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Mario G . Salzano
  • Italy
  • 0039 3299755189
Deported to Dachau. A case-study of ordinary (in)justice in the Abruzzi region after the Second World War. In light of recent studies on transitional justice, this article examines the controversial aspects of a justice procedure of... more
Deported to Dachau. A case-study of ordinary (in)justice in the Abruzzi region after the
Second World War. In light of recent studies on transitional justice, this article examines the controversial aspects of a justice procedure of collaborationism, instructed by the Aquila Court of Appeal in the autumn of 1945. The research, carried out on previously unpublished archival sources, analyzes the events that brought to the deportation of 383 detainees and nine civilians from the prison of Sulmona to Dachau’s konzentrationslager. The analysis of the trial allows to connect this specific case-study, of which there is no trace in public memory, to the wider historiographical debate that has highlighted the limits and contradictions of the special legislation aimed at purging and punishing Fascist criminals. This research has also shed new
light on certain crucial aspects concerning the failure, after the fall of the Fascist regime, to release Yugoslav prisoners condemned by wartime military tribunals, who became victims of a double deportation: first to Italy, and after September 8, 1943 to Nazi concentration camps.
Key words: Transitional justice, deportation, political prisoners, Yugoslav partisans, Abruzzo,
Konzentrationslager Dachau


Alla luce dei recenti studi sulla giustizia di transizione, il saggio richiama l’attenzione sugli aspetti controversi di un procedimento giudiziario per collaborazionismo istruito presso la Corte d’Appello dell’Aquila nell’autunno 1945. La ricerca, condotta su fonti archivistiche inedite, ricostruisce gli avvenimenti che determinarono la deportazione di 383 detenuti e nove civili dal carcere di Sulmona al Konzentrationslager di Dachau. L’analisi della vicenda processuale consente di collocare il caso abruzzese, del quale la memoria pubblica non conserva alcuna traccia, nel più ampio dibattito storiografico che ha indicato i limiti e le contraddizioni della legislazione speciale per l’epurazione e la punizione dei crimini fascisti. Lo scavo archivistico ha permesso inoltre di approfondire alcuni aspetti cruciali relativi alla mancata liberazione,
in seguito alla caduta del fascismo, dei detenuti jugoslavi condannati dai tribunali militari di guerra, vittime della doppia deportazione: prima in Italia e, dopo l’8 settembre 1943, nei campi di concentramento nazisti.
Parole chiave: Giustizia di transizione, deportazione, detenuti politici, partigiani jugoslavi,
Abruzzo, Konzentrationslager Dachau
L’acuirsi dell’annosa Questione orientale, sfociata nel conflitto russo-turco (1877-1878), ridestò nuovamente l’attenzione delle potenze europee sulla provincia ottomana di Bosnia-Erzegovina. L’articolo 25 del Trattato di Berlino (1878) e... more
L’acuirsi dell’annosa Questione orientale, sfociata nel conflitto russo-turco (1877-1878), ridestò nuovamente l’attenzione delle potenze europee sulla provincia ottomana di Bosnia-Erzegovina. L’articolo 25 del Trattato di Berlino (1878) e la Convenzione di Costantinopoli (1879) concessero all’Austria-Ungheria la facoltà di occupare e amministrare i territori bosniaci e inviare le truppe nel sangiaccato di Novi Pazar, per tutelare e difendere i propri interessi nella regione. Con la ratifica della Convenzione «fu salvato platonicamente l’alto dominio del Sultano» sul vilayet bosniaco. Il governo austro-ungarico si impegnò a «non pregiudicare per nulla i diritti di sovranità di S.M. il Sultano su queste province», ad assicurare «completa libertà ai musulmani nei loro rapporti coi proprii superiori ecclesiastici [sic!] [...] a vigilare colla massima cura, affinché non avvenga alcuna offesa all’onore, ai costumi e consuetudini, alla libertà dell’esercizio religioso, alla sicurezza delle persone e della proprietà dei musulmani». Tuttavia, l’occupazione austro-ungarica segnò la brusca fine di quattro secoli di dominio turco nella provincia e si rivelò ben presto gravida di conseguenze non solo per la comunità islamica, ma soprattutto per i già precari equilibri tra le principali componenti proto-nazionali del paese: serbi, musulmani e croati.
La Costituzione della Repubblica socialista della Bosnia-Erzegovina, promulgata il 25 febbraio 1974, sancì, de jure, la «nascita» della nazione musulmana di Bosnia-Erzegovina, la sesta nazione costituente della Repubblica Federativa... more
La Costituzione della Repubblica socialista della
Bosnia-Erzegovina, promulgata il 25 febbraio 1974, sancì, de jure, la
«nascita» della nazione musulmana di Bosnia-Erzegovina, la sesta nazione
costituente della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia1.
Fu l’ultimo atto di un complesso percorso politico avviato dal Partito
comunista jugoslavo nell’ambito della lotta popolare di Liberazione,
durante le fasi decisive del Secondo conflitto mondiale. L’approccio
dei comunisti jugoslavi alla questione nazionale musulmana
aveva da subito evidenziato alcune criticità rispetto al tradizionale
orientamento iperlaicista della dottrina marxista-leninista. L’elemento
predominante di una presunta identità collettiva musulmana, in effetti,
era e restava saldamente ancorato al patrimonio religioso islamico.
L’idea di fondare la nazione musulmana su tali presupposti, nonostante
l’opera di persuasione da parte di alcuni esponenti del mondo
accademico bosniaco, fu considerata, dai comunisti più intransigenti,
incompatibile con quei principi sui quali il partito aveva fondato, legittimato
e preteso il consenso popolare nell’immediato secondo dopoguerra.
La guerra nella Valle Peligna giunse dal cielo, nell'estate del 1943, con i bombardamenti e i mitragliamenti anglo-americani sulla popolazione, poi da terra, con l'occupazione tedesca, in modo stabile e permanente dal 13 settembre all'8... more
La guerra nella Valle Peligna giunse dal cielo, nell'estate del 1943, con i bombardamenti e i mitragliamenti anglo-americani sulla popolazione, poi da terra, con l'occupazione tedesca, in modo stabile e permanente dal 13 settembre all'8 giugno del 1944. Le vittime civili furono numerose, i danni alle infrastrutture e al tessuto sociale, incalcolabili. Come accadde altrove, anche in Valle Peligna la presenza tedesca alimentò sporadici fenomeni di resistenza non armata e comunque non sufficiente a suscitare particolare preoccupazione tra i comandi germanici. I casi di collaborazionismo e delazione, al contrario, furono frequenti e le conseguenze, in diversi casi, molto gravi...
In Jugoslavia, nei primi anni del secondo dopoguerra, l’organizzazione dell’annuale pellegrinaggio alla Mecca (hadž) era vincolata dalle rigide direttive del Segretariato statale degli Affari Interni (DSUP, Državni Sekretarijat... more
In Jugoslavia, nei primi anni del secondo dopoguerra, l’organizzazione dell’annuale pellegrinaggio alla Mecca (hadž) era vincolata dalle rigide direttive del Segretariato statale degli Affari Interni (DSUP, Državni Sekretarijat Unutrašnjih Poslova). Tra il 1949 e il 1961, prima che iniziasse ad assumere le connotazioni di un fenomeno di massa, la partecipazione all’hadž fu rigorosamente limitata a un ristretto numero di funzionari religiosi “fidati”. L’atteggiamento delle autorità fu apparentemente controverso. Nonostante le severe restrizioni imposte sul numero dei partecipanti, il viaggio alla Mecca fu anzitutto l’occasione per poter veicolare il “nuovo volto” del socialismo jugoslavo nei Paesi arabi del Mediterraneo orientale, negli stessi anni in cui si consumava la prima grave crisi tra il Partito comunista dell’Unione Sovietica e il Partito comunista jugoslavo (1948-1955). L’organizzazione dell’hadž fu in larga parte condizionata dai rapporti diplomatici jugoslavi con i Paesi del Medioriente. La mediazione dei funzionari musulmani bosniaci nei rapporti diplomatici con le istituzioni politiche e religiose dei Paesi arabi di tradizione islamica, è testimoniata dalle relazioni della Commissione per gli Affari religiosi (KZVP, Komisija za Vjerska Pitanja) e della Comunità religiosa islamica (IVZ, Islamska Vjerska Zajednica). L’atteggiamento delle autorità governative jugoslave riguardo il pellegrinaggio alla Mecca, nella sua duplice dimensione di fenomeno religioso e politico, è un interessante punto di partenza per aprire nuove prospettive di indagine sui rapporti tra il Partito comunista jugoslavo poi Lega dei comunisti jugoslavi (Komunistička Partija Jugoslavije; dal 1952 Savez Komunista Jugoslavije) e la componente musulmana di Bosnia-Erzegovina.
Allo stato attuale della ricerca storiografica relativa ai crimini nazisti e fascisti commessi nei confronti della popolazione civile della Valle Peligna, tra l'8 settembre 1943 e l'8 giugno 1944, sono state finora censite 28 vittime in... more
Allo stato attuale della ricerca storiografica relativa ai crimini nazisti e fascisti commessi nei confronti della popolazione civile della Valle Peligna, tra l'8 settembre 1943 e l'8 giugno 1944, sono state finora censite 28 vittime in 18 distinti episodi; 24 uomini e 4 donne. Le più giovani, se si fa eccezione della morte del feto nel grembo di Gemma Addolorata Puglielli, entrambi vittime del fuoco tedesco, furono Elena Di Bacco, 14 anni, di Pratola Peligna e Ivo Coccia, 8 anni di Sulmona. Sette omicidi furono commessi nella prima settimana di giugno del 1944, quando le truppe tedesche si preparavano a lasciare la Valle Peligna. Gli esecutori di questi crimini sono tuttora sconosciuti, eccetto uno. Si tratta di Giovanni Stenkling, sergente carrista dell'esercito tedesco di occupazione. Il caso Stenkling fu uno dei 13 procedimenti giudiziari avviati dalla magistratura italiana nei confronti dei criminali di guerra, giunti a dibattimento, e sui quali fu emessa una sentenza, prima che Enrico Santacroce, procuratore del Tribunale supremo militare a Roma, disponesse, nel 1960, l'archiviazione e l'occultamento dei fascicoli relativi ai crimini nazisti e fascisti commessi in Italia dopo l'8 settembre. Il caso Stenkling, data l'eccezionalità delle circostanze giudiziarie, fu rievocato in Parlamento più di sessant'anni dopo, l'8 febbraio 2006, in occasione di un'interrogazione della "Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti".
During the final year of the Great War, the Italian government authorized the enlistment of Czech and Slovak prisoners in order to form a Legion within Italy’s own borders. In this essay the author concentrates on two points: the first... more
During the final year of the Great War, the Italian government authorized the enlistment of Czech and Slovak prisoners in order to form a Legion within Italy’s own borders. In this essay the author concentrates on two points: the first explores wartime imprisonment in Abruzzo, with particular reference to the Fonte d’Amore concentration camp; the second focuses on the enlistment of Czech and Slovak prisoners being held in the camp. From April 1918 until the end of the War the Fonte d’Amore camp was the main destination for Czech and Slovak prisoners who fought against the Austro- Hungarian Empire to bring about the establishment of the Czechoslovak Republic, which was achieved on October 28, 1918
From the beginning of the Great War diverse national groups of the Austro-Hungarian empire showed dissent with regard to the Habsburg Throne. Within these groups representatives of the Czech and Slovak peoples seemed to be the most... more
From the beginning of the Great War diverse national groups of the Austro-Hungarian empire showed dissent with regard to the Habsburg Throne. Within these groups representatives of the Czech and Slovak peoples seemed to be the most determined in their widespread dissemination of propaganda aimed at achieving a political and military alliance between the governments of the Entente countries. In April 1918 the Italian government authorised the enlistment of Czech and Slovak prisoners of war into a special division of the Royal Italian Army. Initially, the same military authorities had previously impeded the decision. It emerges, from diplomatic documents and reports from the Italian Army, that the Italian military chiefs’ strategic decisions, ready to use every possible opportunity to gain advantage in the theatre of war, were decisive rather than the political and ideological motivations, which have often been highlighted.
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