Burchiello

Quella della parodia è una pratica che investe intertestualmente modelli riconoscibili, stabili e di autorità comprovata o presunta. Nella storia delle forme poetiche occidentali, nelle stagioni e negli autori a più alto tasso sperimentale (che si vogliono tanto più radicali quanto più codificata è la tradizione cui appartengono: quella francese e quella italiana, tipicamente), il sonetto non poteva che generare diversi tentativi in questo senso. In Italia, in particolare, dagli anni Sessanta ad oggi si registrano pseudo o parasonetti di varia natura: il Sonetto primaverile di Pier Paolo Pasolini, la Prova per un sonetto e l’Ipersonetto di Andrea Zanzotto (in IX Ecloghe e in Galateo in bosco), gli ipertrofici sonetti “fuori catalogo” di Edoardo Sanguineti, gli iposonetti di Nanni Balestrini (Ipocalisse), i più recenti “piccoli suoni” di Marco Giovenale (Quasi tutti). Parodie di segno assai diverso, da rileggere magari politicamente, secondo l’ottica del rapporto con l’autorità: oscillante tra un’ordinata superfetazione e un’impetuosa dismisura; tra una paralisi reverenziale e un’amputazione eversiva; tra un’ineffettuale irregolarità, infine, e uno svuotamento strutturale che suona anche le corde della satira nei confronti dei poeti che continuano a replicare il modello, sic et simpliciter.

While we wait for the forthcoming edition of Burchiello's poetry, the first English translation of his work, by F. Alfie and A. Feng, I share my ageing introduction to "I Sonetti del Burchiello", a cura di M. Zaccarello, Torino, Einaudi, 2004, pp. V-XXX (a full legenda to the sonnets' witnesses and to bibliographical references may be read at p. 311-339 of the volume).

Nella nostra storia letteraria la produzione comica è ritenuta sorella minore di quella seria, quasi un’eccezione a essa. Le ragioni pertengono alla natura intrinseca del comico, rivelato in modo rovesciato dall’innocenza del riso, e nella conseguente non-serietà della letteratura scaturita da tale fenomeno. Dice Aristotele che gli sviluppi della commedia non sono noti «perché all’inizio non fu presa sul serio». Lo stesso si può dire della nostra letteratura comica. Perciò, basandomi su uno studio puntuale condotto per il dottorato, proporrò come giuntura tra il comico e la sua applicazione letteraria la facezia, mostrando che la sua natura para-letteraria non solo contamina di faceto la letteratura alta, ma è motivo ricorrente, seppure obliato, della nostra letteratura. Compiuto un excursus sulla fenomenologia faceta, si presenterà un canone storico-critico, sovvertendo o almeno riequilibrando in chiave critica le attuali gerarchizzazioni: saranno chiamati in causa i grandi come Dante, Petrarca (sic), Boccaccio, Burchiello, Sacchetti, Bracciolini e altri, fermando questa prima collazione a Pontano, consacratore della facezia quale massima espressione dell’intelligenza umana. Eroe cangiante sarà il vir facetus, padrone dei meccanismi poetici e capace di sublimare la realtà in visione letteraria. Dopotutto se la nostra è «la più seria delle letterature» (Tomasi di Lampedusa) è anche per un certo conservatorismo tolemaico. Che sia proprio la facezia a promuovere un’insospettabile rivoluzione copernicana?

Il presente lavoro intende offrire un quadro generale sulla corrispondenza come strumento di comunicazione atta al reperimento di oggetti antichi, libri rari e di pregio con varie personalità, nazionali e internazionali. In particolare il carteggio del marchese Alessandro Gregorio Capponi, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, dà una panoramica su ciò che effettivamente veniva richiesto per le sue collezioni private, ma anche pubbliche (come nell'allestimento del Museo Capitolino a Roma) tra oggetti antichi e libri di vario tipo. La corrispondenza con l'erudito fiorentino Anton Maria Biscioni è utile soprattutto per le richieste di libri manoscritti e a stampa, che vanno dal Trecento a tutto il Cinquecento, e tra questi spiccano le novelle e il "Pataffio" di Franco Sacchetti, autore messo più volte all’Indice a causa di quel registro linguistico basso-volgare, spesso tendente all’oscenità, che richiama in tutto la poesia comico-realistica adottata successivamente da Domenico di Giovanni detto il “Burchiello”. Mentre il primo capitolo vuole dare informazioni generali su chi fosse il marchese Capponi e quali siano stati in vita i suoi interessi, il secondo e terzo capitolo offrono al lettore un’analisi sul potente mezzo della corrispondenza, del carteggio con il letterato Biscioni e infine la trascrizione di venticinque lettere (con il relativo commento) conservate nei Capponiani 271, 272, 274.

This article is about a Renaissance dirty joke: a pun that likened the Flavian amphitheater in Rome (‘il Culiseo’) to a culo, i.e. an ass or anus. Starting in the mid-1400s, comic poets and satirists, especially Tuscans from il Burchiello to Pietro Aretino and Benvenuto Cellini, riffed on the Colosseum’s anus-like ground plan (elliptical, with radial walls), mucky interior, and fame as a place for sodomitic trysts. In so doing, they also hilariously inverted a mainstay of medieval guidebooks and romances: the conception of the Colosseum as a celestial temple, an emblem of Rome as caput mundi.

Whilst the musical taste prevailing in the intellectual environments of fifteenth-century central Europe was still predominantly influenced by the Scholastic teachings on music, the Italian humanists of this period approached the musical world from a whole new perspective. For the Scholastics, music belonged in the theoretical realm of 'scientia': they placed value on the compositional and theoretical elements that lay behind musical sound, and therefore delighted in the technical complexity of the musical language which continental polyphony had begun to acquire in the fourteenth century. Conversely, Quattrocento humanists conceived music as a practical 'ars', thus focusing more on the sonic experience of performance and on the figure of the performer. In particular, many humanists were themselves practitioners of solo performance of oral poetry, often sung to the accompaniment of a stringed instrument called 'lira da braccio'. Focusing on this performative tradition, I argue that the peculiarity of the humanistic musical taste within the European intellectual framework owes much to the ideal of 'virtù', a concept which acquired very specific meanings within the humanistic environments of fifteenth-century Italy, and significantly shaped artistic taste and value. Drawing on a wide range of Classical and Renaissance sources, I explore the semantic and semiotic connection between the realm of virtù and that of self-accompanied solo performance. By examining the figures of fifteenth-century Florentine civic performers called  'canterini', I then demonstrate how these two realms actually interacted (and even overlapped) in practice in the city of Florence, the spring of Quattrocento humanism.


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in Antonfrancesco Grazzini dit Lasca (1505-1584). Ecrire dans la Florence des Médicis, Manziana, Vecchiarelli editore, 2005, pp. 201-210 ; in Francesco Bausi e Vincenzo Fera, éds, Laurentia laurus. Per Mario Martelli, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2004, pp. 39-50
Lorenzo il Magnifico nelle « Cene » di Antonfrancesco Grazzini
ISBN : 88-8247-164-0

For the bizarre versification techniques used by Burchiello and his followers, the modern notion of nonsense was often used, regardless of the actual linguistic strategies deployed; this essay attempts to restore a historical contextualization of such verse, in the framework of early 15th-century satire of scholastic philosophy and false savants, a tradition that accounts for much of Burchiello's deconstruction of syntax and logical consequentiality of his texts.

Alessandro Braccesi (1445-1503), di umile famiglia fiorentina, fu notaio, intellettuale e poeta, sia in latino sia in volgare.

Sebbene la sua poesia non avesse avuto particolare risonanza fra i suoi contemporanei ed il suo nome sia ora noto solamente a una cerchia ristretta di studiosi, il suo lavoro merita qualche riconoscimento, o per lo meno la pubblicazione.

Il proposito di questo blog è quello di fornire ai ricercatori interessati alla poesia comica del Quattrocento un’edizione critica del canzoniere volgare non amoroso di Braccesi.

La scelta di pubblicare i testi inediti di Braccesi in un blog è dettata da molteplici considerazioni di carattere pratico. La prima è di rendere disponibili i testi in edizione critica Open Access. La seconda è quella di semplificarne la fruizione tramite l’uso dell’ipertesto e della rete; testo e paratesto sono, dove possibile, corredati di link. La terza è quella di favorire uno scambio fra chi redige questi testi e i lettori. La poesia comico-realistica è infatti notoriamente ambigua e legata a doppio filo al contesto di produzione della medesima. La collaborazione con chiunque voglia apportare un contributo sarà pertanto benvenuta e riconosciuta.

Download the Open Access PDF at http://www.rivistadistudiitaliani.it/articolo.php?id=2228 Nella produzione giovanile di Lorenzo de’ Medici, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta del Quattrocento, vi sono due poemetti comicorealistici. Il primo, il Simposio, fu scritto a più riprese fra il 1469 ed il 1474, mentre la composizione del secondo, l’Uccellagione di starne, è più tarda e, come si vedrà, si può quasi certamente datare dopo la morte di Piero de’ Medici1. In entrambi i poemetti ha assoluta centralità il ritratto comicamente distorto dei fiorentini dell’epoca. I poemetti si distinguono nel Quattrocento per originalità di forma e contenuti, nonostante queste opere abbiano in origine una circolazione limitata, e la fruizione dei testi da parte di chi veramente ne comprende i riferimenti è ristretta. Lo scopo di questo articolo è quello di mettere a fuoco alcune tecniche narrative impiegate in particolar modo nell’Uccellagione di starne, e nello specifico l’utilizzo degli animali nella narrazione. Quantunque la rappresentazione realistica, tipica della letteratura comica di questo periodo, non sia la marca stilistica predominante di quest’opera, l’effetto comico si mantiene costante proprio nella descrizione dei personaggi: al centro della narrazione non vi è la caccia, ma la rappresentazione caricaturale di quest’ultimi, quasi sempre accompagnati da sparvieri. Questo saggio si sviluppa dunque come segue. Innanzitutto, paragono concisamente l’Uccellagione di starne al Simposio al fine di contestualizzare gli interessi laurenziani per ciò che concerne il genere comico. Sintetizzo quindi gli elementi essenziali della tradizione manoscritta e della datazione dell’Uccellagione; introduco poi il genere poetico della caccia e la sua eredità nel quindicesimo secolo. Dopo una sintesi della trama, analizzo la rappresentazione dei singoli personaggi ed infine concludo con alcune considerazioni.

«Chi mi darà la voce e le parole?» Questo suggestivo verso del Boiardo viene enfaticamente riproposto dall’Ariosto. Tra i tanti legami che tengono ben stretti l’«Orlando innamorato» e l’«Orlando furioso», quel verso condiviso ci dice che la poesia cavalleresca gioca la sua partita artistica più importante nel rapporto di mutua collaborazione tra la voce e le parole. Ci dice, a noi che siamo abituati a leggerli in silenziosa solitudine, che questi testi hanno un’intima propensione alla resa spettacolare: vennero composti anche per essere cantati e, di conseguenza, ascoltati da un pubblico presente e partecipe, quello che, nelle sale di corte come nelle piazze, godeva dell’arte performativa dei cantastorie.
I percorsi affrontati in questo volume, spesso disponibili alla divagazione, ci aiutano a osservare vasti orizzonti culturali e letterari. Incentrate sulla realtà fiorentina nel periodo che va dal tardo Trecento al primo Cinquecento, altre libere perlustrazioni ci orientano nei singoli generi (quello comico, oltre a quello cavalleresco), agevolano la mappatura di contenuti, modalità espressive e formali, consentono l’incontro con scrittori capaci di dare una forte impronta al codice letterario entro cui operano, come Burchiello e Andrea da Barberino. Viene più facile, poi, incontrare anche Pulci, Lorenzo o Machiavelli, riascoltare le loro voci, rileggere le loro parole.

Between 14th and 15th century, a growing number of Italian comic and realistic sonnets feature the addition of a "cauda" of 2-3 lines, whose most common form is "dEE", with a settenario rhyming with the last line of the tercet, followed two hendecasyllables. This essay attempts to offer an outline of the ways in which scribal editors and copyists represent such an innovation on the page, in terms both of paratextual presentation and the "visual poetics" (according to the definition introduced by H.W. Storey in 1993) of lyric anthologies.

Il comico è un terreno impervio sia da un punto di vista linguistico, sia da un punto di vista semantico e fenomenologico. Quando e perché si ride e come si ot- tiene questo effetto comico resta un mistero che si può indagare solo con risposte a pioggia, per tentativi, senza pretendere mai di esaurire la vitalità di questo fenome- no tanto banale e sconcertante. Trivializzare, deridere, dissacrare, profanare sono tutti aspetti che appartengono al comico e si vede bene che alla base di questi atti c’è la volontà di distruggere un’idea di verità svelandone l’errore. Diventa allora interessante notare come nei secoli xV e xVi la letteratura comica sia stata la porta- voce neanche troppo silenziosa di una nuova modalità del sapere (in verità già an- tica) da attuarsi attraverso l’ingegno naturale – esperienza frutto dell’osservazione diretta della natura – opposto all’ingegno “accidentale” procurato direttamente da un auctoritas filosofica e/o religiosa. Il collasso-scontro di questi due saperi caratterizza il comico dell’Umanesimo e poi del Rinascimento.

Un nuovo testimone dei Sonetti del Burchiello sul mercato antiquario, in “Collezione privata”. Notizie storico-filologiche e recuperi testuali dal mondo dell’antiquariato e del collezionismo librario. Atti del Convegno (Ascona-Monte Verità, Centro “S. Franscini”, 16-17 novembre 2006), a cura di R. Castagnola e M. Z., numero monografico dell’ “Bollettino Storico della Svizzera italiana”, CXLII (2008). p. 325-336.

La comica apocalisse nella poesia del Trecento e del Quattrocento


I secoli XIV e XV videro l'esplosione dei generi comici basati sulla parodia dei generi alti e sull'uso di innesti lessicali, semantici e tecnici tolti direttamente dalle discipline se non scientifiche tout-court certamente non letterarie in senso stretto. Questa commistione era sintomatica di un nuovo paradigma di conoscenza che preparava il terreno alla scienza moderna e al suo linguaggio attraverso un procedimento distruttivo. Non dovrebbe stupire che proprio il genere comico – per sua costituzione aperto alle commistioni (cfr. Auerbach) – diventò il mezzo ideale per irradiare nuovi saperi tramite scenari parodico-apocalittici che minavano la pretesa di un sapere dogmatico tipico della cultura ufficiale e, in particolare, di quella ecclesiastica. Dietro la risata, gli autori nascondevano una nuova concezione del mondo e del sapere. Se la Coena Cypriani costituisce una forma archetipica di questa comicità parodica, si pensi poi agli esiti nei ludi infernali di Dante fino al collasso lessicale in Burchiello (celebri gli antecedenti di Sacchetti, Orcagna e Niccolò Povero) e la corporeità esplosiva e ostinatamente parodica del Morgante dove il corpo è il rovesciamento del logos. Sono tutte rappresentazioni lampanti di un modo innovativo di concepire non solo la poesia, ma il sapere in generale, correndo spesso il rischio di una alterità eretica. In base a quanto accennato, essendo frutto di una consuetudine ben stabilita e di una sorta di naturale e reciproca attrazione, questo rapporto tra comicità e apocalisse merita un’indagine attenta.

Il secondo verso del sonetto di Burchiello 'Nominativi fritti e mappamondi' recita "e l'arca di Noè tra due colonne': si tratta forse di un'allusione a uno dei quartieri della Roma quattrocentesca, il Fondaco dei macelli d'Arcanoe; la storia urbanistica di questo angolo di Roma può infatti gettare luce su vari aspetti del testo burchiellesco.

According to one of the strangest, most hilarious stories reported in Benvenuto Cellini’s Vita, the sculptor went to the Colosseum with a necromancer in the early 1530s and conjured up demons, particularly fierce and dangerous ones. After the end of antiquity the Colosseum had functioned as a quarry for materials and later as a lively artisans’ quarter (10th-14th cents.), but by Cellini’s time it had been largely abandoned. This paper considers the possible reasons for its selection as a venue for Cellini’s congress with the spirits.  They include the edifice’s place in early modern variants on the Mirabilia literature; the rediscovery of the Colosseum’s original function and of Tertullian’s De Spectaculis; legends associated with Simon Magus on the nearby Velian Hill; and the likelihood of sodomitic double entendre in Cellini’s appellation for the building (“culiseo”).