nelle economie agricole. Il bambino è
spesso stato inserito all’interno dell’economia familiare: è di recente che si è affermata questa visione dell’infanzia come qualcosa di così prezioso che deve essere tenuto asettico da qualsiasi
contatto con l’esterno. Essendosi spezzato questo legame tra il
mondo degli adulti e quello dei bambini ecco che inorridiamo se
vediamo che in altre culture ciò avviene, che il bambino ha uno
spazio più grande della famiglia per crescere.
Individuare la pratica culturale nel rapporto madre-figlio e
nella forma della famiglia Rom avrebbe avuto, in sintesi, il vantaggio di utilizzare la formula della pratica culturale come ponte
tra culture, un ponte che corre sul mare controverso della nozione di «bene» del minore. Ma anche ammettendo queste potenziali implicazioni positive di una simile scelta, non si può nascondere che essa sarebbe stata, sul piano dell’opportunità, se
possibile peggiore di quella di individuare come pratica culturale
il manghel.
È un fatto, che proprio il portare i bambini a mendicare è
l’elemento denunciato come scandaloso, più che non il mendicare in sé e per sé; e non a caso dopo la sentenza della Cassazione il legislatore e le forze politiche compattamente, sia nella
maggioranza che nell’opposizione, si sono appellate con forza ad
30 Uno
stipendio per le mamme. L’Inghilterra ripensa l’organizzazione della società
e propone di pagare 9mila euro all’anno le donne che restano a casa con i figli. Perché soltanto così può nascere una nuova generazione felice, in Il giornale della domenica, 14 settembre 2008.
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
21
una «visione universale dei diritti umani» in cui «i bambini sono
tutti uguali» per invocare misure che non solo respingano l’elemosina, ma stabiliscano l’automatica revoca della potestà genitoriale a chi porta un bambino a mendicare31.
5.
Sulle ragioni che possono avere spinto il giudice a utilizzare
l’argomento culturale. Il peso di un graduale formarsi dell’idea della diversità culturale come bene pubblico. Il peso della
argomentazione di parte
Stiamo accumulando una serie di ragioni di perplessità sulla
correttezza, e l’opportunità, dell’utilizzo nel caso che stiamo discutendo del ricorso all’argomento culturale, ma è tempo anche
di soffermarsi, sia pure brevemente, sui motivi che possono avere
indotto la Cassazione ad utilizzare questa figura.
Questi sembrano essere principalmente due (più un terzo,
che richiameremo più avanti e conclusivamente).
Il primo, è che ci troviamo storicamente in un periodo nel
quale la questione dei diritti culturali assume una centralità sempre maggiore, le differenze culturali si delineano come beni giuridici, e come valori, per cui rivestire un comportamento di questa definizione significa attribuire ad esso di una connotazione
positiva e riconoscerlo portatore di una legittima aspirazione alla
tutela e al riconoscimento (due cose diverse, ma su questo qui
non insisteremo adesso).
31 «Rutelli,
Togliere potestà figli a chi li fa mendicare», 3 dicembre 2008, www.repubblica.it: «Quelli Rom sono bambini che hanno gli stessi diritti dei nostri figli,
quindi ora nella proposta di legge in discussione al Senato si può introdurre questa
norma per creare condizioni più severe». L’equiparazione del genitore che porta il figlio a mendicare con il genitore che ne abusa, lo maltratta o che commette altri reati
che normalmente implicano la perdita della patria potestà, ci sembra un riflesso di
quell’atteggiamento denunciato dalla Corte costituzionale nella sent. 519/1995 nella
quale, annullando il reato di accattonaggio, la Corte aveva criticato le tendenze a criminalizzare e a considerare devianti soggetti poveri (il ragionamento della Corte è riportato nella nt. 42 del presente scritto). Forse anche per questo la Cassazione avrebbe
dovuto insistere sull’argomento economico e avrebbe dovuto «ricordare» questo tipo
di valutazioni, anziché appellarsi, senza peraltro motivarlo, all’argomento culturale.
22
SILVIA NICCOLAI - ILENIA RUGGIU
Il secondo, è che è stata la difesa della donna rom a avanzare questo argomento, che il giudice ha raccolto32. Ma su questo, a prezzo di ripeterci, si deve essere molto chiari. Che la parte
abbia avanzato questo argomento è comprensibile. Proprio in
considerazione dell’emergere della consapevolezza intorno a una
esigenza di riconoscimento/tutela delle culture diverse, la parte
ha introdotto un argomento che essa poteva pensare idoneo a
fare una certa presa sul giudice, e che comunque è legittimo per
la parte introdurre, ben potendo corrispondere alla sua visione
delle cose ed esperienza.
Nell’accettare questa prospettazione, in relazione allo scottante tema dei bambini portati a mendicare «dagli zingari», il
giudice ha accettato di fare una scelta estremamente impegnativa, quella – come anticipavamo all’inizio – di configurare pienamente la controversia sottoposta al suo esame come una di
quelle controversie giuridiche che non solo si rivolgono, come è
ad esse naturale, al passato, alla valutazione di un fatto avvenuto
nel passato, ma che si rivolgono anche (in modo assai più spiccato di quanto accada inevitabilmente in ogni controversia), al
futuro. Al tipo di controversie, cioè, che non intendono solo rispondere se è stata giusta o no l’azione «a» in un certo momento,
ma anche alla domanda, di carattere deliberativo, circa come
quella certa azione deve essere regolata, trattata, guardata in futuro33. Accettando di utilizzare l’argomento culturale il giudice
cioè ha mosso la sua controversia su due piani: accertare se la
donna rom ha commesso o no il reato di riduzione in servitù, e
deliberare se il manghel è o no qualcosa che come comunità
siamo disposti ad consentire, ammettere, in una qualche misura.
32 Il punto riconduce anche a un altro aspetto molto controverso quando si individua una pratica culturale: chi parla per la minoranza? V. sul punto le riflessioni di
C. OWENS, «The discourse of others: feminists and post modernism», in C. OWENS,
Beyond recognition. Representation, power and culture, University of California Press,
Berkeley, Los Angeles, Oxford, 1992, 166 ss. che conclude nel senso dell’«indegnità di
parlare per conto degli altri» (the indignity of speaking for others).
33 A. GIULIANI, La controversia, cit.
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
23
In questo tipo di controversie l’elemento etico, stiamo parlando di etica del processo, assume una centralità decisiva34: e ci
sono davvero maestre qui le Corti d’oltreoceano con i loro complicati test probatori volti all’accertamento della esistenza o
meno di una pratica culturale35.
Più il giudice si spinge sul versante deliberativo, più l’esigenza di capire fino in fondo la natura della pratica cui si sta riferendo, di addurre prove, di discutere approfonditamente e con
ampiezza di confronti diventa ineludibile.
In una parola: l’argomento di parte, in casi del genere, è ben
lungi dal bastare da solo a giustificare la decisione (se mai lo
possa).
6.
Ambiguità dell’argomento culturale
Come abbiamo poco sopra detto, l’argomento culturale ha
ormai uno sviluppo consistente, e tale da poter aver fatto sì che
il giudice abbia dato per scontato che, utilizzarlo, rappresenti
34 F.
CERRONE, A. Giuliani, cit.
in tal senso è stata la Corte suprema canadese che, in alcune storiche
sentenze pronunciate sui popoli nativi (R. v. Sparrow, [1990] 1 S.C.R. 1075; R. v. Van
der Peet, [1996] 2 S.C.R. 507; Delgamuukw v. British Columbia, [1997] 3 S.C.R.
1010), è andata elaborando un proprio test culturale. Questo si può riassumere nei seguenti tre requisiti: il gruppo deve dimostrare che la pratica è centrale alla propria cultura, integrale, ed essenziale, nel senso che senza questa pratica la cultura non potrebbe sopravvivere. Il gruppo deve dimostrare che quella pratica è pre-contatto, requisito che ha fatto accusare la Corte di difendere «frozen-rights», congelando gli stili
di vita dei nativi al tempo precedente l’arrivo degli europei. E, infine, l’esistenza della
pratica deve comunque essere bilanciata con altri diritti costituzionali e può, nel caso,
soccombere. Per un’analisi della giurisprudenza canadese G. ROLLA (a cura di), Eguali,
ma diversi. Identità ed autonomia secondo la giurisprudenza della corte suprema del Canada, Milano, Giuffrè, 2006. L’elaborazione di test culturali è sicuramente un esempio
di ricerca più accurata della prova sull’esistenza di tale pratica, ma le Corti che vi
fanno ricorso non sono esenti da critiche come testimoniato dalla rivelazione casistica
in M.C. FOBLETS, A. DUNDES RENTELN (eds.), Multicultural Jurisprudence, cit., che osservano: «courts are increasingly expected to resolve conflicts that require substantial
cultural expertise, despite their lack of familiarity with ethnography and other tools of
cultural analysis. We regard this as a serious problem», 1. Ma problematica è anche la
tendenza a non affrontare certi conflitti culturali, come ad esempio accaduto in Italia
35 Pioniera
24
SILVIA NICCOLAI - ILENIA RUGGIU
una scelta utile in primo luogo per la comunità cui quel comportamento è attribuito e per il bene delle relazioni tra culture diverse.
Tuttavia, a sconsigliare un pieno affidamento nelle potenzialità buone dell’argomento, a ricordare che non è un argomento
da prendere per scontato stanno le – spesso ricordate – ambiguità che il ricorso alla clausola dei diritti culturali può celare, e
che sono state già evidenziate da complessi filoni giurisprudenziali sviluppatisi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Possiamo ricordare, sia pur rapidamente, i due emblematici casi
Buckley v. Uk (1996) e Chapman v. UK (2001), abbastanza noti
anche nella nostra letteratura.
Anche questa volta sono famiglie Rom le protagoniste, e anche questa volta il giudice sembra partire dalle migliori intenzioni. In entrambi i casi due donne di etnia rom chiedono di poter collocare la propria roulotte su un pezzo di terra che hanno
comprato, facendo appello alla necessità di conservare lo stile di
vita nomade, ma anche alla necessità di avere una casa per provvedere alla cura e all’educazione dei propri figli. Sempre ricorrendo al modello astratto dei diritti culturali, la Corte di Strasburgo riconosce il nomadismo come una pratica culturale che
merita protezione e che merita di entrare nel bilanciamento tra
diritti36. E lo fa, peraltro, con un ragionamento se vogliamo
con la notissima vicenda dell’esposizione del crocifisso nelle scuole: «secolarizzare la
valenza simbolica del crocifisso, pur di confermarne l’esposizione nelle aule scolastiche, ne banalizza il significato più autentico», A. PUGIOTTO, Sul crocifisso la Corte pronuncia un’ordinanza pilatesca, in www.forumcostituzionale.it, 2005 e in Diritto e Giustizia, 2005.
36 Inutile precisare che anche l’identificazione del nomadismo come pratica culturale dei Rom è una questione problematica. Per alcuni, infatti, esso è stato in realtà
imposto dalla necessità di spostarsi per fuggire discriminazioni, per mancanza di luoghi dove risiedere. È vero che – in questo caso il discorso è diverso dal manghel – tale
pratica è stata interioriorizzata dalla cultura e, per quanto nata come patologia, è divenuta un elemento riconosciuto come caratterizzante lo stesso gruppo. Non per tutti,
certo, ma in larga parte. Tuttavia le pratiche culturali possono evolversi e attualmente
molti nomadi rifiutano tale aggettivazione rivendicando stili di vita stanziali. Di qui si
ritorna al carattere controverso della qualificazione culturale. Sui problemi di corretta
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
25
profondamente rivoluzionario rispetto a quello delle Costituzioni nazionali. Mentre in queste ultime, infatti, generalmente il
riconoscimento di diritti culturali avviene «a favore» di specifiche minoranze interessate alla sopravvivenza della propria cultura, la Corte di Strasburgo dice, invece, che la salvaguardia del
diritto dei nomadi a vivere come nomadi è un bene per «l’intera
comunità», «un valore fondamentale di una democrazia civilizzata»37. Questo cambio di percezione del significato della diversità, sino ad oggi letta come un problema di «riconoscimento» di
gruppi discriminati e che invece, nel diritto internazionale38 ed
europeo, comincia ad essere percepita come una questione di
«arricchimento» per tutti, appare fondamentale per portare
avanti l’anelito alla differenza come valore.
Riconoscimento di un diritto culturale, dunque, e sua piena
integrazione nel tessuto plurale della nostra società come fonte
di rigenerazione per tutti. Ma è proprio così? Che cosa accade
quando questa pratica culturale del nomadismo – che ci arricchisce, che consente di tener vivi più orizzonti, che ci fa sentire
tutti più tolleranti e che apre a diverse idee di famiglie e di stili
di vita etc. – deve conciliarsi con le esigenze concrete delle persone? L’astrattezza del diritto culturale, essenzializzato e afferindividuazione delle pratiche culturali dei Rom v. J. KUSTER, «Criminalising Romani
Culture trough Law», in M.C. FOBLETS, A. DUNDES RENTELN (ed.), Multicultural Jurisprudence, cit., 199 ss.
37 In Chapman v. The United Kingdom, 18 January 2001, n. 27238/95, dopo aver
affermato «her right to live, with her family, in the traditional Gypsy lifestyle», la Corte
di Strasburgo, infatti, precisa: «The growing international consensus about the importance of providing the rights of minorities with legal protection, as illustrated, inter
alia, by the Framework Convention for the Protection of National Minorities, emphasised that this was also of significance to the community as a whole as a fundamental value of a civilised democracy. In these circumstances, any margin of appreciation accorded to the domestic decision-making bodies should be narrower rather than wider».
In un altro passo, la Corte ribadisce che il riconoscimento dei diritti culturali avviene
«not only for the purpose of safeguarding the interests of the minorities themselves but
to preserve a cultural diversity of value to the whole community» (corsivo nostro).
38 Si pensi alla Dichiarazione sulla diversità culturale dell’Unesco, 2001 che introduce il concetto di etno-sfera, mutuandolo da quello di bio-sfera, e insiste sull’idea di
diversità come patrimonio dell’umanità.
26
SILVIA NICCOLAI - ILENIA RUGGIU
mato soltanto se lo si pratica nella sua purezza39, determina, nei
casi che stiamo adesso ricordando, un corto circuito tra interesse
del bambino, esigenze della madre e culture e stili di vita.
In entrambi questi casi, infatti, la Corte di Strasburgo dà ragione alle Corti nazionali che avevano rifiutato le richieste facendo prevalere il diritto all’ambiente sul diritto al rispetto della
vita privata sancito all’art. 8 della CEDU.
Nel caso Buckley, l’argomento speso dalla Corte di Strasburgo per respingere la richiesta è il fatto che la donna aveva un
luogo alternativo in cui fissare la propria dimora che era un vicino
accampamento Rom. La donna, tuttavia, rifiutava di recarvisi per
il fatto che era un ambiente pericoloso per i propri figli con evidenti e riconosciute situazioni di disagio sociale che avrebbero
posto a rischio la stessa incolumità dei propri figli. La donna non
voleva stare troppo a contatto con la sua gente perché in quel
caso c’era un pericolo per i propri figli: ma allora – sembra sottintendere la Corte – il suo argomento culturale si indebolisce,
perché dove meglio corroborare la propria identità culturale se
non immersi nella propria cultura e nella propria etnia?
Nel caso Chapmann la domanda viene respinta perché, secondo la Corte di Strasburgo, non ci troviamo di fronte ad una rivendicazione culturale del nomadismo, avendo a suo tempo la
donna presentato domanda per un bungalow e avendo manifestato l’intenzione di installarsi permanentemente nel suo terreno.
La donna cercava, in tal modo, di contemperare le proprie esigenze culturali con l’interesse dei figli a frequentare la scuola. In
tale contemperamento si era profilata la possibilità per la stessa di
stanziarsi in una roulotte con cui si sarebbe potuta spostare durante i periodi di non frequenza scolastica. Ma il messaggio della
Corte di Strasburgo è perentorio: se devi dimostrare di essere autenticamente nomade non puoi volerti stanziare permanentemente anche se questo può essere dovuto all’interesse al39 Per una critica antropologica all’essenzializzazione delle pratiche culturali,
che per loro natura tendono ad una costante evoluzione, J. CLIFFORD, I frutti puri impazziscono (1988), Torino, Bollati Boringhieri, 2004.
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
27
l’istruzione dei tuoi figli. Quindi la tua rivendicazione non è così
«onesta». Quell’elemento della cultura deve essere vissuto nella
sua interezza e purezza e non è ammessa nessuna deroga o concessione che in questo caso deriva dal fatto che la donna ritenesse
utile scolarizzare il figlio in un’altra cultura, e magari farlo proprio crescere, come lei stessa aveva scelto per sé, tra due culture40.
In questo caso la mediazione tra nomadismo e stabilità/stanzialità necessarie per accedere ad un’educazione scolastica che la
donna aveva elaborato, cercando una soluzione concreta, incentrata sul suo personale rapporto con i propri figli, le proprie tradizioni culturali, la propria idea di famiglia (una famiglia che
vive da nomade per metà dell’anno e per il resto vive secondo gli
stili della cultura di contatto) è considerata, irrimediabilmente,
«spuria». E allora viene da pensare che questa visione così altisonante della diversità culturale come bene pubblico dell’intera
società sia tanto esteticamente bella, raffinata e colta, quanto
umanamente deludente. Essa dovrebbe essere spinta più a fondo
e, soprattutto, non dovrebbe intrappolare gli individui e le famiglia dentro le culture. Queste, appunto, non dovrebbero essere
percepite come compartimenti stagni (ma anche qui sentiamo
che il linguaggio inevitabilmente ci ingabbia in questa percezione
quando noi stesse parliamo di «muoversi tra culture» come se
fossero cose fisse e ben delineabili), ma come contesti di relazione da cui mutuare differenti possibilità di scelta.
Diversamente il nuovo emergente valore della diversità culturale diventerà qualcosa di meramente estetico, un bene postmaterialista41 di cui godere un po’ romanticamente, ma che non
40 È
stato notato «il netto misconoscimento della strategia difensiva della ricorrente, che aveva insistito sulla sua volontà, in vista della tutela di interessi familiari, e
specialmente dei figli a frequentare la scuola, di integrare stile di vita stanziale e nomadico», F. CERRONE, I diritti, cit., 326, che riporta anche un interessante passo dell’opinione dissenziente. Sulla sentenza, v. anche G. BASCHERINI, Immigrazione e diritti
fondamentali: l’esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Napoli,
Jovene, 2007, 309-310.
41 Il post-materialismo è la teoria elaborata da R. INGLEHART, La rivoluzione silenziosa (tr. it. The silent revolution), Milano, Rizzoli, 1983; R. INGLEHART, Moderniza-
28
SILVIA NICCOLAI - ILENIA RUGGIU
ci permetterà di vedere gli altri come soggetti vivi. E non è magicamente l’uso dell’argomento culturale a garantirci di evitare
questo risultato.
7.
Per una maggiore cura del giudizio
L’insieme delle considerazioni che abbiamo svolto sin qui
suggerisce che il giudice avrebbe fatto meglio probabilmente a
non utilizzare la figura della pratica culturale per risolvere nel
senso prescelto – quello di non ritenere imputabile la donna rom
per il reato di riduzione in servitù del figlio quattrenne – il caso
sottoposto al suo esame.
Per raggiungere questa conclusione, al giudice sarebbero
stati sufficienti altri argomenti, quelli che in effetti usa e a cui poi
sovrappone l’argomento culturale, e vale a dire, in particolare, il
non ricorrere, nel caso di specie, di quegli elementi di maltrattamento e sfruttamento organizzato, che configurano il reato. A
questi elementi se ne sarebbero potuti aggiungere altri, e in particolare il ricorrere di uno stato di bisogno, il richiamo al quale
avrebbe potuto riannodare il trattamento del manghel alle valutazioni che in passato sono state riferite, nel nostro ordinamento,
all’accattonaggio, e che a suo tempo sono valse a ricordare,
quando ancora l’accattonaggio era reato, che lo stato di bisogno
costituisce una esimente e poi, quando il reato è stato dichiarato
incostituzionale, che è irragionevole punire condotte che sono il
riflesso di «condizioni di estrema emarginazione» e che non si
traducono in violazioni della tranquillità pubblica essendo, piuttosto, «richieste d’aiuto»42. Un rammemoramento più utile a sugtion and post modernization: cultural, economic, and political change in 43 Societie,
Princeton University Press, 1997, per evidenziare come a partire dagli anni ’70 una società pacificata, più colta, che aveva risolto, tramite lo Stato sociale, i suoi problemi
materiali, abbia iniziato a mutare valori di riferimento indirizzandosi verso quelli dell’identità, dell’appartenenza, del recupero del passato, dell’ambiente, della pace etc.
42 La Corte costituzionale si è pronunciata tre volte sul reato di accattonaggio,
contemplato dal codice Rocco. La prima volta fu con la sent. 51/1959 concludendo
per l’infondatezza della questione. Il giudice a quo spese una sola argomentazione per
sostenere l’incostituzionalità della norma: «Esiste la libertà di mendicare in quanto la
SE UN BAMBINO VA CON LA MAMMA A MENDICARE
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gerire un clima di contiguità, di contatto, di relazione, tra i rom
e noi, di quanto abbia potuto l’impiego dell’argomento culturale.
costituzione prevede la libertà di assistenza privata (art. 38) accanto all’assistenza pubblica». La Corte rispose laconica e quasi tautologica: la libertà di mendicare non esiste, «è evidente che non è identificabile con l’assistenza privata»; il reato tutela «il
bene giuridico della tranquillità pubblica, con qualche riflesso sull’ordine pubblico».
Siamo ancora in una società che guarda all’ordine pubblico come valore e che, dal fascismo, è abituata al fatto che ogni infrazione si paghi con il sacrificio della libertà personale. Manca un’interiorizzazione dei valori costituzionali tanto che al giudice a quo
non viene neanche in mente di andare un po’ oltre l’art. 38 Cost. nell’individuazione
del parametro, come invece accadrà nel 1975.
Nella sent. 102/1975 la Corte costituzionale ribadisce che la questione di costituzionalità sul reato di accattonaggio resta non fondata, ma opera dei distinguo. Questa volta i mutamenti sociali traspaiono tutti nelle argomentazioni del giudice a quo
che, nell’individuare il parametro, è molto più incisivo. Egli evidenzia che: a) il mendicare può essere visto come libera scelta di vita, in opposizione agli stili capitalistici
dominanti (art. 2 Cost.); b) il mendicare può esprimere uno stato di bisogno che attiva
il dovere di solidarietà costituzionale (art. 3 Cost.); c) il mendicare è una realtà, una situazione di fatto data dalla disoccupazione quale fenomeno strutturale di un regime di
libertà economica che come tale va accettata (art. 41 Cost.). Si ravvisano in tali argomentazioni sia le valutazioni dei movimenti di protesta degli anni ’70 che rifiutavano il
lavoro e lo stile di vita borghese, anche come reazione al fatto che il lavoro si fosse disumanizzato e fosse fonte di alienazione; sia la lettura marxista della società che porta
a vedere la mendicità come patologia del capitalismo. In una fase in cui la disoccupazione porta molti italiani nelle strade, la mendicità non è soltanto un fatto degli altri,
ma un fatto che riguarda trasversalmente l’intera società. La Corte costituzionale rifiuta il primo argomento, osservando che comunque le scelte di vita devono contemperarsi con esigenze di una tollerabile convivenza, ma il valore della tranquillità pubblica utilizzato come nel 1959, questa volta non è assolutizzato. La Corte, infatti, propone un’interpretazione adeguatrice del dettato costituzionale osservando che
nell’ipotesi in cui la mendicità sia dovuta ad uno stato di bisogno è pur sempre applicabile la scriminante di cui all’art. 54 c.p.
Nella terza e ultima decisione, sent. 519/1995, il giudice a quo cita come parametro i principi di solidarietà, uguaglianza e finalità rieducativa della pena (artt. 2, 3 e
27 Cost.) e rileva l’irragionevolezza della sanzione penale. La Corte, questa volta annulla il reato, osservando come: «gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le
società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che senza indulgere in atteggiamenti di severo moralismo non si può non cogliere con preoccupata
inquietudine l’affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni, volte a ‘nascondere’
la miseria e a considerare le persone in condizioni di povertà come pericolose e colpevoli. Quasi in una sorta di recupero della mendicità quale devianza, secondo linee che
il movimento codificatorio dei secoli XVIII e XIX stilizzò nelle tavole della legge penale, preoccupandosi nel contempo di adottare forme di prevenzione attraverso la istituzione di stabilimenti di ricovero (o ghetti?) per i mendicanti. Ma la coscienza sociale
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Evitando di ricorrere alla pratica culturale, inoltre, il giudice
avrebbe probabilmente emanato una sentenza meno sfruttabile
nella contrapposizione ideologica e mediatica di cui il manghel è
il terreno. In effetti, la sentenza emana questo chiaro messaggio:
io, Corte di cassazione, lo so bene che si vuole criminalizzare il
manghel perché è una pratica dei rom, è una cosa che fanno i
rom43. Allora io rispondo: proprio perché lo fanno i rom (è la
loro pratica culturale), ti dico che non è reato.
ha compiuto un ripensamento a fronte di comportamenti un tempo ritenuti pericolo
incombente per una ordinata convivenza… In questo quadro, la figura criminosa della
mendicità non invasiva appare costituzionalmente illegittima alla luce del canone della
ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun modo necessitato il ricorso alla regola
penale. Né la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica, ‘con qualche riflesso
sull’ordine pubblico’ (sentenza n. 51 del 1959), può dirsi invero seriamente posta in
pericolo dalla mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto» (punto
3, considerato in diritto).
43 Il 2008 è stato, e la Corte certo non lo ignora, l’anno delle ordinanze dei sindaci anti-accattonaggio. Tali ordinanze sono state emanate a seguito dell’art. 54 TUEL
e le integrazioni apportate dalla legge 125/2008 (che prevede un’intensificazione dei
poteri dei sindaci per la salvaguardia dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana,
quest’ultimo concetto di nuovo conio nel nostro ordinamento) e dal successivo D.M.
attuativo 5 agosto 2008. Si tratta di ordinanze che spesso incidono su diritti fondamentali e che pongono un problema di rispetto della riserva di legge. Molte di esse riguardano proprio la proibizione dell’accattonaggio: l’ordinanza del sindaco di Verona
n. 80 del 30.VII.2008 (collegata a Delibera di Giunta 267/08), Definizione di limiti all’accattonaggio nel territorio comunale; le ordinanze del sindaco di Sant’Angelo Lodigiano (LO) n. 93 del 7.VIII.2008, Divieto di accattonaggio, in particolare con minori,
soggetti deboli, disabili o malformati» e n. 94 del 7.VIII.2008, Divieto di accattonaggio,
in particolare con animali; l’ordinanza del sindaco di Lecce n. 761 del 1.IX.2008, Divieto di accattonaggio molesto e di esercizio del mestiere di lavavetri; le ordinanze del
sindaco di Feltre (Bl) n. 139 del 9.VII.2008, Decoro urbano e n. 140 del 19.VII.2008,
Accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di Sanremo n. 719 del 18.VIII.2008, Limiti a
forme di vagabondaggio e accattonaggio nel territorio comunale; l’ordinanza del sindaco
di Como n. 224 del 11.IX.2008, Divieto di accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di
Rho (Mi) n. 268 del 3.VIII.2008, Anti accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di Legnago (Vr) n. 429 del 25.IX.08, Divieto di accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di
Conselve, n. 30/2008, Anti accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di Montemurlo, n.
267 del 12.IX.2008, Nomadi; l’ordinanza del sindaco di Conegliano n. 224 del
15.IX.2008, Anti accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di Varese n. 20 del 8.X.2008,
Anti accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di Teramo n. 300 del 16.VIII.2008, Anti accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di Messina n. 208 del 9.X.2008, Anti accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di Novi Ligure n. 396 del 10.X.2008, Anti accattonaggio,
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Il «foro dei principi» c’è per vedere i problemi, discuterli e
metterli a fuoco in una luce diversa da quella del foro della politica; ma non è molto diversa quella visuale che – e sia pure per
nobili motivi – è semplicemente speculare e opposta a un’altra.
Diversa è la valutazione che – specialmente in tempi e in campi di
polarizzazione e contrapposizione – sappia esprimere una diversa
logica; diversa è «una ragione più comprensiva e più duttile»44.
Non stiamo dicendo che si debba rinunciare sempre, per regola generale, all’argomento culturale, ma che le numerose perplessità sollevate dalla sentenza sui rom, in particolare il seguito
tragico che la sentenza ha avuto, fanno pensare che specialmente
in casi in cui il disagio, il conflitto ideologico, la strumentalizzazione anche becera sono particolarmente forti, meno opportuno
possa essere il ricorso a questa clausola, se essa porta il giudice a
inscenare un botta e riposta con la politica, a alimentare una
contrapposizione la quale, mentre mette a rischio la legittimazione dell’istituzione giudiziaria, dall’altro mette a repentaglio
per il futuro e per molti la tutela del bene che ha inteso garantire
per il passato a una persona. In questo contesto, il tentativo di sistematizzazione in cui la Cassazione si inerpica – quando colloca
le pratiche culturali al rango di mere consuetudini, che come tali
non possono mai essere contra legem e che pertanto dovranno
«soccombere» di fronte a quelli che sono «i veri» diritti fondamentali, disegnando un poco convincente equilibrio di pesi e
contrappesi tra diritti forti e diritti deboli, tra diritti universali e
diritti speciali – non fa veramente rimedio ai guasti che sono provocati da uno sbilanciarsi del giudice nell’agone ideologico, che
il sistema – ci ricorda Carlassare – varrebbe ad evitare, uno sbilanciarsi che procede dalla disattenzione ai requisiti di dialetticità e persuasività che la logica giuridica impone.
parcheggiatori abusivi; l’ordinanza del sindaco di Seriate (Bg), n. 103 del 26.IX.2008,
Anti accattonaggio; l’ordinanza del sindaco di Parma n. 273 del 12/9/08, Anti accattonaggio. Ordinanze simili sono state adottate nei comuni di Reggio Calabria, Scalea
(Cs), Sorrento. È questa la cornice temporale in cui la decisione della Cassazione è intervenuta.
44 A. GIULIANI, Ricerche in tema di esperienza giuridica, Milano, Giuffrè, 1957, 100.
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È questo il segnale che i rischi di ideologismo, di solipsismo
interpretativo sono evitati anche, soprattutto, dall’impegno, da
parte della giurisdizione, all’uso più sapiente e accurato possibile
della propria attitudine valutativa, che metta in primo piano il
dovere del giudice di fornire una decisione utile, il dovere di essere persuasivo, di considerare le conseguenze della propria decisione, nelle circostanze di tempo e luogo in cui la emette, e di
raccordare la sua decisione all’insieme dei valori che costituiscono l’ossatura di un ordinamento45 (qui, come abbiamo ricordato, quelli della non criminalizzazione della povertà46).
È per alimentare questa cura, la cura per il giudizio – non
per sbarazzarsene sbrigativamente – che ci sono stati insegnati sistemi, come quello tratteggiato da Carlassare nello scritto dal
quale siamo partite, che il giudizio non intendevano sostituire,
ma arricchire, corroborare, approfondire, in quanto è esso e
niente altro la garanzia essenziale di vita per i valori – l’attitudine
pluralista, che è apertura all’altro; il rispetto della persona e delle
sue scelte, l’uguaglianza, la dignità – che ci sono cari.
45 «Il riconoscimento del carattere aperto del diritto costituzionale […] equivale
all’affermazione che questa disciplina tende a svilupparsi sempre più sul piano della
concretezza e della attenzione ai termini in cui si pongono i conflitti sociali e le controversie giuridiche, non dell’astrattezza e della irrazionalità», A.A. CERVATI, A proposito di metodi valutativi nel diritto costituzionale, in Diritto pubbl., 2005, 707 ss.
46 Vedi il percorso argomentativo della Corte costituzionale (sent. 519/1995) sopra ricordato.