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Etica & Politica / Ethics & Politics, XX, 2018, 3, pp. 451-472.
ISSN: 1825-5167
IL RAPPORTO TRA DIRITTO E
MORALE NELLA PROSPETTIVA
DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO:
APPUNTI IN MARGINE A CONFLITTI
PRATICI
DA MI A NO CA NA LE
Dipartimento di Studi giuridici
Università Bocconi, Milano
damiano.canale@unibocconi.it
ABSTRACT
This essay reply to the criticisms of my book Conflitti pratici. Quando il diritto diventa
immmorale raised by Alberto Andronico, Francisco Javier Ansuátegui Roig, Francesco
Biasetti, Tommaso Greco, Eugenio Lecaldano, Ulderico Pomarici and Francesco Viola. The
paper focuses on the task of legal philosophy in teaching and in the public debate, the
distinction between legal positivism and legal non-positivism, the relationship between
metaethics and legal philosophy, the nature of practical conflicts, and the connection
between rules and values.
KEYWORDS
Jurisprudence, legal positivism, law and morality, metaethics, practical conflicts.
È una fortuna, per l’autore di un libro, avere l’opportunità di discuterlo in un
simposio come quello qui proposto da Etica & Politica / Ethics & Politics, sia
per la qualità dei commenti degli studiosi coinvolti, sia perché è questa per me
un’occasione per precisare le tesi contenute in Conflitti pratici, per
approfondire alcuni loro aspetti, e per dar ragione delle scelte compiute
nell’articolazione dei temi trattati 1. Conflitti pratici non è infatti un libro
indirizzato ai filosofi e ai giuristi di professione; si tratta di un lavoro che nasce
da un’esperienza didattica e che ha finalità principalmente divulgative.
1 D. Canale, Conflitti pratici. Quando il diritto diventa immorale, Roma-Bari, Laterza, 2017.
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DAMIANO CANALE
L’esigenza di rivolgersi a un pubblico di non addetti ai lavori ha guidato l’itera
progettazione del lavoro, determinando lo stile e la struttura dell’indagine, la
scelta dei temi trattati, il linguaggio utilizzato nel testo. Non di meno, il libro
tenta di proporre un approccio originale allo studio del rapporto tra diritto e
morale osservato dalla prospettiva della filosofia del diritto. Mettere alla prova
questo contributo, e poter esplicitare ciò che nel libro rimane tra le righe per
ragioni di semplicità e chiarezza espositiva, è dunque per me un’opportunità
felice, di cui sono molto grato a Ferdinando Menga e a Etica&Politica.
I contributi di questo simposio sono preziosi per almeno due ragioni. In
primo luogo, ciascun di essi focalizza l’attenzione su aspetti diversi del libro,
consentendone una discussione ad ampio raggio. In secondo luogo, ciascun
autore muove da posizioni filosofiche diverse e adotta dunque stili
argomentativi e apparati concettuali distinti. Se questo contribuisce ad
arricchire la discussione, ciò rende al contempo più difficoltosa una replica che
restituisca alla discussione unità. Ho pensato quindi di articolare queste pagine
non rispondendo puntualmente alle osservazioni di ciascun autore ma
focalizzando l’attenzione su alcune questioni ricorrenti nei saggi raccolti e
centrali nell’economia di Conflitti pratici. I temi su cui concentrerò l’attenzione
sono, nell’ordine, il compito della filosofia del diritto nell’insegnamento
universitario e nel dibattito pubblico (§. 1), la tesi della dipendenza dei conflitti
pratici dalle concezioni del diritto e dalle concezioni della morale (§. 2), la
distinzione tra giuspositivismo e non-giuspositivismo (§. 3), il carattere interno o
esterno al diritto dei conflitti tra diritto e morale (§. 4), il ruolo della metaetica
nella giustificazione delle scelte d’azione (§. 5), la natura dei conflitti pratici
esaminati nel seconda parte del libro (§. 6), e, da ultimo, il rapporto tra norme e
valori (§. 7).
1. QUALE COMPITO PER LA FILOSOFIA DEL DIRITTO?
È’ noto come lo statuto della filosofia del diritto, intesa come disciplina
accademica, sia da sempre controverso. Fin dalla sua nascita, che risale ad
appena due secoli fa, questa disciplina ha assunto le sembianze di un Giano
bifronte, con una faccia che volge lo sguardo alla filosofia e l’altra al diritto,
ovverosia ai saperi giuridici particolari e alla prassi giuridica. Il doppio volto
della filosofia del diritto si manifesta ancor oggi in tutta la sua evidenza qualora
si dia uno sguardo ai programmi dei corsi universitari che portano questo nome
o si sfogli una qualsiasi rivista di settore. La varietà di temi, di approcci di
ricerca, di apparati concettuali utilizzati appare sorprendente anche agli addetti
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Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
ai lavori, con l’ovvia conseguenza che l’identità di questa disciplina diventa
sfuggente, contribuendo a pregiudicare la sua autorevolezza in ambito
accademico così come la sua rilevanza nel dibattito pubblico. Questo non è in
realtà un fenomeno nuovo. Già Hegel, nel 1820, lamentava che il discorso
filosofico attorno al diritto era considerato dai più come cosa da ciarlatani, al
punto da essere sistematicamente ignorato da chi esercitava poteri pubblici 2.
Ora, la celebre distinzione tracciata da Norberto Bobbio tra “filosofia del diritto
dei filosofi” e “filosofia del diritto dei giuristi”, lungi dal ridursi a una mera
ricognizione storica degli approcci prevalenti in questa disciplina, costituiva
innanzitutto un’indicazione programmatica, tesa a superare la difficoltà a cui
ho fatto cenno. Occorrerebbe cioè separare i due volti della filosofia del diritto e
conservare ad essa soltanto il secondo, focalizzando l’attenzione sull’analisi del
linguaggio di cui i giuristi si servono nel loro lavoro quotidiano. Secondo
Bobbio una scelta di questo tipo offrirebbe il vantaggio di innalzare la qualità
generale degli studi filosofico-giuridici e di garantire un loro pieno
riconoscimento da parte dei giuristi, che dei filosofi del diritto sono i veri
interlocutori nelle facoltà di giurisprudenza 3. Questa celebre presa di posizione
è fermamente criticata da Alberto Andronico e Tommaso Greco nei loro saggi.
Secondo il primo, “la filosofia del diritto non è fatta per riflettere sul (discorso
del) diritto”, fosse solo perché i giuristi non hanno bisogno di qualcun altro per
riflettere sul proprio oggetto di studio e sulle loro pratiche, che conoscono
molto meglio di chiunque altro. Seguire la strada indicata da Bobbio conduce
piuttosto a ridurre la filosofia a teoria generale del diritto e a condannare
questa disciplina a una completa irrilevanza. Di più: è la stessa distinzione tra
“filosofia del diritto dei filosofi” e “filosofia del diritto dei giuristi” a risultare
fuorviante, poiché sottrae alla disciplina qualsiasi autonomia. Del medesimo
avviso è Tommaso Greco, secondo il quale abbracciare la proposta di Bobbio
equivale a ribadire la subalternità della filosofia del diritto rispetto ai saperi
giuridici particolari, e a svuotarla dunque del ruolo che le è proprio
nell’insegnamento universitario.
Conflitti pratici muove dalla convinzione che il doppio volto della filosofia
del diritto possa costituire non un limite ma piuttosto una virtù di questa
disciplina; a patto, tuttavia, che i suoi due volti si pongano in dialogo tra loro,
trasformandosi in un tramite per porre in relazione problemi, concetti e stili di
ricerca tradizionalmente considerati indipendenti. E questo non facendo
prevalere una voce di Giano sull’altra, sia essa quella che parla alla filosofia o
2 G.W.F. Hegel, Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di G. Marini, RomaBari, Laterza, 1987, p. 10.
3 N. Bobbio, Natura e funzione della filosofia del diritto (1962), in Id., Giusnaturalismo e
positivismo giuridico, Milano, Edizioni di Comunità, 1977, pp. 37 ss.
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DAMIANO CANALE
quella che parla al diritto, ma riconoscendo loro pari dignità e individuando
temi di interesse comune sui quali dialogare 4. Mi sembra che questa posizione
sia coerente con quella difesa da Francisco Ansuátegui nel momento in cui
questi rivendica l’esigenza, da parte della filosofia del diritto, di conservare un
equilibrio tra analisi concettuale, da un lato, e vicinanza alla prassi giuridica,
dall’altro. L’analisi concettuale, nelle sue diverse declinazioni, consente di
assumere un atteggiamento critico nei confronti del diritto e dei discorsi
attorno ad esso; la vicinanza alla prassi permette all’analisi concettuale di
operare sul diritto così come esso concretamente si declina in un dato momento
storico, non su un diritto soltanto pensato. Con riguardo all’insegnamento
universitario, il mantenimento di questo equilibrio serve a formare un “giurista
critico”, capace certo di svolgere con perizia tecnica il suo lavoro quotidiano ma
al contempo di coglierne la rilevanza sociale, politica e morale. Uno scopo che
anche Conflitti pratici, seppur in modo peculiare, tenta di perseguire.
Ora, se si riconosce alla filosofia del diritto la funzione di “tramite” appena
indicata, va da sé che tale funzione può essere svolta in modi diversi. Tommaso
Greco rivendica l’importanza del “retaggio culturale” di cui la filosofia del
diritto è portatrice, fatto di “sforzo teorico, dialogo con la tradizione classica,
moderna e contemporanea, approfondimento consapevole delle radici sociali e
politiche delle norme e dei discorsi che si fanno intorno alle norme”. Anche
Alberto Andronico sottolinea l’importanza dell’incontro coi “classici”, orientato
tuttavia a “capire come si possano costruire e decostruire intere architetture
concettuali e forme di vita”, per risalire poi “all’ordine del discorso” del diritto
contemporaneo e alle sue aporie. Ulderico Pomarici, da parte sua, ricorda
l’importanza delle dinamiche sociali entro le quali il diritto opera, dinamiche
che condizionano i contenuti e le forme che il diritto assume, oltre che la sua
capacità di conseguire gli scopi che gli sono propri. Questi approcci sono
sicuramente interessanti e degni della massima attenzione. Conflitti pratici
propone tuttavia un percorso diverso, che prescinde, apparentemente, dalla
dimensione storica, da quella sociale, come pure dal confronto diretto coi
“classici”. Si tratta di un percorso che concentra piuttosto l’attenzione sulle
ragioni che giustificano, del dibattito filosofico contemporaneo, le
rivendicazioni individuali e collettive, le scelte del legislatore, le decisioni dei
giudici, le convinzioni morali diffuse. Come si giustifica un percorso di questo
tipo?
4 Anche secondo Bobbio la filosofia del diritto ha una funzione di “tramite”, non tuttavia tra
filosofia e diritto ma tra le scienze giuridiche particolari: “in fondo il compito della filosofia del
diritto, dal punto di vista didattico, è quello di rompere gli argini che trattengono le disciplina
giuridiche tradizionali nel bacino artificiale di un sistema positivo” (Bobbio, Natura e funzione
della filosofia del diritto, cit., p. 51).
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Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
Non occorre scomodare Hegel per riconoscere che il discorso della filosofia
del diritto è figlio del suo tempo e, dunque, storicamente situato . Se prendiamo
sul serio questa considerazione, tuttavia, vi è un aspetto della realtà sociale in
cui viviamo che credo vada considerato. È’ evidente come la facoltà di giudicare
le opinioni altrui, di discernere il vero dal falso, di distinguere le buone dalle
cattive ragioni a sostegno di una scelta pratica, risulti oggi fortemente
indebolita, dentro e fuori le aule universitarie. Le cause sono ben note. Nel
mondo dell’ipercomunicazione, l’inflazione delle informazioni, monopolizzate
dai social media, rende assai difficile distinguere ciò che è attendibile e
rilevante da ciò che non lo è. Di più: si tratta di un mondo nel quale asserire il
falso o incorrere in contraddizioni è diventata la moneta corrente della
comunicazione politica e sociale. A questo si aggiunge il fatto che qualsiasi
scambio pubblico di opinioni tende a trasformarsi in una lotta senza quartiere,
nella quale l’insulto, la denigrazione dell’avversario o la ridicolizzazione
dell’opinione altrui prende il posto della discussione critica delle ragioni a
sostegno di una tesi, qualunque essa sia. Tutto ciò riduce drasticamente non
solo la qualità delle scelte collettive ma anche la capacità di esprimere un
giudizio ponderato su molti temi importanti per le nostre vite. Se così stanno le
cose, le voci provenienti dalla testa di Giano della filosofia del diritto,
quand’anche riuscissero a dialogare tra loro, rischiano fatalmente di non
trovare alcun interlocutore. Tanto il tentativo di ricostruire il retaggio culturale
dei fenomeni giuridici, quanto quello di decostruire l’ordine del discorso che
intesse il diritto o di risalire alle determinanti sociali di quest’ultimo, cadono
nel vuoto nel momento in cui viene meno la capacità dello studente, o del non
addetto ai lavori, di rielaborare, mediante l’uso di concetti e di ragionamenti,
qualsiasi tipo di discorso.
Conflitti pratici si propone in tal senso un obbiettivo assai modesto:
stimolare la capacità del lettore di giustificare una tesi, di individuare i punti
deboli delle tesi altrui, di ricercare le premesse implicite di un ragionamento, di
valutare le ragioni a sostegno di un’affermazione, e questo con riguardo ad
alcuni temi classici della filosofia del diritto e a scelte pratiche di stretta
attualità. Tale obbiettivo viene perseguito non prendendo le mosse da testi
sacri, dogmi metafisici o apparati concettuali precostituiti, ma facendo leva
sulle nostre intuizioni, sulle credenze diffuse, sui problemi che ci troviamo ad
affrontare nella vita di tutti i giorni, per rielaborarli poi attingendo al
linguaggio della filosofia del diritto e a quello della filosofia morale. Sono
convinto che riattivare la capacità di chiedere e dare ragioni sia una
precondizione per intraprendere i percorsi di indagine suggeriti da Andronico,
5
5 Cfr. Hegel, Prefazione, cit., p. 15.
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DAMIANO CANALE
Greco e Pomarici, i quali possono essere visti come possibili sviluppi
dell’approccio scelto nel libro e non invece come percorsi di indagine ad esso
alternativi.
L’appello alle ragioni che fa da sfondo a Conflitti pratici non va tuttavia
confuso come una forma di razionalismo, per il quale una ragione è tale
soltanto se costituisce la premessa di un argomento valido. Il tentativo di
risalire alle ragioni che giustificano una scelta pratica ha piuttosto lo scopo di
condurre il lettore a scoprire il proprio punto di vista sulle questioni trattate: la
pratica di dare e chiedere ragioni è vista cioè come un modo per conoscere se
stessi 6. Un po’ come in un dialogo platonico, Conflitti pratici tenta di inscenare
un confronto tra pretendenti al vero, una competizione che ha per oggetto la
natura del diritto, la natura della morale, il rapporto che il diritto intrattiene
con la morale, come pure la scelta da compiere nei casi di conflitto considerati
nella seconda parte del libro. I protagonisti di questo confronto sono ragioni
che si articolano in argomenti, teorie, concezioni, mentre lo scopo della
competizione non è individuare la ragione che sopravanza tutte le altre quanto
piuttosto condurre chi assiste alla scena ad acquisire consapevolezza dei
problemi in gioco quando si ha a che fare con un conflitto pratico 7. Il mio
auspicio è cioè che il lettore finisca col rivolgere a sé stesso gli interrogativi che
il libro solleva, usando le risposte che egli solo può dare a tali interrogativi per
orientare, nel modo che più gli è congeniale, le sue scelte pratiche.
Questo spiega perché Conflitti pratici non fornisca alcuna risposta alla
domanda “cosa devo fare?” ma si proponga, semplicemente, di stimolare il
lettore a porre a se stesso questo quesito, fornendo strumenti per scoprire i
presupposti e le implicazioni di un’interrogazione siffatta. Ciò è considerato, da
alcuni partecipanti al forum, come un limite del libro. Tale limite si
manifesterebbe, ad esempio, in un “eccesso di teoria” che conduce a non
fornire alcuna soluzione ai conflitti pratici considerati (Viola), o nel non
indicare al lettore come l’autore pensa (Andronico). Nella prospettiva difesa dal
libro, tuttavia, non è certo la filosofia a poter fornire una soluzione determinata
a un conflitto pratico, come se vi fossero, con riguardo a tali conflitti,
conoscenze già compiute buone per tutti allo stesso modo. Se la filosofia del
diritto facesse propria questa pretesa, si trasformerebbe in una forma di
dogmatismo, venendo al contempo meno al suo ruolo di “tramite” tra
prospettive e linguaggi diversi. Il modo in cui l’autore del libro pensa, inoltre, si
manifesta proprio nell’inscenare un confronto tra ragioni, partecipando al quale
6 Vedi A. Biral, Platone e la conoscenza di sé, Roma-Bari, Laterza, 1998.
7 Questo intento generale del libro è ben colto da Eugenio Lecaldano nel momento in cui
questi osserva che la presentazione delle concezioni generali dell’etica ha lo scopo di “mostrare
la loro fertilità nel fare emergere ciò che conta quando abbiamo a che fare con conflitti pratici”.
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Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
il lettore è spinto a ricercare il proprio punto di vista sulle questioni trattate,
non a far proprio il punto di vista di qualcun altro. Sotto questo profilo,
Conflitti pratici riserva alla filosofia del diritto un ruolo assai più modesto di
quello che alcuni partecipanti al forum sembrano attribuirle, un ruolo che
ritengo tuttavia non meno importante alla luce delle forme che ha assunto il
dibattito pubblico contemporaneo.
2. LA TESI DELLA DIPENDENZA
Per mostrare il ruolo che la filosofia del diritto può svolgere nel dibattito
pubblico e nella formazione di un giurista critico, ho scelto nel libro di puntare
l’attenzione su alcune situazioni di conflitto, oggi al centro del dibattito
pubblico, sulle quali ciascuno di noi potrebbe essere chiamato a prendere
posizione. Quindi ho tentato di evidenziare come il discorso filosofico-giuridico
consenta di rendere esplicite le ragioni di fondo che giustificano, in situazioni di
questo tipo, una scelta d’azione.
La tesi che sorregge la struttura del libro è la seguente: l’esistenza, le
caratteristiche distintive e il modo in cui viene affrontato un conflitto pratico
dipendono dalle concezioni del diritto e della morale di chi agisce, con
particolare riguardo alle decisione dei giudici. Due precisazioni sono qui
opportune.
(1) Biasetti riformula questa tesi nel modo seguente: “a) per giungere a una
decisione giuridica su un caso di [conflitto pratico], l’operatore giuridico deve
far uso primariamente di ragioni giuridiche; b) ciò che l’operatore giuridico
considera come ragione rilevante è influenzato dalla sua concezione del diritto;
c) questa, a sua volta, è influenzata dalla sua concezione della morale”. Questa
ricostruzione rischia di essere fuorviante poiché presuppone il primato delle
ragioni morali sulle ragioni di altro tipo in sede di giustificazione di una scelta
pratica. Questa tesi contraddistingue alcune concezioni del diritto esaminate
nel libro ma non altre. Nel caso l’avessi fatta mia in Conflitti pratici, avrei
ridotto arbitrariamente il campo della discussione filosofico-giuridica odierna,
così come le opzioni che essa offre ai processi di giustificazione dell’azione.
Secondo il giusnaturalismo esclusivo, ad esempio, l’operatore giuridico non può
che far uso di ragioni morali per individuare le ragioni giuridiche pertinenti
nella soluzione di un caso, come indicato da Biasetti. Nella prospettiva del
realismo giuridico, tuttavia, le concezioni della morale non influenzano in
alcun modo le concezioni del diritto meritevoli di questo nome ma si limitano
talora a condizionare le scelte discrezionali compiute dal giudice in sede
interpretativa, oltre ovviamente alle condotte dei consociati. Allo stesso modo,
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DAMIANO CANALE
secondo alcune versioni del positivismo giuridico esclusivo, le ragioni
giuridiche sono indipendenti dalle ragioni morali, e hanno non di meno la
capacità di motivare e giustificare in modo concludente l’azione, come avremo
modo di vedere più avanti. Ciò mostra come il rapporto tra ragioni giuridiche e
ragioni morali, e il prevalere delle une sulle altre di fronte a un conflitto pratico,
costituisce il punto del contendere nel dibattito filosofico-giuridico, non un
assunto condiviso da cui prendere le mosse.
(2) Francesco Viola osserva che la tesi enunciata in precedenza è fortemente
indeterminata ed eccessivamente prudente. Cosa significa che il modo in cui un
conflitto pratico viene rappresentato e affrontato dipende dalla concezioni del
diritto e della morale fatte proprie da chi agisce? Il termine “dipende” è inteso
qui come sinonimo di “è influenzato”, “è condizionato”, oppure di “è
determinato”, “è causato”? Il quesito sollevato da Viola è sicuramente
pertinente nel contesto di un discorso teso a individuare quale sia il rapporto
tra concezioni del diritto e della morale, da un lato, e ragionamento pratico,
dall’altro, escludendo al contempo la plausibilità di ricostruzioni alternative.
Ma, come evidenziato nel paragrafo precedente, non è questo l’intento di
Conflitti pratici. La funzione svolta dalla tesi della dipendenza è quella di
inscenare un confronto tra ragioni, non di incanalare tale confronto entro
coordinate determinate a priori. Il fatto dunque che Viola giudichi la tesi della
dipendenza non dubitabile da nessuno conferma che essa svolge il ruolo che
l’autore ha inteso attribuirle nello sviluppo del libro. Va da sé che le diverse
concezioni del diritto precisano la tesi della dipendenza in modi diversi, ma è
proprio tale pluralità di posizioni che il libro tenta di salvaguardare, per offrirle
al giudizio del lettore.
3. CONCEZIONI DEL DIRITTO A CONFRONTO
A prescindere dalle precisazioni appena formulate, resta il fatto che il modo
in cui è viene inscenato il rapporto tra concezioni del diritto e concezioni della
morale in Conflitti pratici è di per sé problematico. Un primo aspetto
meritevole di attenzione riguarda l’individuazione delle principali concezioni
del diritto contemporanee. A parte il caso in cui queste si riducano alle tesi di
singoli autori, la mappatura del dibattito filosofico-giuridico è frutto di
generalizzazioni che finiscono col mettere in ombra taluni aspetti del percorso
filosofico di un autore o di una corrente di pensiero, privilegiandone al
contempo altri. In molti casi, inoltre, le concezioni del diritto vengono delineate
a fini polemici – celebri in tal senso le critiche di Hart al formalismo e quella di
Dworkin al positivismo; una scelta, questa, che si accompagna a una
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Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
ricostruzione spesso non caritatevole, o addirittura caricaturale, delle posizioni
del proprio avversario. Fatte salve queste difficoltà di fondo, nel dibattito
interno alla filosofia del diritto sembra oggi prevalere, con riguardo al
problema del rapporto tra diritto e morale, la posizione di chi individua due
grandi concezioni del diritto contrapposte: il positivismo giuridico e il nonpositivismo giuridico 8. Positivista sarebbe la posizione di chi fa propria la tesi
della separazione, in base alla quale non vi è una connessione necessaria tra la
validità delle norme giuridiche, da un lato, e i loro meriti o demeriti morali,
dall’altro. Non-positivista sarebbe invece la posizione di chi ritiene che tale
connessione sussista necessariamente. Questa distinzione, qualora si accettino i
suoi assunti di partenza, ha il vantaggio di esaurire lo spazio logico delle
posizioni disponibili, consentendo una mappatura completa del dibattito e dei
suoi possibili sviluppi. Essa ha tuttavia molti difetti. In primo luogo, si tratta di
una distinzione ambigua. Nel linguaggio giuridico, il termine “validità” assume
tradizionalmente significati diversi. Esso viene talora inteso come sinonimo di
“esistenza” di una norma, altre volte di “appartenenza” di una norma a un
ordinamento, altre volte ancora di “applicabilità” o “obbligatorietà” di una
norma. Va da sé che a seconda del significato che a tale termine viene
attribuito, la distinzione tra positivismo e non-positivismo assume connotati
assai diversi, alternativi tra loro. In secondo luogo, i “non-positivisti” vengono
definiti per negazione, ovverosia come la classe complementare a quella dei
positivisti, col risultato che il non-positivismo arriva ad includere posizioni
filosofiche molto eterogenee o addirittura inconciliabili, come il
giusnaturalismo metafisico di ispirazione kantiana e il realismo giuridico
naturalista. In terzo luogo, la tesi della separazione, nell’accezione fornitane
sopra, è stata revocata in dubbio dagli stessi giuspositivisti, sulla scorta della
formulazione molto debole che ne ha fornito Hart nel Postscript a The Concept
of Law 9. Una soluzione alternativa a quella appena ricordata è quella di
mappare il dibattito attorno al rapporto tra diritto e morale ricorrendo alla
classica distinzione tra positivismo e giusnaturalismo, intesi come concezioni
comprensive del diritto non riducibili, rispettivamente, alla tesi della
separazione e a quella della connessione 10. Ma anche questa strategia offre il
fianco a critiche. I giuspositivismi e i giusnaturalismi contemporanei, se intesi
8 Cfr., ad esempio, R. Alexy, On the Concept and Nature of Law, “Ratio Juris”, 21, 2008, pp.
284 ss.; S. Perry, Beyond the Distinction between Positivism and Non-Positivism , “Ratio Juris”,
22, 2009, pp. 311-325.
9 Cfr. L. Green, Positivism and the Inseparability of Law and Morals, “New York University
Law Review”, 83, 2008, in particolare pp. 1040 ss. Vedi anche J. Gardner, Law as a Leap of
Faith, Oxford, Oxford University Press, 2013.
10 È’ questa la proposta, ad esempio, di J. Coleman, The Architecture of Jurisprudence,
“Yale Law Journal”, 121, 2011, pp. 2-80.
460
DAMIANO CANALE
come concezioni comprensive del diritto, focalizzano l’attenzione su temi e
problemi filosofici diversi, utilizzando stili di indagine e linguaggi spesso assai
eterogenei, come notato, tra gli altri, da Ansuátegui e Viola. Ne segue che
risulta assai difficile individuare una piano comune del discorso che renda la
distinzione tra positivismo e giusnaturalismo informativa e illuminante con
riguardo al rapporto tra diritto e morale.
Alla luce di tutto questo, in Conflitti pratici ho seguito una via intermedia,
giustificata dalle finalità del libro. Ho preso le mosse da una tripartizione –
quella tra giusnaturalismo, giuspositivismo e neo-costituzionalismo –
ampiamente diffusa nel discorso dei giuristi e ormai fatta propria dalla
manualistica filosofico-giuridica, perlomeno in Europa continentale e in
Sudamerica. Un tripartizione, dunque, che semplicemente registra alcune
scansioni del dibattito attorno al rapporto tra diritto e morale entrate a far
parte del lessico comune dei giuristi. Ho tentato poi di caratterizzare le tre
concezioni non solo mediante le tesi della separazione e della connessione ma
considerando il modo in cui esse declinano il concetto di diritto e il problema
dell’interpretazione giuridica, temi che consentono di attribuire a queste tesi un
contenuto più ricco e determinato. Da ultimo, ho declinato le tre concezioni al
plurale, in modo da salvaguardare alcune specificità dei percorsi filosofici degli
autori discussi. Si tratta di una strategia che, non diversamente dalle precedenti,
è suscettibile di critica laddove pretenda di fornire una mappa dettagliata del
dibattito filosofico-giuridico contemporaneo, oppure di cogliere il ruolo che il
diritto svolge nei rapporti sociali, come sottolineato da Pomarici. Non di meno,
mi è sembrata la strategia da preferire nello sviluppo di un discorso che per un
verso intende essere informativo e, per altro verso, tenta di stimolare il lettore a
porsi interrogativi filosoficamente interessanti con riguardo al rapporto tra
diritto e morale.
4. I CONFLITTI PRATICI SONO INTERNI AL DIRITTO?
Sempre con riguardo al rapporto tra concezioni del diritto e concezioni della
morale, un secondo aspetto meritevole di discussione concerne la tesi, sostenuta
da Ansuátegui e Viola, secondo la quale i conflitti pratici considerati nel libro
sarebbero in realtà interni al diritto. Ad opinione di Ansuátegui, la
positivizzazione di un catalogo di principi morali entro gli ordinamenti
democratico-costituzionali contemporanei ha fatto sì che i conflitti tra diverse
concezioni del bene possano essere tematizzati entro la cornice della
costituzione, la quale apre il campo a una pluralità di “mondi
costituzionalmente possibili” in un contesto democratico e pluralista. In questa
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Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
prospettiva, i conflitti tra diritto e morale non rinviano a sistemi normativi
indipendenti – la morale da un lato e il diritto dall’altro – ma si configurano
come conflitti che il diritto incorpora in sé stesso e che il giudice governa
mediante l’interpretazione dei principi costituzionali. Anche Viola sottolinea
come l’istanza etica permei necessariamente la pratica giuridica, e dunque
anche la decisione del giudice. Si tratta tuttavia di un’etica interna al diritto,
espressione del valore morale dell’impresa giuridica considerata nel suo
complesso, la quale nulla ha a che fare con le dottrine comprensive del diritto e
della morale descritte nel libro, che andrebbero invece lasciate “fuori dal
diritto”. Questa istanza etica si manifesterebbe, in tutta la sua pregnanza, nella
ragionevolezza delle scelte pratiche compiute dagli operatori giuridici, le quali
non sono predeterminate dalle concezioni del diritto né tanto meno dalle
concezioni della morale.
Con riguardo alle considerazioni critiche di Ansuátegui, mi sembra che esse
tendano ad idealizzare gli Stati costituzionali di diritto, facendone uno spazio
nel quale le diverse concezioni del bene presenti nella società, sebbene in
tensione tra loro, possono convivere armoniosamente sotto l’egida del diritto.
Una posizione, questa, tipicamente difesa dal neo-costituzionalismo. Questa tesi
si espone tuttavia perlomeno a due critiche. In primo luogo, i mondi
costituzionalmente possibili di cui parla Ansuátegui non sono con-possibili: il
concretizzarsi dell’uno, per iniziativa del legislatore o del giudice costituzionale,
di fatto impedisce il concretizzarsi di tutti gli altri in un dato momento storico 11.
Ne segue che il diritto può fungere da strumento di radicalizzazione del
conflitto, nel momento in cui privilegia una certa concezione del bene a scapito
delle altre. La convivenza armoniosa tra visioni del bene dipende in realtà dalle
virtù democratiche dei cittadini e di chi esercita poteri pubblici, oltre che
dall’interiorizzazione del valore del pluralismo in seno alla società. In secondo
luogo, l’architettura delle democrazie costituzionali contemporanee è
compatibile con concezioni del diritto diverse dal neo-costituzionalismo. Ad
esempio, la positivizzazione di principi morali all’interno delle costituzioni può
essere descritta come la trasformazione di questi ultimi in norme giuridiche di
per sé prive di rilievo morale, coerentemente con alcune versioni del
positivismo 12. Con la conseguenza che le ragioni morali a favore o contro le
11 Non va infatti dimenticato che i principi costituzionali, così come si configurano negli
ordinamenti contemporanei, sono costitutivamente antinomici, col risultato che i confitti tra
visioni del bene che hanno luogo nella società tendono semplicemente a riprodursi
nell’ordinamento sotto forma di conflitti tra principi. Cfr. B. Celano, Diritti, principi e valori
nello Stato costituzionale di diritto: tre ipotesi di ricostruzione, “Analisi e diritto”, 2005, pp. 5374.
12 Vedi ad esempio E. Bulygin, Il positivismo giuridico, a cura di P. Chiassoni, R. Guastini,
G.B. Ratti, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 69 ss.
462
DAMIANO CANALE
scelte interpretative del giudice perdono qualsiasi rilevanza nel contesto
dell’ordinamento. Per converso, i conflitti pratici che coinvolgono norme
giuridiche possono essere concepiti come conflitti tra ragioni morali, la cui
soluzione pone le ragioni giuridiche, comprese quelle di rango costituzionale, in
una posizione strumentale e subalterna, come sostenuto da alcuni esponenti del
giusnaturalismo 13. In base a queste ricostruzioni, dunque, negli Stati
costituzionali di diritto i conflitti tra diritto e morale non sono interni al diritto
e si configurano, piuttosto, come conflitti tra sistemi distinti di norme.
Quest’ultima tesi, inoltre, non è incompatibile con la prospettiva neocostituzionalista, la quale si limita a sostenere che in contesti storici e
istituzionali determinati l’insieme delle norme morali interseca l’insieme delle
norme giuridiche, senza giungere a sostenere che non vi sia distinzione alcuna
tra diritto e morale, posizione che appare, per altro, del tutto controintuitiva.
Per quanto riguarda invece le osservazioni di Francesco Viola, l’invito a
lasciare le concezioni comprensive del diritto e della morale fuori dalla pratica
giuridica e dal suo studio, mi sembra incoerente. Tale invito trova infatti
giustificazione in una concezione comprensiva del diritto. Come traspare dalle
pagine del suo saggio, Viola formula questa tesi riprendendo per un verso il
giusnaturalismo di John Finnis – secondo il quale le pratiche sociali avrebbero
una finalità intrinseca, che ne individua il “caso centrale” e le orienta
naturalmente alla “fioritura umana” – e per altro verso l’idea di moralità
interna del diritto elaborata da Lon Fuller; posizioni, per altro, considerate in
Conflitti pratici. La circostanza che, sulla base di una concezione comprensiva
del diritto, si sostenga che concezioni di questo tipo non dovrebbero essere
prese in considerazione nello studio dei conflitti pratici, pone tale prescrizione
metodologica in conflitto con se stessa, ovvero la configura come una forma di
dogmatismo. Vi sarebbe un insieme di dogmi filosofici autoevidenti, non
suscettibili di ulteriore interrogazione, dai quali il filosofo del diritto dovrebbe
prendere le mosse per accostarsi a un conflitto pratico, al fine di indicare la via
che conduce alla sua soluzione. Nella prospettiva difesa nel libro, un
atteggiamento di questo tipo equivale a rinunciare all’aspetto genuinamente
filosofico della filosofia del diritto: il costituire una forma di interrogazione
radicale che non cessa mai di revocare in dubbio i presupposti del proprio
procedere 14.
13 Cfr. M. Moore, Justifying the Natural Law Theory of Constitutional Interpretation,
“Fordham Law Review”, 69, 2001, pp. 2087-2117.
14 Questo aspetto distintivo di qualsivoglia pratica filosofica e efficacemente richiamato da
Ansuátegui nel saggio pubblicato in questo numero della rivista.
463
Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
5. ETICA NORMATIVA E METAETICA
Un ulteriore aspetto meritevole di attenzione, sempre in relazione alla
struttura generale del libro, concerne la scelta di esaminare il modo in cui la
metaetica entra in gioco nella giustificazione di una scelta d’azione, trascurando
invece il ruolo svolto dalle etiche normative. Questa mancanza è sottolineata
tanto da Ansuátegui quanto da Pomarici e da Viola, i quali osservano,
correttamente, che le etiche normative svolgono un ruolo molto importante nei
contesti di conflitto considerati. È’ questa senz’altro una lacuna di Conflitti
pratici, motivata in realtà da esigenze editoriali. Il manoscritto originario del
libro conteneva una capitolo dedicato alle etiche normative, considerate a
partire dalla classica distinzione tra etiche consequenzialiste ed etiche
deontologiche (tra le quali venivano ricomprese anche le etiche della virtù).
L’esigenza di contenere il numero di pagine mi ha portato a sacrificare questa
parte, come pure a tagliare due capitoli nei quali esaminavo altri casi di
conflitto pratico: il primo legato al problema della regolamentazione dei flussi
migratori in Italia e il secondo alla giustificazione della tortura nel contesto
della guerra contro il terrorismo. Ma perché ho scelto di sacrificare il capitolo
dedicato alle etiche normative e di conservare invece, nella versione definitiva
del libro, quello dedicato al dibattito metaetico? Non era forse preferibile
compiere la scelta opposta? In primo luogo, per garantire simmetria
all’architettura del lavoro. Le concezioni del diritto trovano infatti la loro
controparte discorsiva nelle concezioni della morale e non nell’etica normativa.
Così come le prime rispondono al quesito “che cos’è il diritto?”, delineando lo
spazio concettuale in cui si colloca il discorso attorno a quest’ultimo, allo stesso
modo le seconde rispondono al quesito “cos’è la morale?”, svolgendo la
medesima funzione con riguardo al discorso etico. Sotto il profilo
architettonico, le etiche normative svolgono invece un ruolo analogo a quello
svolto dai sistemi di norme giuridiche (gli ordinamenti giuridici particolari), i
quali sarebbero altrettanto meritevoli di considerazione nello studio dei conflitti
tra diritto e morale, soprattutto in chiave comparatistica. Una seconda ragione
che giustifica questa scelta sta nel fatto che non mancano, nella letteratura in
lingua italiana, indagini approfondite sulle grandi questioni di etica normativa
sollevate dal diritto: si pensi, ad esempio, ai lavori di Carlos Nino e di Mauro
Barberis 15. Del tutto marginale è invece l’attenzione riservata al dibattito
metaetico da parte dei filosofi del diritto italiani, un dibattito che sta invece
diventando centrale nella jurisprudence anglosassone per effetto, soprattutto,
della discussione attorno al problema della normatività del diritto: la capacità
15 C. Nino, Introduzione all’analisi del diritto, Torino, Giappichelli, 1996; M. Barberis, Etica
per giuristi, Roma-Bari, Laterza, 2006.
464
DAMIANO CANALE
riconosciuta a quest’ultimo di guidare le condotte sociali. Come si spiega e
giustifica tale capacità? Ora, il problema della normatività costituisce uno dei
temi di elezione della metaetica 16, la quale ha accumulato nel tempo un bagaglio
di riflessioni e conoscenze alle quali i filosofi del diritto cominciano ad
attingere 17. Allo stesso modo, i filosofi morali – sebbene, come nota giustamente
Pomarici, tradizionalmente non molto interessati al diritto – cominciano a
guardare a quest’ultimo con maggiore attenzione, in quanto caso del tutto sui
generis di normatività pratica 18. Alla luce di tutto questo, credo che il dialogo tra
filosofia del diritto e metaetica costituirà, negli anni a venire, un terreno fertile
di riflessione che potrebbe guadagnare il centro del dibattito filosoficogiuridico 19. Portare questo dialogo all’attenzione del lettore, seppur in modo
assai sommario, mi è sembrato dunque opportuno. Secondo Ansuátegui e
Biasetti, tuttavia, questa mossa non appare comunque giustificata
nell’economia del libro, dal momento che, secondo il primo, non vi sarebbe una
connessione necessaria tra concezioni del diritto e concezioni della morale, o
comunque, come sostiene il secondo, tale connessione sarebbe assai debole e
dunque priva di rilevanza.
Con riguardo alla prima osservazione, concordo senz’altro con Ansuátegui:
nel dibattito contemporaneo chi abbraccia una concezione del diritto non si
impegna, necessariamente, a una concezione della morale determinata, né
l’adesione a una concezione della morale impegna necessariamente a una certa
concezione del diritto e non ad altre 20. Tuttavia, in taluni casi questo accade. Ad
esempio, chi si dichiara giusnaturalista o neo-costituzionalista non può non
impegnarsi a una qualche forma del realismo morale, ovverosia non può non
credere, pena l’incorrere in contraddizione, che esistano proprietà normative e
16 Per un quadro d’insieme vedi, da ultimo, D. Star (ed.), The Oxford Handbook of Reasons
and Normativity , Oxford, Oxford University Press, 2018.
17 Cfr. M. Greenberg, How Facts Make Law, “Legal Theory”, 10, 2004, pp. 157-198; S.
Hershovitz, The End of Jurisprudence, “Yale Law Journal”, 124, 2015, pp. 1160-1204; B. Bix,
Kelsen, Hart, and Legal Normativity , “Revus”, 34, 2018, pp. 1-17; K. Himma, Morality and the
Nature of Law, Oxford, Oxford University Press, 2018.
18 Vedi D. Enoch, Reason-Giving and the Law, in L. Green, B. Leiter (eds.), Oxford Studies
in Philosophy of Law, Oxford, Oxford University Press, 2011.
19 Cfr. D. Plunkett, S. Shapiro, K. Toh (eds.), Dimensions of Normativity: New Essays on
Metaethics and Jurisprudence, Oxford, Oxford University Press, 2019.
20 Non trovo pertanto condivisibile l’obbiezione avanzata da Viola secondo cui, in Conflitti
pratici, sosterrei che l’adesione a una certa concezione della morale determina l’adesione a una
corrispondente concezione del diritto, la quale a sua volta determina la soluzione di un certo
conflitto pratico; tesi, questa, ovviamente erronea. La metaetica e le concezioni comprensive del
diritto si limitano a fornire ragioni pro tanto idonee a giustificare le premesse del ragionamento
pratico, ragioni dunque che meritano di essere prese in considerazione, dal punto di vista
filosofico, nel momento in cui si tratta di valutare una scelta d’azione, e questo a prescindere dal
fatto che tali ragioni siano concludenti oppure no.
465
Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
che queste siano conoscibili. In virtù della tesi della separazione, il
giuspositivista non assume direttamente impegni di questa natura, fatta
eccezione per il giusrealista, il quale fa implicitamente propria una qualche
forma di anti-realismo morale. In taluni casi, dunque, l’adesione a una certa
concezione del diritto comporta, necessariamente, l’adesione a una certa
concezione della morale e viceversa (ad esempio, non è possibile essere antirealisti in metaetica e al contempo giusnaturalisti). Le relazioni tra concezioni
del diritto e concezioni della morale sono dunque di tipo diverso; un pluralismo
che mostra, a mio modo di vedere, la ricchezza del dibattito filosofico-giuridico
contemporaneo. Né la rilevanza filosofica di queste relazioni mi sembra
compromessa, come sembra invece ritenere Biasetti, dal fatto che non vi è
sempre una corrispondenza biunivoca tra concezioni della morale e concezioni
del diritto. La possibilità che questo non accada, e che una scelta d’azione possa
trovare giustificazione giuridica a prescindere da qualsivoglia ragione morale,
costituisce semplicemente una delle opzioni al centro del dibattito.
Più radicale è invece la critica formulata in questo contesto da Francesco
Viola, secondo il quale la metaetica nulla avrebbe a che fare coi conflitti pratici:
“la metaetica non è un criterio accettabile per individuare i rapporti tra diritto e
morale e, quindi, per comprendere i conflitti pratici tra l’uno e l’altra. (…)
Cercare di ricondurli alla metaetica è un’inclinazione accademica, una
tendenza della cattedra che va alla ricerca del fondamento ultimo, a volte
perdendo di vista la specificità del problema e, in questo caso, la vera e propria
natura del conflitto pratico”. Ha ragione Viola nel sottolineare che i conflitti
pratici affondano le loro radici nel “mondo della vita” e non nei discorsi
accademici. Richiamando un’immagine nietzschiana, si potrebbe dire che nei
contesti di conflitto le scelte d’azione sono intrise di carne e sangue. Non è
casuale, dunque, che lo studio di ciascun conflitto esaminato nel libro – a
partire dalla vicenda delle guardie del muro per arrivare alla condanna a morte
di William Furman – prenda le mosse dalla descrizione di un caso nel quale la
dimensione esistenziale ed emotiva delle persone coinvolte svolge un ruolo
preponderante. Mi sarebbe piaciuto, alla fine della discussione di ciascun caso,
riconsiderare questa dimensione alla luce dell’intervento operato dal giudice o
dal legislatore, proprio perché la ritengo di fondamentale importanza nello
studio dei conflitti pratici. Purtroppo i limiti posti alla lunghezza del libro
l’hanno consentito in modo assai ridotto. Non di meno, non trovo condivisibile
l’obbiezione di Viola secondo la quale le concezioni del diritto e della morale
nulla hanno da dire in merito ai conflitti pratici, o addirittura conducono a
fraintenderne la natura. Come già osservato in precedenza, queste concezioni
non avanzano la pretesa di offrire una soluzione a buon mercato a un caso di
conflitto, ammesso e non concesso ve ne sia una. Come direbbe Winfried
466
DAMIANO CANALE
Sellars, esse sono parte dello “spazio della ragioni” che contraddistingue il
contesto storico in cui viviamo, e consentono di chiarire i presupposti dei nostri
ragionamenti pratici e di quelli dei soggetti istituzionali 21. Rinunciare a
interrogare tali presupposti equivale, come ricordavo prima, a rinunciare alla
filosofia o a travisarne la funzione nel dibattito pubblico.
6. LA NATURA DEI CONFLITTI PRATICI
Ma se quanto appena osservato coglie nel segno, qual è allora la natura dei
conflitti pratici considerati nel libro?
Secondo Pierfrancesco Biasetti, sebbene i casi analizzati presentino la forma
superficiale di un conflitto pratico, la loro struttura profonda è quella di un
disaccordo morale. L’argomento di Biasetti può essere riassunto nel modo
seguente. Nella prospettiva adottata nel libro, si dà il caso di un conflitto pratico
tra diritto e morale qualora l’agente X abbia una ragione morale pro tanto per
fare φ, una ragione giuridica pro tanto per fare χ, ma i φ e χ sono incompatibili
tra loro (due corsi di azione sono incompatibili se la realizzazione dell’uno
impedisce la realizzazione dell’altro). I conflitti di questo tipo tendono ad
assumere la forma del dilemma pratico dal momento che tanto le ragioni morali
quanto le ragioni giuridiche esprimono la pretesa di motivare o giustificare in
modo concludente l’azione. Le prime sono infatti ragioni incondizionate
(overriding reasons) 22, mentre le seconde sono ragioni escludenti (exclusionary
reasons) 23. Da qui la problematicità dei conflitti tra diritto e morale, dovuto alla
difficoltà di ordinare gerarchicamente le ragioni in gioco. Osserva tuttavia
Biasetti che “un aspetto generalmente riconosciuto alle norme morali è la
capacità di produrre ragioni con una certa forza prescrittiva, capaci cioè di
motivarci in qualche modo all’azione (…). Questa forza prescrittiva è presente
nelle ragioni prodotte dalle norme giuridiche soltanto indirettamente: non ne è,
in pratica, una caratteristica essenziale”. Secondo questa prospettiva, le ragioni
giuridiche possono cioè motivare l’azione dei loro destinatari soltanto se questi
credono che le condotte che esse giustificano realizzino un fine buono o giusto,
oppure se credono che sia moralmente doveroso osservare le norme giuridiche,
oppure ancora se credono sia prudente farlo sulla base del loro self-interest.
21 W. Sellars, In the Space of Reasons. Selected Essays, ed. by K. Sharp and R. Brandom,
Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2007.
22 H. Sidwick, The Methods of Ethics, London, Macmillan, 1907, p. 25-26; R.M. Hare, Moral
Thinking: Its Methods, Levels, and Point, Oxford, Clarendon Press, 1981, p. 53; B. Williams,
Ethics and the Limits of Philosophy , London, Fontana, 1986, p. 6.
23 J. Raz, Practical Reason and Norms, Oxford, Oxford University Press, 1975.
467
Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
Orbene, poiché le ragioni giuridiche non sono in grado di fornire un movente
diretto all’azione, la forza concludente che viene loro attribuita dipenderà
giocoforza da ragioni ulteriori. Nei caso dei conflitti tra diritto e morale, tali
ragioni sono evidentemente di tipo morale: ragioni ricavate dalla morale positiva
che il legislatore ha convertito in norme giuridiche. La conclusione
dell’argomento è la seguente: i conflitti tra diritto e morale si configurano in
realtà come disaccordi morali: X crede che in una data situazione vi sia una
ragione morale per fare φ, una o più norme giuridiche hanno cristallizzato
nell’ordinamento una ragione morale per fare χ in quella situazione, ma i φ e χ
sono incompatibili tra loro. Detto altrimenti, i conflitti trattati nel libro si
collocano nello spazio delle ragioni morali, e sorgono di riflesso a un conflitto tra
morali positive che ha luogo all’interno della società.
L’argomento di Biasetti è molto interessante e ricco di spunti che
meriterebbero un approfondimento ben maggiore di quello che questa mia
replica consente. Mi limiterò qui a considerarne un passaggio chiave. Biasetti
muove dall’assunto secondo il quale le ragioni giuridiche non sono di per sé
idonee a motivare una condotta o a giustificarla in modo concludente. Questa
tesi è tuttavia controversa nel dibattito filosofico-giuridico. Ad esempio, tra i
giuspositivisti prevale l’opinione secondo la quale le ragioni giuridiche sono
concludenti a prescindere da ragioni di altro tipo 24. Il modo più diffuso per
giustificare questa tesi consiste nel qualificare le ragioni giuridiche come
convenzioni. Ora, è noto che nel linguaggio filosofico contemporaneo il termine
“convenzione” è ambiguo. Fatte salve le indagini pionieristiche di David Lewis
sul tema, secondo Ruth Millikan, ad esempio, una convenzione è un pattern di
comportamento che si riproduce all’interno di una comunità umana
semplicemente perché tenuto in precedenza, a prescindere dai suoi meriti
morali o prudenziali 25. Secondo Margareth Gilbert, gli individui talora agiscono
per perseguire fini comuni costituendo dei “soggetti plurali” sulla base di
credenze condivise; queste forme di agire collettivo generano
convenzionalmente obblighi in capo agli agenti, motivando la loro azione a
prescindere dai meriti morali del fine perseguito o da considerazioni di tipo
24 Questa tesi è oggi sostenuta, pur secondo accezioni diverse, da filosofi del diritto come
Andrei Marmor, Scott Shapiro, Kevin Toh, David Plunkett e, in Italia, Bruno Celano. Diversa la
posizione di Josef Raz, il più noto esponente del giuspositivismo esclusivo. Secondo Raz le
ragioni giuridiche sono ragioni morali dotate di proprietà peculiari (sono ragioni morali
“escludenti” o “protette”), proprietà che possono essere individuare mediante l’analisi del
concetto di autorità legittima. Vedi J. Raz, The Authority of Law, Oxford, Oxford University
Press, 1979, pp. 17-18.
25 Cfr. R. Millikan, Language: a Biological Model, Oxford, Clarendon Press, 2005.
468
DAMIANO CANALE
prudenziale 26. Analogamente, secondo Michael Bratman i piani di azione che
governano l’agire collettivo hanno un’intrinseca forza motivazionale che trova
fondamento esclusivamente nella razionalità strumentale dell’agente, a
prescindere da motivazioni di tipo morale 27. Ancora, lo stesso John Rawls negli
anni ’60 del secolo scorso tentò di ritagliare agli obblighi giuridici una forza
concludente che non dipende necessariamente da obblighi morali o da ragioni
prudenziali sottostanti, puntando l’attenzione sul carattere istituzionale del
diritto e sull’adesione volontaria dei consociati alla comunità politica 28. È’
importante notare che queste linee di indagine si sottraggono all’obbiezione
secondo cui le convezioni sociali sarebbero in ultima istanza giustificate da
esigenze morali. Le ragioni per agire di natura convenzionale possono infatti
essere concludenti anche se giustificano comportamenti profondamente
immorali 29.
Sulla base di quanto appena osservato, mi sembra che la possibilità di
descrivere i conflitti tra diritto e morale come disaccordi morali dipenda dalla
concezione del diritto adottata. Generalmente, il positivista nega che ciò sia
possibile mentre il non-positivista lo ammette. In Conflitti pratici ho preferito
non parteggiare per l’una o per l’altra posizione e lasciare il dibattito aperto,
sebbene sia incline a ritenere corretta la prima opzione: è possibile che una
ragione giuridica sia concludente indipendentemente da ragioni morali o
prudenziali che ne motivino o giustifichino l’osservanza.
Resta tuttavia il problema di chiarire in che modo sorga un conflitto pratico
laddove questo non consista in un disaccordo morale. L’idea sviluppata nel
libro è la seguente: i conflitti pratici trovano origine nel senso di ingiustizia
percepito da un individuo, che motiva la rivendicazione di una pretesa o di una
libertà non riconosciuta dal diritto. Sotto il profilo psicologico, dunque, la
scintilla che fa scoppiare un conflitto pratico è la credenza individuale in un
26 Interessante in tal senso è l’analisi della promessa proposta da Gilbert: M. Gilbert, DeMoralizing Political Obligation, in Id., Joint Commitment. How We Make the Social World,
Oxford, Oxford University Press, 2014, pp. 389 ss.
27 Cfr. M. Bratman, Intentions, Plans and Practical Reason, Cambridge (Mass.), Harvard
University Press, 1988. Sul tema vedi anche J. Dutan, C. Littlejohn, On the Normativity of
Rationality and of Normative Reasons, in corso di pubblicazione.
28 J. Rawls, Legal Obligation and the Duty of Fair Play (1964), ora in Id., Collected Papers,
ed. by S. Freeman, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1999, pp. 117 ss. Come noto,
Rawls abbandonò in seguito questa linea argomentativa anche di riflesso alle penetrati critiche
formulate da Robert Nozick. La teoria del consenso quale fondamento di ragioni per agire
concludenti è stata successivamente sviluppata, nel campo della filosofia politica, da autori come
John Plamenatz, Peter Steinberger e Mark Murphy.
29 Cfr. S. Shapiro, Legality , Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2011.
469
Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
torto subito per effetto dell’applicazione di una norma giuridica 30. Le guardie
del muro ritenevano ingiusto essere accusate di omicidio per aver compiuto un
loro dovere; Piergiorgio Welby riteneva ingiusto vedersi negato il diritto di
sospendere le cure che lo tenevano in vita contro la sua volontà; Enrico Oliari e
Lorenzo Longhi ritenevano ingiusto non potersi sposare perché omosessuali, e
via dicendo. Ha ragione dunque Tommaso Greco quando osserva che la
questione dei conflitti pratici si collega strettamente al problema della giustizia.
In un’accezione, tuttavia, “negativa”. Sotto il profilo psicologico, il senso di
ingiustizia precede la richiesta di giustizia e ne motiva la rivendicazione, la
quale può trovare soddisfazione solo se alla pretesa o alla libertà negata arrivino
a corrispondere un dovere o una non-pretesa altrui. Va da sé che il punto di
vista della prima persona – “Ho il diritto di fare (o non fare) φ” 31 – non è
sufficiente per generare un conflitto pratico. Affinché ciò accada, è necessario
che la richiesta di giustizia venga riconosciuta all’interno della società dal punto
di vista della terza persona – “X ha il diritto di fare (o non fare) φ” – trovando
fondamento in una ragione che sopravanza le ragioni di altro tipo. La credenza
in un torto subito ad opera del diritto deve cioè essere giustificata da una
ragione morale. Quando ciò accade, sorgono i conflitti pratici ai quali il libro è
dedicato. Da ciò non segue che nelle società caratterizzate da una pluralità di
visioni del bene il diritto è sempre immorale. Lo diventa quando il senso di
ingiustizia individuale acquista un rilievo morale poiché vengono colpiti valori
sociali ritenuti fondamentali. Ciò per certi versi ribalta lo scenario adombrato
da Greco. Nelle società pluraliste i conflitti pratici non sono un fenomeno
pervasivo ma costituiscono piuttosto una sorta di stato di eccezione, in
occasione del quale la società, per mezzo delle sue istituzioni, è chiamata a
riflettere su se stessa. E questo non a garanzia di un enigmatico “bene comune”,
il cui contenuto appare controverso, ma per ristabilire la “comunanza del
bene”, nelle diverse declinazioni che quest’ultimo assume nella società, negata
dal diritto ingiusto.
7. NORME E VALORI
L’ultimo tema su cui vorrei concentrare l’attenzione è forse il più importante,
poiché costituisce la chiave di volta dell’approccio al problema del rapporto tra
30 Vedi su questo punto H. Hofmann, Introduzione alla filosofia del diritto e della politica, a
cura di G. Duso, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 78-82.
31 Per “diritto” intendo qui un diritto morale, ovverosia la posizione soggettiva di chi ha la
libertà o la pretesa di fare φ dal punto di vista morale. Va da sé che i diritti morali possono giungere
ad avere il medesimo contenuto dei diritti giuridici, attribuiti ad un individuo da norme giuridiche.
470
DAMIANO CANALE
diritto e morale proposto in Conflitti pratici. Eugenio Lecaldano osserva come
il libro offra una rappresentazione dell’esperienza pratica che non muove dai
sentimenti individuali e dai valori sociali, per dar conto poi delle norme morali
e della loro relazione con le norme giuridiche. L’ordine del discorso procede in
senso inverso: muove dalle norme, nelle loro diverse caratterizzazioni, per dar
conto poi dei ragionamenti che gli agenti morali compiono per giustificare le
loro scelte d’azione nelle situazioni di conflitto pratico. Il libro privilegia cioè la
giustificazione dei comportamenti rispetto alle motivazioni individuali, le
ragioni rispetto ai valori, ciò che viene detto rispetto a ciò che viene creduto e
desiderato. In questa prospettiva, il contenuto dei giudizi pratici (siano essi
morali o giuridici) non dipende dalle credenze e dai desideri di chi agisce
quanto piuttosto dai ragionamenti che vengono considerati idonei, nel discorso
morale e giuridico, a giustificare l’agire.
Una scelta di questo tipo, secondo Lecaldano, genera alcune difficoltà
rilevanti. In primo luogo, “i conflitti pratici che chiamano in causa moralità e
immoralità della legge sono caratterizzati da una forza e pregnanza affettiva,
emotiva, passionale che non sembra pienamente raccolta dalle varie concezioni
normative”. Detto altrimenti, i conflitti pratici non sarebbero tanto conflitti tra
norme quanto piuttosto tra attitudini motivazionali (sentimenti, desideri). In
secondo luogo, l’approccio proposto finisce col far emergere l’indecidibilità dei
conflitti tra diritto e morale, il loro carattere dilemmatico, col risultato che la
soluzione di tali conflitti sembra lasciata all’intervento autoritativo del
legislatore o del giudice. Anche sotto questo profilo, l’analisi fornirebbe una
rappresentazione parziale dell’esperienza pratica, che non consente di esplorare
percorsi alternativi di composizione del conflitto. Seguendo una linea tracciata
da Preti e Scarpelli, Lecaldano ritiene dunque preferibile un approccio che
restituisca priorità alla motivazione morale nella spiegazione del
funzionamento dei vari tipi di norme che guidano la condotta umana.
Come si giustifica allora il percorso proposto in Conflitti pratici? A mio
modo di vedere, il riconoscere la priorità delle motivazioni rispetto alle ragioni
genera due ordini di problemi. In primo luogo, corre il rischio di configurare il
diritto come una sistema coercitivo di norme che condizionano le condotte
degli individui mediante la minaccia di sanzione. Solo la dimensione
sanzionatoria del diritto sembra infatti avere un impatto diretto, non mediato
da ragioni, sugli stati motivazionali degli agenti, riuscendo a guidare le loro
azioni. Per converso, concepire il diritto come un insieme di ragioni consente di
cogliere in modo più perspicuo gli innumerevole modi mediante i quali il
diritto governa le condotte sociali, condizionando l’ordine di preferenze degli
individui e le loro scelte pratiche. In secondo luogo, attribuire precedenza
esplicativa alle motivazioni sulle ragioni, ai valori sulle norme, non consente di
471
Il rapporto tra diritto e morale nella prospettiva della filosofia del diritto
spiegare in modo convincente alcuni aspetti importanti dell’esperienza morale.
Proviamo a veder perché.
L’idea suggerita da Lecaldano è che le ragioni morali, e i giudizi che queste
giustificano, esprimano le attitudini motivazionali di chi agisce: una persona
consapevole di sé non formula il giudizio “è bene fare φ” se non approva φ. Ciò
presuppone la capacità di conoscere, in modo trasparente, in che modo i giudizi
morali, al pari delle ragioni che li giustificano, sono correlati ai motivi
dell’azione. Tuttavia, questa trasparenza della mente è oggi revocata in dubbio
dalle scienze cognitive, le quali hanno evidenziato come i motivi dell’azione siano
spesso imperscrutabili per l’agente. In secondo luogo, la tesi di Lecaldano ha
alcune implicazioni controintuitive. Spesso le nostre attitudini motivazionali (i
nostri sentimenti, desideri, inclinazioni, ecc.) sono modificate dai giudizi e dalle
ragioni morali. Se qualcuno mi convince che è male circolare in automobile a
Milano a causa degli effetti che questo produce sull’inquinamento dell’aria, ci si
aspetta che le mie attitudini motivazionali mutino di conseguenza, e che io
desideri non circolare con l’auto a Milano. Dunque, a volte sono le ragioni a
determinare i motivi dell’azione. Va riconosciuto che l’emotivista espressivista ha
alcune frecce al suo arco per replicare a questa obbiezione. Potrebbe infatti
sostenere che i giudizi morali manifestano direttamente, senza intermediari, stati
conativi che motivano l’azione. Non occorre dunque inferire, mediante il
ragionamento, conclusioni morali da questi stati mentali. Credere che uccidere
sia un male è semplicemente avere una certa attitudine che motiva a non
uccidere. In una prospettiva espressivista internalista – quale quella difesa, mi
sembra, da Lecaldano – i giudizi sono identici ai motivi: non si possono
esprimere i primi senza avere i secondi. Ma questo crea ulteriori difficoltà. In
base a questa prospettiva, sarebbe impossibile accettare un giudizio morale,
considerandolo una ragione a favore di un’azione, e non essere al contempo
motivati ad agire di conseguenza. La nostra esperienza quotidiana sembra
tuttavia mostrare il contrario. Ad esempio, in molte occasioni riteniamo sia bene
dire la verità ma non siamo poi motivati a farlo. Dunque, è possibile giudicare
un’azione buona senza essere motivati a compierla. Tipica sotto questo profilo è
la figura dell’individuo amorale, impersonata dal Trasimaco di Platone e
dall’Uriah Heep di Dickens 32. Se così stanno le cose, il rapporto tra motivi e
ragioni, tra valori e norme, sembra più complesso e articolato rispetto a quanto
suggerito da Lecaldano.
32 Cfr. D. Brink, Externalist Moral Realism , “Southern Journal of Philosophy”, 24, 1986, pp.
23-41.
472
DAMIANO CANALE
Da qui la mia preferenza, in Conflitti pratici, per un approccio quasi-realista,
di tipo inferenzialista, al rapporto tra motivi e ragioni, tra valori e norme 33. Si
tratta di un approccio che prende le mosse dall’analisi dalla pratica di dare e
chiedere ragioni che ha luogo nel dibattito pubblico e nel discorso filosofico, al
fine di individuare le condizioni alle quali una scelta d’azione è trattata come
giustificata in un certo dominio del discorso. Gli stati motivazionali dell’agente,
in questa prospettiva, non sono altro che impegni inferenziali che il parlante
assume formulando un giudizio morale, senza che vi sia la pretesa di fornire un
resoconto introspettivo della vita emotiva o cognitiva dell’agente. Si tratta,
ovviamente, di un tipo di indagine che sconta molte limitazioni, come evidenzia
Lecaldano. La più rilevante sta forse nel fatto che essa fornisce una
rappresentazione incompleta dell’esperienza pratica. Quando l’agente si trova
in situazioni di conflitto che tendono ad assumere la forma del dilemma
pratico, la sua scelta d’azione si situa in uno spazio cieco – o comporta un
“salto”, come direbbe Simon Blackburn 34 – che non può essere tematizzato
mediante il ragionamento pratico 35. Al contempo, credo che il riconoscimento
di questo limite costituisca un salutare antidoto contro l’irrefrenabile impulso
della filosofia giuridica e morale contemporanee a razionalizzare la sfera
pratica, senza per questo rinunciare ai contributi che la filosofia può fornire per
orientarci nella nostra vita. Come ebbe a dire Bernard Williams,
non vi può essere una teoria interessante, ben ordinata e autosufficiente di cosa sia la morale, né vi
può essere (…) una teoria dell’etica che fornisca una procedura decisionale nel ragionamento morale. (…)
Prima o poi la moralità finisce con l’essere riconosciuta come qualcosa la cui vera esistenza consiste
nell’esperienza personale e nelle istituzioni sociali, non in un insieme di proposizioni 36 .
Quanto Williams sosteneva con riguardo alla morale credo possa essere
esteso al diritto e alla comprensione che ne può offrire la filosofia.
33 Cfr. R. Brandom, Articulating Reasons. An Introduction to Inferentialism , Cambridge
(Mass.)-London, Harvard University Press, 2000, pp. 79 ss.; S. Blackburn, Essays in Quasirealism , Oxford-New York, Oxford University Press, 1993. L’approccio adottato in Conflitti
pratici è di stampo quasi-realista poiché tratta i fatti morali al modo di assunzioni concettuali
diffusamente utilizzate per giustificare i comportamenti umani, senza per questo assumere
impegni ontologici con riguardo alla natura del mentale o all’esistenza di proprietà morali.
34 S. Blackburn, Dilemmas: Dithering, Plomping, and Grief, in H.-E. Mason (ed.), Moral
Dilemmas and Moral Theory , Oxford-New York, Oxford University Press, 2006, pp. 127 ss.
35 Ciò non esclude che questa lacuna possa essere in parte colmata mediante l’apporto delle
scienze cognitive e della filosofia della mente. Lo studio delle ragioni per agire si presta anzi ad
essere integrato da percorsi di ricerca di tipo diverso.
36 B. Williams, Moral Luck, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, pp. viii-ix
(traduzione mia).