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Filosofia Italiana Leggere Husserl oggi. Intervista a Vincenzo Costa a cura di Federica Buongiorno Abstract: In this interview, Vincenzo Costa reports about his personal way of interpreting and developing Husserl’s phenomenology, referring to his work as a translator of the Husserlian main writings in Italian as well as to his examination of other philosophers (such as Stumpf and Derrida), whose thought he takes into account to propose a profitable lecture of Husserl’s phenomenology today – starting from the problems of our very current time. www.filosofia-italiana.net - ISSN 1827-5834 - Aprile 2014 Federica Buongiorno (a cura di) – Intervista a Vincenzo Costa Leggere Husserl oggi. Intervista a Vincenzo Costa a cura di Federica Buongiorno Buongiorno: Partiamo da una domanda che riguarda Husserl e il suo contesto. Nei tuoi libri, e in particolare ne I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica (2009), come anche ne Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose (2007), hai sempre curato con molta attenzione – mi pare – il rapporto di Husserl con gli altri autori, ricostruendo il confronto su temi specifici con le fonti e gli interlocutori di riferimento. In quest’ottica, è particolarmente interessante la ricostruzione, ne Il cerchio e l’ellisse, del rapporto tra Husserl e il suo allievo Heinrich Hoffmann sul tema della sensazione (Husserl annota alcuni appunti sulla tesi dottorale di Hoffman). Non si tratta, a mio parere, di un approccio scontato: se è, ovviamente, impossibile studiare il pensiero di un autore in maniera decontestualizzata, è vero che una certa tendenza nella ricerca fenomenologica spinge verso una chiusura esclusivamente interna al testo husserliano, spesso giustificata dalla sostanziale assenza in Husserl di una vera e propria preoccupazione storico-filosofica. Come ti poni rispetto a questo problema di metodologia generale? Costa: Mi sembra che uno dei rischi che si possono correre studiando Husserl sia quello di ripetere i testi husserliani, tendenzialmente esasperando la quantità di citazioni – perché questo conferisce un’immagine di maggiore scientificità del lavoro. Il rischio è di non comprendere veramente il testo, non perché lo studioso che lo legge non sia bravo, ma semplicemente perché la comprensione ha sempre a che fare con una ri-attualizzazione a partire dai problemi dell’oggi. Secondo me, si dovrebbe sempre fare un lavoro in avanti e all’indietro: il testo parla se lo studioso pone al testo delle domande, e quel che è interessante verificare è se Husserl ha qualcosa da dirci rispetto a problemi che caratterizzano la nostra esperienza effettiva della vita oggi. Al fine di comprendere autenticamente il testo husserliano, però, questo processo deve essere accompagnato dal tentativo, rivolto all’indietro, di capire le prese di posizione di Husserl nei confronti di un contesto. Quindi, quello che va riattualizzato non è tanto l’idea che aveva Husserl: la fedeltà al testo husserliano consiste, piuttosto, nel riconoscere e riproporre la domanda che stava alla sua base. Per esempio, nel caso del mio I modi del sentire, svolgere una discussione sulla teoria delle emozioni in Husserl senza ricondurla a Carl Stumpf, al quale sono dedicate le Ricerche logiche, mi sarebbe sembrato alquanto stravagante – eppure Stumpf è un autore che, nella letteratura critica italiana e internazionale, viene citato abbastanza raramente, pur essendo fondamentale perché proprio da lui parte tutta la filosofia di Husserl; la nozione stessa di fenomenologia è presente in Stumpf, che con essa si distacca già da Brentano e sviluppa una propria ontologia delle emozioni. La cosa strana, è che si tende a pensare che la teoria delle emozioni di Husserl sia una teoria cognitiva delle emozioni, la quale non è presente in Husserl ma si trova, invece, proprio in Stumpf: ecco, allora, 1 Federica Buongiorno (a cura di) – Intervista a Vincenzo Costa che il confronto con l’altro autore si rivela in questo caso molto utile, perché fa emergere che la teoria delle emozioni di Husserl non può essere ricondotta alla teoria di Stumpf, che è cognitiva, mentre non lo è la teoria husserliana (specialmente in Idee I). A partire da questo riconoscimento, si sarebbe potuta riaprire anche la discussione rispetto a Scheler, che è stato visto come colui che ha “rotto” con la teoria cognitiva delle emozioni: in realtà, già in Idee I non c’è una teoria cognitiva delle emozioni, perché le emozioni hanno la caratteristica di “far vedere” – quindi, rendono possibile un giudizio, invece di basarsi su di esso. Buongiorno: In più di un’occasione pubblica (conferenze e convegni) mi è capitato di sentirti ribadire, anche come cautela ermeneutica per noi giovani studiosi di fenomenologia, l’importanza di ricorrere sistematicamente agli esempi nello studiare e interpretare i testi di Husserl. In effetti, da un punto di vista fenomenologico, l’esempio non appare solo un espediente per spiegare meglio un concetto, ma è esso stesso un momento o un luogo concretamente fenomenologico, che si allinea, forse, al tentativo di “aprire” il testo e farlo parlare all’interprete odierno… Costa: Sì, credo che questo tema si connetta alla domanda precedente. L’oblio dell’esempio rappresenta un rischio molto frequente in fenomenologia, ma anche – direi – in generale nella filosofia. La questione sta anche alla radice: non si tratta solo di un problema degli studiosi di Husserl, ma costituisce un problema in Husserl stesso. Trovare un esempio in un testo di estrema difficoltà concettuale come Idee I, infatti, è difficilissimo; curiosamente, quando invece leggiamo i corsi di Husserl, troviamo che non solo essi sono ricchi di esempi, ma sono addirittura costruiti su esempi. La fenomenologia rappresenta indubbiamente una rottura rispetto ad altre impostazioni filosofiche, che hanno a che fare – prendiamo il caso – con la “chiarificazione concettuale”: i concetti, per Husserl, hanno origine dall’esperienza addirittura quotidiana, e per questo non è possibile studiare la struttura percettiva e tridimensionale di un corpo senza ricorrere a un concreto corpo solido. Ciò appare fondamentale proprio per verificare se la teoria è valida o non è valida in senso fenomenologico. Buongiorno: Come interpreti l’utilizzo intensivo della fenomenologia quale metodo in grado di rappresentare la cornice di riferimento anche per ricerche molto avanzate sul piano scientifico (penso, in particolare, agli studi condotti da Vittorio Gallese e dagli altri ricercatori impegnati nella teoria dei neuroni-specchio)? Costa: Innanzitutto, bisognerebbe definire con precisione cosa s’intende per “metodo fenomenologico”: a partire da Varela e sino a oggi, infatti, sembra che quando si parla di metodo fenomenologico, s’intenda con esso il metodo introspettivo. La fenomenologia è nata proprio come contestazione di questo concetto ed è stravagante che, oggi, la sua metodologia sia identificata con l’introspezione: la nozione stessa di percezione interna di Brentano è già una rottura con l’introspezione. Husserl è sempre stato molto scettico al riguardo, basti pensare al famoso esempio “L’angoscia mi serra la gola” delle Ricerche logiche (l’angoscia non è localizzata nella gola!). Io direi che, come Frege ha posto il senso fuori dalla mente, così Husserl ha posto il mondo fuori dalla mente: egli intende descrivere il modo di darsi del percepito, che non è, per così dire, “dentro la testa” di qualcuno – ma è il modo in cui il percepito si dà a ciascuno. Proprio questo tratto rende possibile il controllo intersoggettivo dei risultati fenomenologici, mentre l’esasperazione dell’accesso in prima persona non lo renderebbe altrettanto possibile. Tutta la discussione, però, è stata impostata e si è sviluppata proprio sulla contrapposizione tra accesso in prima persona e accesso in terza persona, mentre quello che Husserl vuole contestare è esattamente questa contrapposizione e questo modo di impostare la questione. 2 Federica Buongiorno (a cura di) – Intervista a Vincenzo Costa Il vissuto non è “quello che provo io”, ma è il modo di darsi di un fenomeno, a partire dal quale posso ricostruire il tipo di atto intenzionale grazie al quale quell’oggetto si può dare – ad esempio, un oggetto d’amore ha caratteristiche intenzionali peculiari per cui non può esser dato in un atto cognitivo, e questo non perché io “lo veda” nella mia mente ma perché guardo l’oggetto stesso. In quest’ottica, io personalmente privilegio una fenomenologia di tipo noematico, che non esclude certamente l’aspetto noetico ma intende muovere dall’oggetto: un oggetto matematico deve avere una struttura peculiare, a partire dalla quale possiamo risalire non solo al tipo di atto intenzionale, ma anche al tipo di strutture di “compossibilità” (per usare il termine che Husserl utilizza nelle Meditazioni cartesiane), senza le quali un oggetto matematico non può apparire come tale. Questo sarebbe fondamentale, tra l’altro, anche per la costruzione di una pedagogia fenomenologica: perché un bambino non può accedere all’oggetto matematico? Perché, appunto, non gli è possibile accedere al relativo sistema di compossibilità. Buongiorno: Mi vorrei soffermare un attimo sulla questione della percezione e del suo rapporto con la sensazione. In Tempo e racconto Paul Ricoeur ha criticato le pagine che Husserl dedica al rapporto tra sensazione e percezione nelle lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, e in particolare la tesi husserliana (legata alla nota questione, peraltro controversa, del matter-form schema) secondo cui il dato fenomenologico sarebbe il dato sentito e non quello percepito, mentre – osserva Ricoeur – è il percepito a costituire l’autentico importo fenomenologico: mi pare che questa polemica si leghi alla questione della possibile interpretazione “soggettivista” della filosofia husserliana, che tu sostanzialmente contesti… Costa: La questione è assai complessa. C’è, in effetti, una lunghissima tradizione che ha inteso la fenomenologia come una sorta di soggettivismo: ora, se effettivamente il dato fenomenologico fosse il dato sentito, noi saremmo all’interno di un’impostazione non solo soggettivista ma addirittura sensista, che implicherebbe poi una posizione di tipo costruttivista – infatti, è chiaro che se io avessi solo il dato sentito, affinché l’oggetto possa apparire sarebbe necessario che io “vi aggiungessi qualcosa in più” (la ben nota “animazione intenzionale”). Husserl usa davvero questi termini ambigui: non solo “animazione intenzionale”, ma anche Formung (“messa in forma”), “materie inanimate” e così via. Tuttavia, si tratta di modi di esprimersi con i quali Husserl non intendeva assumere posizioni soggettiviste: l’inclusione effettiva dell’oggetto intenzionale avviene a partire dal 1906, e sarebbero quindi le Ricerche logiche ad esprimere un punto di vista ancora “sensista”. Nelle lezioni del 1907 e poi anche del 1909, però, Husserl afferma – e su questo io ho cercato di costruire tutta la mia interpretazione del suo pensiero – che il fenomeno si dice in due modi: il dato sentito è l’oggetto visto da un punto di vista, è l’oggetto che si dà in un modo, ma la correlazione intenzionale riguarda tanto il modo di darsi (il sentito), quanto ciò che si dà (il percepito). Entrambi sono dati schiettamente fenomenologici: qui c’è il limite di Ricoeur, che riduce il dato fenomenologico al solo percepito. La nozione di costituzione fenomenologica, come risulta chiarissimo nell’Idea della fenomenologia, ci consegna entrambi questi aspetti: essa esprime il modo in cui l’oggetto percepito si manifesta attraverso i suoi modi di datità, che non sono “nella coscienza”. Tutta la polemica sorta dopo la pubblicazione di Idee I deriva certamente da un fraintendimento dovuto anche alla terminologia impiegata da Husserl – una terminologia che, nella sostanza, egli non supererà in seguito e che d’altronde era già presente nei corsi del 1906 e del 1909. Anzi, direi che già nella lettera a Marty del 1901 Husserl sembra perfettamente cosciente della problematica – si tratta di una questione davvero molto articolata. Buongiorno: Al centro del dibattito sul presunto soggettivismo di Husserl, sta naturalmente anche la nozione di Sinngebung, che hai appena richiamato. In effetti, molti commentatori hanno assai insistito sul versante della Gebung, nella preoccupazione di distinguerla dalla nozione classica di “costituzione” propria dell’idealismo 3 Federica Buongiorno (a cura di) – Intervista a Vincenzo Costa kantiano, il che ha relegato a lungo la questione del Sinn (la questione “oggettiva”) in secondo piano: come proporresti di ricalibrare questa nozione? Costa: Anche rispetto alla nozione di “conferimento di senso”, dobbiamo intenderci. È certo che non è la soggettività a creare il senso, ma senza una soggettività che lo attualizzi, non si manifesterebbe alcun senso. Dobbiamo sempre tornare alla domanda che si poneva Husserl; quello che egli si chiede è, semplicemente: perché comprendiamo le cose? Le comprendiamo perché, appunto, “conferiamo” loro un senso, cioè organizziamo le singole sensazioni attorno a un senso. Questa non vuole essere, però, una costruzione soggettivistica. Il senso emerge all’interno dei decorsi fenomenici, e se c’è un decorso, ciò che decorre si lega e, legandosi, dà origine a dei legami di attese: la coscienza è proprio quella capacità sintetica di trattenere ciò che è decorso e di anticipare l’atteso. Questa capacità sintetica è ciò che permette al senso di apparire alla coscienza. Una coscienza vegetale, quindi, avrebbe sì delle sensazioni, ma non essendo intenzionale non percepirebbe un oggetto (il che, tra l’altro, aprirebbe grandi questioni rispetto, ad esempio, all’intelligenza artificiale). Buongiorno: Oltre all’introspezione, un altro grande tema oggetto di interpretazioni controverse in Husserl, è quello di “empatia”: recentemente, in una conferenza pubblica tenuta presso il centro sociale ESC di Roma, anche Giorgio Agamben ha citato le ricerche sull’intersoggettività di Husserl come un tentativo sostanzialmente fallito, a causa della modalità impiegata – l’empatia, appunto… Costa: Io penso che non si possa chiedere a Husserl (al filosofo) di dirci quello che non gli interessa e che non vuole spiegare. Husserl intende semplicemente dire, con la nozione di “corpo proprio”, che c’è una differenza essenziale tra il caso in cui io vedo la mano di un altro che si alza, e il caso in cui vedo la mia mano che si alza. Posso vedere la mia mano che si alza, infatti, anche se chiudo gli occhi: so che la mia mano si alza perché questo mi è segnalato dai miei movimenti cinestetici interni. Invece, per sapere che un altro sta alzando un braccio, io devo vederlo: non ho contezza di movimenti cinestetici esterni. Il “corpo proprio” è appunto quello di cui io ho percezioni cinestetiche interne, e questa è un’esperienza originaria senza la quale nessun “io” si potrebbe costituire, perché mancherebbero le condizioni di apertura al mondo. Poi, è chiaro che il mio corpo è sempre tale che “risuona” in quello di altri: i miei sensi vengono colpiti dalla carne di un altro, il corpo è un corpo sessuato e senza un altro non si costituirebbe come sessuato. In verità, di questi temi Husserl tratta parlando della pulsione: scopro la pulsione del mio corpo perché è suscitata dalla pulsione di un altro. Peraltro, questa è una struttura dell’atto intenzionale in generale: in tutti i miei lavori ho cercato di mostrare che l’atto intenzionale è una risposta al darsi dell’essere, che la relazione con l’altro è anzitutto una relazione inter-corporea, nella quale il mio corpo risuona al corpo dell’altro. La questione specifica dell’empatia, poi, è estremamente complessa: già Lipps sosteneva che il termine “empatia” è ambiguo e confuso, anche Husserl ne è convinto e usa il termine non certo per intendere che “io provo ciò che prova un altro”. Su questo non c’è dubbio: l’empatia, insomma, non è accostabile ai neuroni specchio. Anche se potessi provare i sentimenti che prova un altro, io non “sentirei” le stesse cose che prova l’altro già per il semplice fatto che i suoi sentimenti sarebbero innestati nel mio flusso individuale e personale di coscienza. Pensiamo alla differenza di genere: cosa potrebbe dire che l’uomo “empatizza” con la donna nel caso della maternità? Alla fine di Filosofia prima, Husserl definisce la nozione di empatia come “interpretazione originaria”: ciò significa semplicemente che io capisco la situazione in cui l’altro si trova nel mondo. Capisco, cioè, che un certo stato di cose vissuto da un altro implica, ad esempio, il venir meno di un orizzonte di attese, di un progetto di vita, e così via. Ovviamente, 4 Federica Buongiorno (a cura di) – Intervista a Vincenzo Costa usare il termine “empatia” per indicare questo è molto rischioso: ritengo, anzi, che sarebbe meglio liberarsene completamente, proprio perché troppo ambiguo e psicologista. Infine, bisogna ricordare che per Husserl la coscienza dell’altro è impenetrabile, per il fatto che io non ho accesso al flusso di coscienza dell’altro. Se avessi questo accesso, l’altro non sarebbe più tale. Nella relazione intersoggettiva, infatti, l’altro si manifesta emblematicamente nella forma di un segreto, egli appare come “uno che può mentire”: la fenomenologia dell’intersoggettività è “dell’intersoggettività” (e non della “comunità”) proprio perché siamo esseri separati, e solo gli esseri separati possono incontrarsi. Buongiorno: Già durante gli anni di dottorato, che hai svolto tra Milano e Lovanio, la tua ricerca su Husserl è stata “integrata” dallo studio della filosofia di Jacques Derrida, al quale hai dedicato diversi saggi, traducendo anche la seconda parte di Mémoire. Pour Paul de Man (apparsa nel 1995) e Il problema della genesi nella fenomenologia husserliana. Il frutto più maturo di questo duplice interesse è il tuo libro La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida (1996). Come ha agito, per la tua originale interpretazione della fenomenologia, lo studio del pensiero di Derrida e come ha cambiato l’originaria lettura del testo husserliano? Costa: L’ha cambiata moltissimo, per molte ragioni. Innanzi tutto, direi che Derrida esplicita genialmente delle possibilità del testo husserliano che erano rimaste implicite – in primo luogo la nozione di Rückfrage. Questa nozione permette di costruire un concetto di temporalità e di storia (collettiva e individuale) che rompe con la teleologia (e quindi con tutta la tradizione della filosofia occidentale, a partire da Aristotele), perché la sua idea fondamentale è che io ricostruisco il senso del passato, dell’origine a partire da un’attesa, dunque a partire da un futuro. Husserl stesso parla sì di telos, ma di telos infinito: mette in collisione, così, due concetti tradizionalmente opposti. Ad esempio, in Hegel l’idea di teleologia si deve affermare contro l’indefinito di Fichte; Lévinas deve affermare l’idea di infinito contro la totalità, e così via. Quello che Derrida realizza, scoprendo così la grandezza dello Husserl della Crisi delle scienze europee e dell’Origine della geometria, è una reinvenzione dell’origine – una reinvenzione alla quale Derrida è rimasto fedele per tutta la vita. Questa reinvenzione afferma che, quando ricostruisco il passato, io sono in grado di capire l’autore passato molto meglio di lui, perché posso esplicitare le possibilità che in lui erano contenute ma che egli stesso non poteva attualizzare, in quanto erano destinate a me. Questo aprirebbe un vasto campo in cui, nell’epoca dell’empirismo assoluto, potremmo riconsiderare la realtà storica e politica in un modo che, senza ricadere nel determinismo e nella teleologia classica, ci consenta di “rinarrarci” la nostra storia. Diventerebbe possibile, cioè, riscoprire il “senso” che è destinato a noi. Altro aspetto che andrebbe sviluppato a partire da Derrida, è la nozione di differenza, perché essa ontologizza il trascendentale: il differire, la struttura temporale del differire, non è semplicemente il modo in cui la coscienza organizza ciò che appare, ma è la legge generale dell’essere, a qualsiasi livello. Perciò, niente può essere né apparire diversamente: tutto ciò che appare, appare iscrivendosi in un campo di differenze. Il lavoro che ci sarebbe da fare in questa direzione sarebbe enorme, e dovrebbe coinvolgere più studiosi, perché avrebbe grandissime implicazioni al livello epistemologico e interdisciplinare: si tratterebbe, infatti, di un modo non fondazionale di pensare l’unità delle scienze. Da un punto di vista fenomenologico, difatti, non si può unire ciò che non è unito all’origine: questa è un’ulteriore dimostrazione della necessità della Rückfrage, del passo indietro di Derrida. Anche quando Derrida dice che “non c’è fuori testo”, intende dire che nulla esiste se non iscrivendosi in una catena di differenze. 5 Federica Buongiorno (a cura di) – Intervista a Vincenzo Costa D: Hai tradotto in italiano e/o curato l’edizione italiana di molti testi di Husserl (le Lezioni sulla sintesi passiva, le Idee, La cosa e lo spazio, la Filosofia prima, solo per citare i maggiori): la domanda è dunque d’obbligo. Quale opera consideri come la più importante per la comprensione della fenomenologia husserliana, oggi? R: A mio avviso, per la mia interpretazione e formazione, il testo fondamentale sono le Lezioni sulla sintesi passiva – il primo testo di Husserl che ho tradotto. Molte opere di Husserl sono concepite come introduzioni alla fenomenologia, mentre lì la fenomenologa è all’opera e ci sono parti di analisi fenomenologica fondamentali: sulla percezione, sulla memoria, l’inconscio, l’intenzionalità, la genesi e la struttura dello spazio. È anche, senza dubbio, il testo più difficile di Husserl, ma penetrarlo significa davvero riuscire a comprendere la fenomenologia, il suo senso filosofico – e di questo sono grato al mio maestro Giovanni Piana, che prediligeva nel suo insegnamento proprio quest’opera di Husserl. -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Il copyright degli articoli è libero. Chiunque può riprodurli. 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