GENTES
Rivista di Scienze Umane e Sociali
Journal of Humanities and Social Sciences
anno VI, numero 6 - dicembre 2019
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GENTES
Rivista di Scienze Umane e Sociali
Journal of Humanities and Social Sciences
anno VI, numero 6 - dicembre 2019 |
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Direttore Editoriale
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Registrazione n°16/2014 del 10 ottobre 2014
presso il Tribunale di Perugia
Direttore Responsabile
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Periodicità: annuale (con edizioni speciali)
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Anno VI, numero 6 - dicembre 2019
Perugia, Italia
Online: Settembre 2020
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Riviste Scientifiche dell’Area10 |
Tutti gli articoli sono sottoposti a double peer review
Il presente numero della rivista, relativo all’anno 2019 (n.6), esce nel
mese di settembre del 2020. Il ritardo di qualche mese è dovuto al cambio
di Direzione e al prolungarsi dei tempi di lavorazione di alcuni
contributi, aggravato dalla emergenza sanitaria.
In copertina
“Il Tuffatore” di Natino Chirico (2019)
30x30 acrilico e tecnica mista su tela
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INDICE
Visioni interdisciplinari
Carlo A. Augieri, Shahrazàd in dialogo con Socrate:
continuità narrativa ed oltrepassamento ironico delle identità confinanti ........................................................p. 9
Antonio Catolfi, A.I. Intelligenza artificiale, la storia
di Stanley Kubrick e il film di Steven Spielberg. Confini tra l’uomo e la macchina .......................................p. 17
Vinicio Corrent, Versi antichi su musiche moderne:
«Tre sonetti del Petrarca» di Ildebrando Pizzetti.........
.................................................................................................p. 25
Toni Marino, Mimesis, attendibilità narrativa e reazione morale del lettore di fiction.............................p. 49
Sara M. Morganti, Lewis Carroll e Carlo Gajani attraverso la lente di Gianni Celati: la poetica «del frammento» e quella «del niente di speciale»................p. 71
Luca Padalino, Lo scrittore «estraneo» tra extrasistematicità e capitalizzazione simbolica: il caso
dell’izgoj Enrico Pea........................................................p. 84
Mercedes Lopez Suarez, La fruición de un cancionero neopetrarquista.......................................................p. 109
Francesco Patrucco, Elementi stendhaliani nella poesia di Maurizio Cucchi...............................................p. 145
Fabrizio Scrivano, Fine del personaggio, inizio del
viaggio. Riflessioni sui conflitti tra personaggio e lettore......................................................................................p. 155
Laboratorio della comunicazione linguistica
Andrea Gallo, Hồn e vía: corrispondenze e (dis)continuità tra il nôm e il vietnamita moderno........p. 168
Letizia Lombezzi, Gli auspici-preghiera ed il lessico
basato sulla menzione di Allāh nell’arabo quotidiano:
una sfida alla competenza traduttiva...................p. 177
Strategie e pratiche
delle culture contemporanee
Michele Dantini, Parole dipinte o scolpite. Titolo, testo e “figura” nell’arte contemporanea.................p. 193
Rosanna Masiola, Sabrina Cittadini, Il fenomeno Maria Monaci Gallenga e le dinamiche trans-culturali
della moda italiana.......................................................p. 206
Luca Palermo, Dall’estetica relazionale al New Institutionalism: l’arte come gesto condiviso.............p. 233
Aberto Simonetti, Il gesto interdisciplinare tra estetica, filosofia e semiotica............................................p. 249
|Recensioni |comunicazioni|
interviste|
Dove va il romanzo storico? Recensione a La lotta e
il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo di
Emanuela Piga Bruni,
di Giulia Falistocco, .....................................................p. 263
Rajendra Chetty, At the Edge: The Writing of Ronnie
Govender, New York, Peter Lang Publishing, 30 ottobre 2017
di Rosanna Masiola.......................................................p. 267
“Insomma la vita, semplicemente”. Il monologo ecosofico di Michel Maffesoli
di Alessandro Scarsella...............................................p. 271
In uscita
Zaganelli Giovanna (a cura di), Mappa semantica
della lettura e della scrittura. Strumenti interdisciplinari, Perugia, Perugia Stranieri University
di Luca Guerra, Chiara Gaiardoni...........................p. 279
Visioni
interdisciplinari
Gentes, anno VI, numero 6 - dicembre 2019
Visioni interdisciplinari
Lo scrittore «estraneo» tra extrasistematicità e
capitalizzazione simbolica: il caso dell’izgoj
Enrico Pea
Luca Padalino
Università per Stranieri di Perugia
Abstract
Il contributo intende ripercorrere l’evoluzione che l’immagine intellettuale di Enrico Pea
attraversa tra il 1914 e il 1958, anno della scomparsa, traducendola in quanto Jurij M.
Lotman e Boris A. Uspenskij chiamano izgoj, «degradato», vale a dire soggetto al tempo
estraneo e interno al sistema socio-culturale d’appartenenza. Attraverso tale prospettiva
è infatti possibile individuare i modi tramite cui la società intellettuale converte l’anomalia rappresentata dall’opera e dalla formazione autodidatta di Pea, fissandola nei termini
di «scrittura d’eccezione»: eccentrica e irregolare, oggetto di un’assimilazione apparente
per una differenza che permane insoluta. Le ragioni di tale cristallizzazione saranno rintracciate — attraverso la teoria dei campi di Pierre Bourdieu — nel proposito di convertire detta estraneità culturale in capitale simbolico utile all’autodescrizione del campo
letterario presso cui viene accolto, specie per quanto concerne l’avanguardia fiorentina
della «Voce» e la scena ermetica degli anni Trenta. L’argomentazione troverà respiro in
testimonianze epistolari e dichiarazioni dirette dell’autore e dei critici a lui più prossimi,
nell’ulteriore tentativo di delineare per tramite del caso Pea le dinamiche di autonomizzazione e consolidamento del campo letterario italiano per il periodo preso in esame, nonché dell’ordine discorsivo modellato per descriverli.
Parole chiave: Enrico Pea, izgoj, campo letterario, sistema culturale, capitale simbolico,
Pierre Bourdieu, Jurij Lotman, Boris Uspenskij
The aim of this article is to retrace the evolution of Enrico Pea’s intellectual appearence between 1914 and 1958, using Lotman and Uspenskij concept of Izgoj, «degraded»,
meaning a subject both outside and inside the social system of relevance. Through this
perspective it will be possibile to identify the way by which the intellectual society mediate the literary and educational anomaly of the self-taught Enrico Pea, fixing it such as
«scrittura d’eccezione»: eccentric, unclassifiable, object of obvious assimilation, unsolved
difference. Sources of this setting will be traced — using Bourdieu’s field theory — in the
aim to convert this cultural strangeness in symbolic capital useful to the literary field’s self-description wherein he’s received, especially Florence avant-guarde and the hermeticism of 1930s. The argument will find support in correspondence and author’s and literary
critics’ explanations, in the additional attempt to draw, through the Pea’s case, the italian
literary field’s autonomization and strenghtening during the considered period, as well as
the development of the language fit to describe it
Keywords: Enrico Pea, izgoj, literary field, cultural system, symbolic capital, Pierre Bourdieu, Jurij Lotman, Boris Uspenskij
La biografia è una cosa molto delicata, molto profonda e anche, io penso,
difficilmente sondabile perfino dalla persona stessa.
Mario Luzi
1. Introduzione
L’apprendistato letterario e il debito con la tradizione del «provinciale» ed «eccentrico» Enrico Pea (1881-1958) sono stati fin da
principio temi determinanti la critica a egli dedicatasi. La difficoltà
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di scovare documentazione attendibile a riguardo1, nonché riferimenti più o meno esposti nelle sue opere, corse così di pari passo
a un sempre rinnovato tentativo di «scioglierne le resistenze nel rivolo della tradizione» (Pancrazi 1946, p. 136), intento questo che
dovette rassegnarsi a un’apparente insolvibilità rispetto al Canone
dello scrittore apuano. A conseguirne fu un generale impaccio esegetico, presso cui è possibile rintracciare l’origine di alcuni inveterati malapropismi critici. Persiste ancora, ad esempio, un’incognita
intorno lo statuto intellettuale di Pea, la natura del raccordo tra l’opera di «un bastardo del sapere» (Pea 1947, p. 145) e la tradizione
letteraria, nonché la società degli scrittori coeva: una relazione che
sembrò ai più, e sembra tutt’ora, difficilmente distinguibile, specie
attraverso una mera indagine critica delle fonti e dei debiti intertestuali.
«Scrittore d’eccezione»2 dunque, i cui scritti si distinguono per
un «straordinaria povertà di succhi letterari» (Del Beccaro 1954,
p. 46) e la cui voce «priva di unzione libresca si va forgiando attraverso un rapporto diretto con la terra viva» (Paoli 1973 p. 22).
Simili considerazioni, che costituirono per anni i fondamenti di una
ricezione limitante di Pea, si reggono poi in parte su certe rumorose
esternazioni d’autore, in età avanzata quanto mai generoso di dati
autobiografici in tal senso. Si concreta così un gioco di rifrazione tra
critica, opera e autore che colma il vuoto lasciato dalla prima fase
della sua carriera, contraddistinta da una salda reticenza intorno a
ogni questione di poetica.
Un vaglio ravvicinato di alcune tra le più citate dichiarazioni del
tardo Pea intorno la sua formazione letteraria e le abitudini di lettura e scrittura può fornire un valido punto di partenza per la nostra riflessione. Convochiamo dunque gli articoli Come leggo? 3 del
1. Tentativi in tal senso sono alla base di un nutrito ramo della critica alla sua opera. Ci limitiamo qui ad alcuni riferimenti: De Michelis E., Pea e il romanzo, in Narratori e Anti-Narratori, Firenze, La Nuova Italia, 1952, pp. 1-30; Travi E., Umanità di Enrico Pea, Milano, Vita
e Pensiero, 1965 e più recentemente Lorenzetti E., Preistoria di Enrico Pea, in «Rivista di
Archeologia, Storia e Costume», Lucca, a. XXXI, nn. 2-4, pp. 23-58.
2. Per quanto concerne le origini di questa formula, tra le più fortunate riguardo Pea, rimandiamo a Pietro Pancrazi, che la usa per la prima volta in un articolo apparso su «Il
Secolo» il 6 giugno 1922, (poi incluso con il titolo di Enrico Pea scrittore d’eccezione in
Scrittori d’oggi, Serie Seconda, Bari, Laterza, 1946, quindi in Ragguagli di Parnaso. Dal
Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di Cesare Galimberti, Milano – Napoli, Ricciardi, 1956).
3. Pea E., Come leggo?, In «Scuola e cultura – annali della Istruzione Media», anno X, quaderno II, marzo-aprile 1934, XII, riedito poi con il titolo di Il mio modo di leggere, in «Rassegna lucchese», n. 15, a. 1955, pp. 1-2, infine in Elzeviri lucchesi (1948-1953), a cura di
Enrico Lorenzetti, Lucca, Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti, 1998.
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1934, Bancarelle e muriccioli, del 19354, e il racconto Nikokavura5,
del 1940 (poi nella raccolta La figlioccia e altre donne, apparsa nel
1953 a cura di Pietro Pancrazi, da cui citiamo):
Al bazar arabo dove io andavo tutti i venerdì […] trovavo
accatastati i libri per terra […] ammucchiati proprio alla rinfusa
[…] bisognava tirar fuori dal mucchio a caso (Pea 1935, pp. 42).
Io profittavo spesso, come faccio anche ora, di un’attesa tra una
faccenda e l’altra per piantare gli occhi su qualche libro che portavo
sempre con me. Ѐ stato in questo modo che mi sono aggiornato nelle
lettere e, quel po’ che so, è rubato nelle anticamere delle banche e degli
uffici dei mercanti, in piazza o al caffè, tra un traffico e l’altro. Anche i
miei scritti, sono nati sostando così o per la strada (Pea 1953, p. 623).
Leggo e scrivo, al caffè di giorno e a letto di notte, né mi sarebbe possibile
trovare gusto e ispirazione al tavolo, in uno studio bene ordinato,
magari con i ritratti dei maggiori alle pareti, coi fiori nel vasetto
romantico e coi libri belli allineati nello scaffale (Pea 1934, pp. 190-191).
Si palesa subito una ambiguità d’approccio intorno alle circostanze e ai moventi dell’avvio alla scrittura da parte dell’autore. Due
motivi apparentemente inconciliabili, infatti, convivono al tempo
in questi frammenti: all’icastica insofferenza per un iter formativo
regolare e ordinato si accompagna il rammarico per una condizione
disagevole, da cui è possibile emanciparsi solo attraverso sessioni
di lettura-scrittura precarie, improvvisate. Un percorso dissestato,
costretto tra ben altre attività lavorative, ma al tempo avverso al
tradizionale ritratto dello scrittore di professione, tacciato invero
di frivolezza. Funzionale ad ambo i poli della descrizione l’uso d’immagini connesse ad attività professionali — banchieri e mercanti
tra tutti —, distanti dal dominio intellettuale, il cui esercizio costante Pea impone in filigrana al dispiegarsi della sua vocazione. Come
per il San Paolo di Weber, per cui «ognuno può rimanere nel ceto
e nell’occupazione mondana in cui lo ha trovato la “chiamata” del
Signore e lavorare come per l’addietro» (Weber 1991, p. 71) Pea
concede all’esercizio delle lettere un tempo rubato alle mansioni
quotidiane, in una condizione di esibita clandestinità.
Questa contraddizione tra empito alla scrittura e «gusto della
profanazione delle forme consacrate dalla tradizione» (Travi 1956,
p. 7), tra vocazione e norma, sta a fondamento del profilo d’autore
elusivo che Pea e la sua critica hanno concorso a delineare. Si trat4. Bancarelle e muriccioli, in «La Gazzetta del Popolo», 20 febbraio 1936, poi in Il trenino
dei sassi, Firenze, Vallecchi Editore,1940.
5. Pea E., Nikokavura, in «Incontro, mensile letterario, politico culturale», Firenze, n° I, 10
febbraio 1940, poi in Pea E., La figlioccia e altre donne, a cura di Pietro Pancrazi, Firenze,
Sansoni, 1953.
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ta di un’immagine d’artista al tempo integrato ed estraneo al sistema culturale6 d’appartenenza, la cui eccentricità comporta una sua
emarginazione costante. Jurij Lotman e Boris Uspenskij definiscono tale posizione izgoj, «estraneo», colui che occupa «una posizione
sociale nello stesso tempo interna ed esterna rispetto alla struttura della società data» (Lotman 1985, p. 165). L’indeterminatezza
che ne consegue garantisce un’ampia capacità di rimodulazione ed
uso della valenza simbolica che l’estraneo via via può assumere. A
questa riformulazione è incline, come vedremo, il sistema letterario
presso il quale si dispiega la carriera di Enrico Pea tra il 1914 e il
1958. Una società di intellettuali che sarà qui intesa, a partire dalla
linea tracciata da Pierre Bourdieu, come campo sociale specifico,
vale a dire:
come una rete o una configurazione di relazioni oggettive tra
posizioni. Posizioni definite oggettivamente nella loro esistenza e nei
condizionamenti che impongono a chi le occupa, agenti o istituzioni,
dalla loro situazione attuale e potenziale all’interno della struttura
distributiva delle diverse specie di potere (o di capitale) il cui
possesso governa l’accesso a profitti specifici in gioco nel campo, e
contemporaneamente dalle posizioni oggettive che hanno con altre
posizioni (dominio, subordinazione, omologia) (Bourdieu 1992, p. 66).
Secondo tale prospettiva teorica, la figura dell’estraneo rappresenta una posizione come un’altra del campo letterario e come tutte, dunque, partecipe dei suoi condizionamenti interni e del suo
proprio dinamismo diacronico. Il nostro intervento si articolerà di
conseguenza, ruotando su due perni fondamentali: da una parte l’analisi del discorso critico intorno al profilo intellettuale di Pea, inteso come espressione del rapporto ambivalente che il sistema culturale e i suoi poli autodescrittivi — vale a dire, soprattutto, le riviste
letterarie e la critica — intrattengono nei confronti dell’estraneo,
dall’altra considerare come tale discorso garantisca la possibilità di
adattare e investire il capitale simbolico7 rappresentato dall’izgoj
6. Per sistema culturale intendiamo, con Jurij Michajlovič Lotman, un sistema semiotico
dinamico uniformato da uno sforzo di «metadescrizione strutturale» (Lotman 1979, p.
11) attuato per mezzo di criteri selezionati nell’insieme informativo pregresso. A conseguirne è un fondamentale «rapporto di binarietà» (Ivi, p. 18) inscritto nel sistema culturale, composto di ciò che è sistematico – interno, in ragione del suo essere affine alle regole
scelte per l’autodescrizione – e ciò che vi è escluso, extrasistematico, vale a dirsi «l’insieme
dei segni privi di una regolarità percepibile» (Ivi, p. 12).
7. Intendiamo qui per capitale simbolico, sulla scorta di Bourdieu p., un «capitale di riconoscimento» sociale, «una forma dell’essere percepito che implica, da parte di coloro che
percepiscono, un riconoscimento di colui che è percepito» (Bourdieu P., Sociologie generale. Volume 1. Cours au Collège de France (1981-1983), Paris, Seuil, 2016, trad. italiana a cura
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Enrico Pea nelle varie fasi del processo di formazione del moderno
campo letterario italiano, a cominciare dal momento in cui il giovanissimo Pea, sin dal 1914, si trova a interagirvi ai fini del conseguimento di una auspicata legittimità e riconoscimento personali.
2. L’età dell’eversione
Gli esordi a stampa di Enrico Pea sono l’esito dell’accostamento
progressivo dell’autore — fino al 1908 emigrato ad Alessandria
d’Egitto — a specifici gruppi intellettuali, impresa che molto deve
all’impegno di Giuseppe Ungaretti8, mediatore della sua opera tra
Francia — Lo Spaventacchio e Montignoso saranno letti, tra gli altri,
da Charles Peguy e Francis Jammes9— e Italia, soprattutto con gli
ambienti prossimi alla «Voce»10. Tale processo trova coronamento
nel 1914, quando appare per i Quaderni della rivista Lo Spaventacchio, prima opera a godere così di un riscontro di portata nazionale.
I rapporti con la «Voce», che si concentrano in una serie circoscritta di scambi epistolari tra Giovanni Papini, Giuseppe Ungaretti e lo
stesso Pea, gli garantiscono una via d’accesso all’ambiente dell’«a-
di Gianvito Brindisi e Gabriella Paolucci, La logica della ricerca sociale. Sociologia generale
Vol. 1, Milano, Mimesis, 2019, da cui citiamo, p. 129). Il dinamismo di un dato sistema culturale – e il campo letterario compreso tra gli anni Dieci e Quaranta del secolo scorso può
dirsi certamente tale - può così leggersi nei termini di «lotta simbolica» per detto capitale,
vale a dire acquisizione da parte degli attori coinvolti della possibilità di imporre una specifica percezione del campo stesso, di quanto vi è incluso e secondo quali parametri. Questo discrimine è il carattere che tra tutti accomuna di più il modello culturale lotmaniano e
la teoria dei campi di Pierre Bourdieu, dato che la lotta per la supremazia interna al campo
sociale – di cui quello letterario è sottocampo – può leggersi come l’interesse alla conquista della facoltà di auto-descrivere il sistema culturale di pertinenza mediante il delineamento di precise partizioni sociali, che instaurano così un netto bipolarismo tra elemento
sistematico ed extrasistematico. Un privilegio che Bourdieu stesso definisce «principio di
visione e di divisione»: «dal momento in cui creo una classe, creo contemporaneamente
una classe complementare […] Questa lotta simbolica è una lotta per l’imposizione della
visione legittima delle divisioni, del punto di vista giusto sul mondo sociale, della giusta
prospettiva sul mondo sociale» (Bourdieu 2019, p. 130).
8. Cfr. a riguardo Ungaretti G., Lettere a Enrico Pea, a cura di Jole Soldateschi, con una nota
introduttiva di Giorgio Luti, Quaderni della Fondazione Primo Conti – Fiesole, Milano, Libri Scheiwiller, 1983.
9. Sulla circolazione francese delle prime opere di Enrico Pea fondamentali testimonianze
sono in: Livi F., Ungaretti, Pea e altri: lettere agli amici “egiziani”: carteggi inediti con Jean-Léon e Henri Thuile, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1988 e Id. Alle origini di Enrico Pea: La cultura e la critica francese, in «Galleria. Rassegna quadrimestrale di cultura»,
a. XXXVII, n. I, 1987, pp. 34-68.
10. A tal proposito citiamo la diretta testimonianza del poeta: «Gli feci per entusiasmo
il segretario, misi le virgole dove mancavano, e poco importava, a lui, autodidatta, che ci
fossero, e alla poesia non importa proprio nulla. Fui io a farlo accogliere nei Quaderni della
Voce, essendo sino da quei tempi legato a Prezzolini e a Jahier che se ne occupavano» (Ungaretti G., Saluto a Pea, in «La Rassegna Lucchese», anno 1951, n. 7, p. 1.).
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vanguardia fiorentina» (Adamson, 1993), mediante cui il suo lavoro
viene a tradursi dalla provincia versiliese a uno dei maggiori centri
culturali dell’Italia giolittiana. I termini di questo ingresso in società sono dati dalla descrizione che Ungaretti fa dell’opera di Pea,
incentrata sul suo valore prometeico e sull’animo eccezionale del
suo autore, che il poeta vorrebbe «fosse evidente a tutti»11. Impegno felice, se già Papini, in una lettera a Pea del 3 settembre 1917,
descrive così le sue impressioni di lettura all’autore, circa tre anni
dopo la pubblicazione dello Spaventacchio:
La tua sensitiva e sensuale robustezza di scrittore parlato mi
rimetterebbe la bocca da tante letture solitarie, spesso inutilmente
agitanti. Il nostro Ungaretti mi ha parlato del tuo romanzo. Non
impegnarti con nessuno ché nel prossimo inverno ci sarà la possibilità
quasi certa di farne una bella edizione a Firenze (Pea 2004, p. 275).
Torneremo dopo sulle analogie tra questa descrizione e quella che
Pea stesso si dà in Come leggo?, Bancarelle e muriccioli e Nikokavura. Al momento a interessarci è come la descrizione ungarettiana di
Pea, fondata sulla naturalità istintiva del suo temperamento e l’irriducibilità dello stile alle più note categorie letterarie dell’epoca12,
delinei una figura d’autore apprezzata e supportata dalla «Voce».
Così presentato Pea è infatti un profilo congruo a quanto Papini e
Prezzolini promuovono da tempo come la via più adeguata all’esercizio letterario, che vede nello scrittore autodidatta un modello fin
dagli anni di «Leonardo». Ne La coltura italiana, testo apparso nel
1906, Papini e Prezzolini si esprimevano così a riguardo:
Questa classe di cercatori e di lettori disinteressati e indipendenti
è molto scarsa fra noi. I pochi autodidatti che si formano qua e là,
malgrado tutte le condizioni avverse, sono guardati con pietà dagli
11. Citiamo da una lettera di Ungaretti a Pea del marzo 1913, testimonianza esemplare
dell’impegno che il poeta investe nel tradurre l’opera dell’amico nei termini di un’ambivalente ed elusiva eccezionalità: «Quel che m’interessa, e che voglio dirti, per confermarti
la mia ammirazione a tuo riguardo, è che tu mi hai aiutato a comprendere in un modo
personale la vita. Tu non sei né un cristiano né un cattolico, tu sei un “diogenico”. In arte
la tua è la prima cosa che si fa, credo, in questo senso, e vorrei fosse evidente a tutti questo valore, questa originalità» (Caro Pea. Lettere e cartoline di corrispondenti ad Enrico
Pea 1909-1958, introduzione di Massimo Marsili, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 2004,
p. 324. Traiamo da questo volume, se non dove diversamente indicato, tutti i successivi
rimandi ai carteggi intrattenuti da Enrico Pea con vari interlocutori necessari alla nostra
trattazione).
12. Cfr. lettera di Giuseppe Ungaretti a Enrico Pea del marzo 1913: «Tu hai le qualità essenziali del poeta. Tu sei un giorgico, ma non un giorgico al modo sentimentaleunuco pascoliano né un giorgico di manierismo pascoliano e sensuale alla D’Annunzio, ma un giorgico
veramente aderente alla sostanza della propria espressione» (Pea 2004, p. 325).
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ignoranti perché non hanno una posizione ufficiale e un salario fisso
e sono spregiati dai dotti regolarizzati e bollati perché non hanno
né titoli né una specialità, e anche perché possono permettersi una
libertà di linguaggio che a loro, stretti fra le mafie e le bizze del
mondo ufficiale, non è concessa (Papini-Prezzolini 1906, pp. 6-7).
Per mezzo di queste dichiarazioni i due si impegnano a delineare una condotta di culto, il «vagabondaggio degli autodidatti»
(Papini-Prezzolini 1906, p. 163), cui è possibile una sperimentazione formale e stilistica nuova all’antico tempio della tradizione.
Eterogeneità d’interessi, orizzontalità di letture libera da «inutile
verticalismo accademico», divengono tratti propri del migliore
scrittore emergente. Operazioni simili sono una testimonianza del
consolidarsi nell’Italia dell’epoca di un campo letterario antitetico
all’ordine accademico-editoriale costituito, che si definisce attraverso caratteri propri in strutturale antitesi ai valori che regolano
il funzionamento di quest’ultimo13. Una nutrita schiera di giovani
intellettuali, di formazione spesso autodidatta, si affaccia numerosa
sul nuovo secolo, e trova inevitabili difficoltà d’occupazione e riconoscimento presso il campo letterario, roccaforte di istituzioni
elitarie come accademie e università. Ѐ proprio nella frizione con
tali gruppi consolidati che la schiera dei «nuovi entranti che non riescono a entrare» (Baldini 2017, p. 21) rintraccia la propria ragion
d’essere, altrimenti negata. Lo spazio sociale individuato da questi
profili — cui appartengono anche Papini e Prezzolini - può connotarsi così nei termini dati da Lotman e Uspenskij, vale a dire:
La condizione di esclusione da un’organizzazione dotata di autorità.
Questa organizzazione può avere il carattere di una gerarchia sociale
o di una struttura spaziale (la parte abitata nello spazio culturalmente
assimilato dal collettivo sociale). L’individuo che si trova fuori, è escluso
dalle strutture sociali. […] Questa condizione è legata a due momenti.
Uno è l’uscita: il passaggio alla condizione di izgoj (degradato) è
determinato dalla rottura col luogo in cui si vive, illuminato dalle
tradizioni e saldamente inserito nello spazio culturale della società
data. L’altro è lo stabilirsi nel non spazio […] (Lotman 1984, p. 172).
La rottura con la tradizione, «il luogo in cui si vive», è dunque il
primo passo per lo stabilirsi del non-spazio, che, se riesce a raccogliere presso di sé una collettività che vi si riconosca, assume
connotati corporativi, una vera e propria alleanza di «degradati»
13. In questo passaggio della nostra argomentazione siamo debitori di Baldini A., L’autonomia del campo letterario italiano nel primo Novecento: i dintorni della «Voce», in Lettere
aperte, 2017, vol. 3, pp. 13-27, cui rimandiamo per ulteriori riferimenti.
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che necessitano di tratti oppositivi al campo dominante cui riconoscersi. «La Voce» diviene uno dei centri propulsori di questa necessaria autodescrizione antisistematica, sobbarcandosi il lavoro di
individuazione dei bersagli polemici nei confronti del quale compattarsi14. Tra questi grande rilievo è dato proprio alla formazione
scolastica ordinata e rigorosa, tratto d’appartenenza comune alle
élite culturali italiane. Ѐ in particolare Giovanni Papini a prodigarsi
su tale linea: la formazione ordinaria «abitua gli uomini a ritenere
che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati» (Papini
1919, p. 2), «non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo
noviziato autodidattico» (Ibidem), percorso privilegiato in realtà,
dato se «c’è ancora un po’ d’intelligenza nel mondo bisogna cercarla
fra gli autodidatti o fra gli analfabeti» (Ivi, p. 3).
A partire da tali posizioni la «Voce» si prodiga in un operato di
concreta mediazione tra figure ad esse adattabili e una congrua visibilità editoriale, come è appunto il caso di Enrico Pea. Profili la cui
marginalità provinciale ed eccentricità stilistica avrebbero reso in
altre circostanze difficili una pubblicazione, trovano in progetti editoriali come i Quaderni della Voce un «mezzano intellettuale di gloria
e pubblico» (Prezzolini 1905, p. 39). Ma sono detti editori, plasmati sulla forte caratterizzazione data dalle scelte dell’intellettuale e
sulla «specificità e omogeneità delle proposte culturali vissute con
forte senso di identificazione sia dalla proprietà societaria diffusa
sia dal pubblico di riferimento» (Brogioni 2008, pp. 28-29) a ottenere in realtà il maggior profitto. La pubblicazione di queste opere
comporta il consolidarsi dei Quaderni della Voce come unico organo
apportatore di un’alternativa culturale riconoscibile, processo che
non necessita della partecipazione attiva dei loro autori al dibattito
culturale della rivista madre, o, in altri termini, del loro realizzarsi
pubblicamente come intellettuali. Al contrario, il capitale simbolico15 di cui sono portatori si funzionalizza al meglio solo attraverso il
14. A tal proposito cfr. anche Baldini A., Allies and Enemies: Periodicals as Instruments of
Conflict in the Florentine Avant-garde (1903-1915), in «Journal of European Periodical Studies», vol. III, n. 1, 2018, pp. 7-28.
15. Il profitto che l‘impegno editoriale della «Voce» frutta ai suoi promotori è infatti quantificabile unicamente sul piano simbolico, data anche l’assoluta marginalità che l’aspetto
economico ha in una simile operazione. Come ci informa Bourdieu, «la sola accumulazione legittima, per l’autore come per il critico, per il mercante di quadri come per l’editore e
il direttore del teatro, consiste nel farsi un nome, un nome conosciuto e riconosciuto, vero
e proprio capitale di consacrazione che implica il potere di consacrare oggetto (è l’effetto
di marca o di firma) o persone (con la pubblicazione, la mostra ecc.), di dar quindi valore e
di trarre i profitti di tale operazione» (Bourdieu P., Les règles de l’art. Genèse et structure du
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riconoscimento pubblico di una loro rivalutazione in quanto profili
discordi, rifiutati dal vecchio ordine culturale dominante. Solo in
tali termini essi possono infine accedere all’anti-campo emergente.
Campana, Rebora, Sbarbaro, Pea, trovano nel sistema delle riviste
la possibilità di legittimarsi attraverso un processo di intercessione
che tuttavia ne fissa i tratti in una marginalità irredimibile, utile a
un meccanismo di integrazione unilaterale. Lotman:
Le descrizioni metalinguistiche sono un elemento necessario dell’«insieme
intellettuale» […] Il sistema si auto-organizza, orientandosi nel senso
della metadescrizione data, tralasciando tutti gli elementi che dal punto
di vista di una metadescrizione non devono esistere e accentuando ciò
che in questo tipo di descrizione va sottolineato (Lotman 1979, p. 52).
Se consideriamo la strutturazione del campo intellettuale antitetico al campo dominante un sistema culturale coerente, intento ad
auto-descriversi — nonché ad accumulare la credibilità simbolica
atta a imporre tale auto-descrizione — per mezzo di programmi
specifici e canali centralizzati — come è l’avanguardia fiorentina
nel 1914 —, ecco che quanto vi è incluso lo sarà nella misura in
cui è compatibile con i tratti regolativi e dipinto secondo quanto
della «descrizione va sottolineato». Tornando alla lettera di Papini a Pea del 1917, possiamo così apprezzare una testimonianza di
cristallizzazione in atto: la descrizione ungarettiana dell’originalità non accademica di Pea viene adattata a un ordine discorsivo
specifico — «sensitiva robustezza», «linguaggio parlato» antitetico
alla sterilità dei libri stampati e di «letture solitarie» — e resa utile
all’auto-descrizione di campo perseguita dagli editori. Intento che
implica però inevitabilmente una deformazione: nel suo istituirsi il
nuovo polo culturale instaura un rapporto predatorio con la classe autoriale dei silenti marginalizzati, coinvolgendoli nella misura
e nei termini utili al proprio scopo autodescrittivo.
Per quanto concerne Pea, si tratta poi di un processo cui l’autore
concorre indirettamente per via di una stretta reticenza personale,
che ne favorisce un abuso iterato. Se tuttavia, date le circostanze
suddette, una presa di posizione autoriale in tal senso non è incoraggiata, col mutare del contesto essa si rileva ineludibile. Già
champ littéraire, Paris, Seuil, 1992, trad. italiana a cura di E. Bottaro e A. Boschetti, 2005,
da cui citiamo, p. 215). Un processo condiviso da tutte le parti in causa, che implica tuttavia la necessità di un immediato riconoscimento collettivo delle stesse: bisognerà dunque
sempre essere in grado di percepire a colpo d’occhio consacrati – gli scrittori pubblicati - e
consacratori- i Quaderni della Voce, valorizzati – le opere pubblicate - e valorizzatori – gli
editori e critici.
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nel 1919 Pea viene chiamato da Aurelio Emilio Saffi a partecipare attivamente al dibattito intorno all’eredità di Giovanni Pascoli
che anima il primo numero della «Ronda», invito che viene ancora
declinato («voi chiedete l’impossibile a chi non è un letterato ma
solamente un poeta»16). Ma già a partire dal Servitore del Diavolo
(1929), passando poi da veri e propri manifesti di poetica come la
Confessione di Pea17, la Veritella sulla prima edizione di “Fole”18 e gli
articoli e racconti degli anni Trenta e Quaranta da cui siamo partiti,
Pea si impegna in un processo di autodescrizione, tra autobiografismo e interventi critici diretti.
Tuttavia, come notato in apertura, questo è costruito su di un
principio di ambivalenza prossimo alla logica differenziale che già
Ungaretti aveva impiegato per descriverne la pretesa eccezionalità estetica. Nel divincolare la propria immagine dalla stretta avanguardista muove infatti a un bricolage degli elementi discorsivi
spesi intorno la sua opera, di matrice ungarettiana e papiniana, la
cui combinazione comporta il continuo oscillare da una dedizione
malinconico-religiosa alla propria arte — realizzatasi in circostanze avverse, come in Nikokavura e Bancarelle e muriccioli —, a un
motivo utopico ed eversivo — come nel rifiuto delle abitudini di
lettura e scrittura romantiche di Come leggo?— proprio della prospettiva vociana. Si configura così, a partire da un circoscritto gergo
critico, una personale sintagmatica del discorso autoreferenziale. Il
suo riuso creativo garantisce a Pea il passaggio negli anni Trenta da
una condotta passiva nel campo letterario, coadiuvata da mentori e
editori, a una attiva19, nei limiti tuttavia che tale ordine discorsivo
gli consente, che sono quelli dell’izgoj, dell’artista ambivalente, al
tempo stesso estraneo — poiché eversivo e anti-intellettuale — e
interno — poiché originale e disinteressato — al sistema cultura16. Citiamo dalla lettera di risposta di Pea ad Aurelio Emilio Saffi, datata 21 gennaio 1920,
riprodotta e commentata in L. Padalino 2020, pp. 46-50.
17. Pea E., Confessione di Pea, in Id., La Passione di Cristo – L’anello del parente folle, Brescia,
Morcelliana, 1940.
18. Pea E., Veritella alla prima edizione di Fole, in Id., Fole, Garzanti, 1948.
19. Umberto Olobardi ebbe a suo tempo percezione di tale mutamento in Pea e del ruolo
che vi ebbe la «Voce», nel bene e nel male: «troppo libreschi, troppo letterati i vociani
perché si possa far rientrare in quell’ambito il poeta contadino Pea. Quel libero favoleggiare a zone, a impressioni, il frammentismo vociano ha valso tutt’al più a maturarlo. Pea
a contatto dei vociani, affina, quel suo primitivo e un po’ rozzo raccontare: ne ha coscienza
riflessa, non più soltanto istintiva» (Olobardi 1939, p. 193. Il corsivo è mio). Sebbene Olobardi muova qui unicamente dall’opera narrativa di Pea, le conclusioni cui giunge non
possono che trovarci d’accordo. Pea non è mai stato vociano, ma è per tramite della «Voce»
che acquisisce percezione «riflessa» della sua posizione nel campo letterario e di quanto
gli è possibile fare per determinarne le sorti da lì in poi.
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le di pertinenza. Un processo anch’esso biunivoco, che se da una
parte fornisce un insieme di pratiche discorsive tramite cui segnalare l’appartenenza attiva al campo dell’arte coevo — un vero e proprio habitus — dall’altra consacra definitivamente — e per tramite
dell’autore stesso — la sua immagine nei termini del marginalizzato. Questo tentativo «di combinare e ricomporre gli opposti in
un quadro armonico» (Tuccini 2015, p. 488) del Pea intellettuale è
condotto in accordo con il Pea narratore a partire dagli anni Trenta,
dove piano utopico e soggetto malinconico sono protagonisti di un
medesimo tentativo di riequilibrare le sorti dell’estraneo. Questo
veste per tramite di rifrazione narrativa i panni ingrati dell’ebreo
errante (Lisetta), del soldato (Malaria di guerra), del «forestiero»20, cui inferisce l’apparente possibilità, altrimenti negata all’izgoj, di pervenire all’equilibrio per tramite di un ritorno memoriale
alla terra natale, che è poi stadio sociale pregresso in cui trovarsi
congrui alle regole di inclusione di un sistema culturale primigenio, la «cifra edenica dell’infanzia» (Ivi, p. 490). Ma se nel dominio
letterario la modulazione dell’empito utopico in tale ottica — che
da un’istanza di intervento eversivo sul presente si fa flaubertiana
«concupiscenza retrospettiva» — può giungere a un maggior grado di controllo del taedium vitae che lo muove e da cui consegue,
specie se attraverso i pur limitati privilegi dell’auctor modernista
sulla diegesi, nella furiosa stereoscopia messa in atto dalla critica
militante nulla passa inosservato: la produzione del discorso intorno all’«estraneo» è sempre attività partecipata, perché interessata.
Lotman e Uspenskij:
La posizione dell’«estraneo» appare organicamente inserita in
svariate situazioni della vita quotidiana, del culto, della vita statale,
ma nello stesso tempo immancabilmente si può notare un rapporto
ambiguo del collettivo nei suoi confronti. […] Gli individui, che sono
stati respinti al di là del confine della struttura sociale o che per altri
motivi si trovano fuori di essa, sono considerati un’anomalia e nello
stesso tempo una necessità sociale. Rispetto ad essi spesso si osserva
un movimento circolare. Da un lato, nelle diverse tappe del suo
sviluppo, la società per cause diverse pone fuori dai suoi confini un
certo materiale umano. […] D’altra parte, come avviene di solito per gli
elementi extra-sistematici, nei periodi di movimento sociale sono loro
a costituire la riserva strutturale della società (Lotman 1984, p. 171).
20. Si vedano su tale specifico aspetto Tuccini G., Malinconico moderno. Pensiero utopico e
soggetto splenico ne Il forestiero di Enrico Pea, in «Critica Letteraria», CLXXII (2016), pp.
478-495, e Roić S., “Il forestiero” di Enrico Pea ieri e oggi, in Tuccini G. (a cura di), Enrico
Pea. Bibliografia completa e nuovi saggi critici, Pontedera (PI), Bibliografia e Informazione,
2012, pp. 65-73.
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Gli attori più in vista del campo letterario italiano tra gli anni Trenta
e Quaranta tentano in più occasioni di convertire «la riserva strutturale» rappresentata dall’izgoj in capitale simbolico utile alla propria auto-descrizione. Nel corso di tale processo, il discorso intorno
l’opera e il profilo di Enrico Pea attraversa alcune riorganizzazioni
che è ora il caso di affrontare.
3. Evviva Sant’Enrico (se l’Enrico è Pea)
Se in prima istanza l’extrasistematicità di Pea si dava quale forza
eversiva per un’intera classe intellettuale emergente, che ne accentuava tratti quali la formazione autodidatta e il rifiuto della forma-libro, diviene adesso il rivolgimento al pagus memoriale e a una sensibilità mistico-ascetica il dato più marcato dalla critica21. Su questa
linea, constatiamo come già Eugenio Montale, in una recensione
al Volto Santo del 1925, riconosceva a Pea di eccellere «nella rappresentazione plastica di paradisiache visioni cristiane» (Montale
1996, p. 447), mentre Enrico Falqui, più di una decina d’anni più
tardi, ne evidenzia una «riposta antichità» (Falqui 1939, p. 53). Per
Aldo Borlenghi la forza dell’autore sta nell’«aver saputo mantenere
nel fondo questo distacco, nel non aver rinnegato quel canto dell’anima, quella capacità di commozione» (Borlenghi 1943, pp. 20-21),
mentre Umberto Olobardi insiste su mezzi estetici che «man mano
che egli va maturando interiormente, si fanno più semplici, di una
semplicità […] da primitivo» (Olobardi 1939, p. 217). Ancora Eurialo De Michelis, tra i pochi dedito a un’indagine concreta intorno le
fonti letterarie di Pea, insiste col paragonarne lo sguardo a quello
«di un fanciullo dinanzi a cui si svolge la lanterna magica, fra repellente e fascinosa, dei vizi, dei mali degli uomini» (De Michelis
1952, p. 16). Si tratta di un motivo critico condiviso che tesse per
mezzo di Pea quel legame etico tra abbandono dell’empito interventista, eteronomo - tipico del modernismo fiorentino, che vuole
invero «cambiare l’aria morale del paese» e «raggiungere il fine con
tutti i mezzi» (Papini 1906) - e ritorno dell’arte alla sua aristocratica autonomia, a una «castità formale» (Asor Rosa 2013, p. 233)
che contraddistingue la società letteraria italiana dell’entre deux
21. Come accennato, al di là delle predilezioni critiche del periodo, il tema è proprio della
narrativa peana, rintracciabile almeno dagli anni Venti, come ricorda G. Tuccini: «Investita
di un duplice potere maieutico e taumaturgico, la terra s’attesta nell’opera di Pea quale
“matria”, divenendo il più coerente dei suoi motivi fin dagli esordi» (Tuccini 2016, p. 487).
Si veda poi su questo aspetto ancora G. Tuccini, Cleofe e le altre. La donna nei romanzi di
Enrico Pea degli anni Trenta in «Studi e problemi di critica testuale», LXXXVIII (2014), pp.
199-224.
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guerres. Ѐ questa ora l’inferenza positiva che si dà al Pea izgoj irredimibile: «un sentire pieno e al tempo stesso semplice» (Borlenghi
1943, p. 31), che perviene a un’arte pura, all’auscultazione silente
del mondo. Termini propri della sensibilità rondista e poi ermetica,
presso cui alcuni aspetti dello stile peano risultano di fatto adattabili22. Un fenomeno che può leggersi in termini bourdesiani, per
cui questi tratti della figura peana rispondono ai vigenti criteri del
«sottocampo di produzione ristretta», che ne delineano un profilo
d’autore per pochi privilegiati, distante dalle volgarità dei tempi e
dalle compromissioni con il polo opposto del sottocampo, quello
della letteratura aperta ai gusti profani del grande pubblico. Pierre
Bourdieu:
Più l’autonomia è grande, più il rapporto di forze simbolico è favorevole
ai produttori maggiormente indipendenti dalla domanda e più tende
ad approfondirsi il solco tra i due poli del campo, vale a dire tra il
sottocampo della produzione ristretta, dove i produttori hanno quali
clienti solo gli altri produttori, che sono anche i loro diretti concorrenti,
e il sottocampo della grande produzione (Bourdieu 2005, p. 291).
L’agone letterario della prosa d’arte e della lirica pura consolida la
propria autonomia di campo a partire da un ingente investimento
simbolico nell’indipendenza del dato artistico, cui si accompagna,
dalle parole di Carlo Bo, a «un bisogno di ritorno alla piccola patria,
alla terra, alle tradizioni, bisogno che era nato dal disordine, dallo
sfacelo degli anni di guerra» (Tabanelli 2011, p. 23). Sono questi
parametri che pongono Pea al centro di un continuo interessamento critico, che si esprime nella richiesta assidua di contributi per
numerose riviste letterarie. Ancora una volta, tuttavia, si tratta di
collaborazioni di natura antologica, mai di interventi critici diretti:
tendenza ormai corrente23, che rinnova nel caso di Pea le condizioni
22. La fortuna di Pea nel contesto proprio dell’ermetismo è testimoniata da una serie nutrita di scritti, fin dal 1930. Sono sicuramente da segnalare in tal senso l’inclusione dello
scrittore nell’antologia a cura di Augusto Hermet e Nicola Lisi, Scrittori cattolici dei nostri
giorni (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1930) e i numerosi contributi che Carlo Bo
gli dedica a partire dal 1938 (citiamo qui almeno Su Enrico Pea, in: «Il Lavoro», Genova, 5
agosto 1938 e Enrico Pea: un narratore, in L’Italia, 22 giugno 1939). Ulteriori segnalazioni
saranno dispiegate nel proseguo della trattazione.
23. Sulla questione richiamiamo alcune paradigmatiche dichiarazioni di Carlo Bo, relative alla natura strettamente antologico-letteraria di buona parte dei contributi su rivista
negli anni Trenta, con riguardo, ad esempio, all’attività di «Frontespizio»: «C’è quindi una
posizione di ordine morale non soltanto letteraria, benché questi scrittori […] non si impegnavano direttamente, vale a dire non avevano una teoria, non avevano una scuola e
volevano soltanto dire delle cose semplici, raccontare delle storie altrettanto semplici e
umili» (Tabanelli 2011, p. 23).
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del già trattato iato articolatorio — conseguente ora a un mancato o
riconoscibile impegno ideologico e artistico — postosi a fondamento di una posizione neutra, modulabile pertanto all’occorrenza24. In
ogni caso, le richieste saranno molte e prestigiose: Giovan Battista
Angioletti, Giorgio Bassani, Antonio Baldini, Carlo Betocchi, Alessandro Bonsanti, Alfonso Gatto solleciteranno con solerte acribia la
partecipazione di Pea, secondo una logica corporativa non diversa
da quella che animava a suo tempo i Quaderni della Voce, ma priva
di un centro propulsivo così ingombrante. Varie lettere di richiesta
offrono testimonianze pregevoli: al «caro poeta più o meno solitario» (Pea 2004, p. 103) — e certo non romanziere, nonostante Pea
non scrivesse più in versi dal 1914 — si richiedono racconti inediti, che sappiano valorizzare la sua posizione periferica, non interferita; Antonio Baldini richiede manoscritti di Pea in lettura dalla
villeggiatura a Zocca, dato che, isolato «tra i boschi» si trova «nelle
condizioni ideali per leggere del buon Pea» (Ivi, p. 78); Alfonso Gatto insiste per «tre o quattro paginette, proprio su Viareggio, come
la vedi, come l’hai vista e come la ricordi tu» (Ivi, p. 225) con annesso rivolgimento memoriale su soggetto localistico, a suo dire nelle
corde di questo Pea maestro d’aventiniano distacco. Sullo stesso
motivo interviene Giuseppe De Robertis, che alla data del 31 maggio 1941 chiede a Pea un estratto dal suo nuovo libro ancora inedito, Magoometto, che sia come «uno dei tuoi alati ricordi, proprio
portati dall’ala del tuo canto e dalla tua malinconia consolatrice»
(Ivi, p. 150). Motivi questi tanto affini al gusto estetico dell’epoca da
rendere un qualsiasi suo contributo segno privilegiato di un’attività
culturale aggiornata. Ed ecco dunque Arrigo Benedetti invitarlo a
partecipare alla sua Specola per via un criterio «non solo estetico
nella scelta dei collaboratori», ammettendo poi la necessità di acquisire «uno di quei racconti che giovano più alla rivista che li pubblica che all’autore», dato che fin dai primi numeri «sarà necessario
mostrare i nostri gusti» (Ivi, p. 99). Alessandro Bonsanti va ancora
oltre, e, diradando ogni ambiguità circa la scelta da farsi tra mera
ammirazione estetica e investitura simbolica di Pea, lo ringrazia di
24. Ѐ possibile leggere in tale ottica la reticenza con cui Pea tratta la richiesta di contributo
più volte sollecitatagli da Curzio Malaparte per il suo Prospettive. Il timore che una partecipazione diretta alla rivista possa venir intesa come una dichiarazione d’allineamento
politica e culturale è d’altronde rilevata dallo stesso Malaparte come motivo delle titubanze di Pea: «Credi che ti comprometta il collaborare ad una rivista libera, coraggiosa,
spregiudicata, che se ne frega di tante cose? Ti ripeto: la strada per l’Accademia passa per
Prospettive, forse più che per altre zone. A meno che tu non sia già, o sia per essere, accademico» (Pea 2004, p. 248).
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aver inviato «un bellissimo contributo alla fortuna di Letteratura.
Non soltanto perché la prosa è bella, ma anche perché viene da te,
tutti noi l’abbiamo accolta a braccia aperte» (Ivi, p. 105).
Tali tendenze si accompagnano spesso al delinearsi di un’aura
profetica, cui Pea è insignito da numerosi amici scrittori, che sono,
lo ricordiamo, anche i suoi principali lettori25. Ѐ questo del profetismo non certo un tratto nuovo, proveniente dall’antico lessico ungarettiano in riferimento allo scrittore, il cui spettro discorsivo è in
questa fase tra i più evocati. Pea stesso vi contribuisce, complice
la sempre più esposta conversione al cristianesimo di questi anni,
seppur a interessarci è qui l’uso che il pubblico dei lettori-critici
fa di tale connotazione sacrale. I tratti più frequenti nel discorso
intorno a Pea in questa fase — la conoscenza dell’arte narrativa primigenia, il distacco ascetico dal mondo, lo sguardo fermo che mira
oltre la mondanità — sono tutti inscrivibili nella figura del profeta,
dispositivo descrittorio che concentra in se «il vasto campo delle
esperienze umane che si estende dalla magia alla mistica» (Neher
1969, p. 11). Vi si cela dietro non solo la necessità di smorzare l’anomalia culturale avvertita nell’opera e nel percorso formativo dello scrittore, ma anche la marginalizzazione di campo che ne consegue. Per l’appunto, un altro tratto semantico sotteso all’immagine
profetica è l’isolamento dalla comunità cui pertiene: fin da Mosè
che «portò il gregge oltre il deserto e arrivò sul monte di Dio» (Es.
3,1), dove si cela il roveto ardente, il profeta è «un uomo solo […]
una voce solitaria che parla con Dio» (Papini 1921, pp. 45-46), e
«la voce di Dio è talvolta il silenzio» (Neher 1969, p. 9). Questo
è il tramite per cui la marginalizzazione di campo si fa esperienza eremitica che «attraversa l’uomo per darsi agli altri» (Ibidem):
condotta oracolare affine al modello del cantore arcaico, capace di
indicare la pratica smarrita26 dell’esercizio letterario, in costante
25. Gli esempi a tal riguardo sono innumerevoli. Per quanto concerne la corrispondenza
privata, senza citare Ungaretti e restando al periodo compreso tra gli anni Trenta e Cinquanta, si ricorderanno tra gli altri Maria Bellonci, che si chiede in una lettera all’autore
dell’8 ottobre 1941 se «è poi vero che lei sia un buonissimo profeta […] Quasi ho deciso di
non fidarmi», e in un’altra del 15 luglio lo definisce «Sant’Enrico», salvo poi rimproverargli in data 29 dicembre 1942 un atteggiamento forse «troppo sobrio per un semiprofeta»
(Pea 2004, pp. 91,93); Giuseppe De Robertis, per cui Pea è innanzitutto «un mago» in una
lettera del 2 luglio 1937, poi un « vecchio, dico, per santità » alla data del 1947 e infine un
«Caro Patriarca » il 2 luglio del 1948 (Ivi, pp. 147, 163, 165); Enrico Falqui, che riconosce
dietro la maschera una maliziosa e mistificatoria intenzione autoriale, che rimprovera a
Pea in una lettera del 16 agosto 1942: «Carissimo Pea […] vorresti apparir santo fin dalla
prim’ora» (Pea 2004, p. 188).
26. Muovo qui a partire dalle deduzioni di André Neher, per cui la facoltà di vedere del
profeta, infatti, «non è necessariamente legata all’avvenire; ha il suo valore proprio, istan-
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ascolto delle sue origini musive. Ma, si badi, ciò resta un espediente
retorico27, mero camuffamento: l’ambiguità dell’izgoj, riconosciuta
insolvibile dagli strumenti descrittivi del sistema culturale, viene
qui celata per tramite di un processo di familiarizzazione lessicale,
nel tentativo di stemperarne tensioni eversive e stranianti.
Medesimo tentativo di appropriazione può leggersi nell’impegno
atto a promuovere Pea presso un bacino ampio di pubblico, sebbene il suo posizionamento extrasistematico e la ricezione ristretta
entrarono presto in contrasto con candidature a riconoscimenti ufficiali. Assistiamo così a un atteggiamento bipolare, per cui l’autore
è al tempo promosso a maggiore visibilità e protetto da una fruizione su larga scala che si vuole volgare e incapace d’intenderne il
segreto valore28. Al di là di circostanziate testimonianze dal nutrito
epistolario — tra cui un Giorgio Zampa intento a parlare dei libri di
Pea come «molto – troppo - cari per mandarli allo sbaraglio nelle
mani di sconosciuti» (Pea 2004, p. 348) — è nella documentazione
relativa alle candidature di Pea ai maggiori concorsi letterari dell’epoca che emerge con forza questa tendenza. In tali occasioni critici
amici si prodigano nel creare le condizioni favorevoli alla vittoria
di Pea, spesso mancata a vantaggio di autori più noti o più apprezzati dal pubblico di massa e dal regime fascista29. Ed ecco dunque
taneo […] in essa, visione e parola sono alla ricerca di una scoperta. Ma ciò che esse svelano non è l’avvenire, è l’assoluto. La profezia risponde alla nostalgia di una conoscenza»
(Neher 1955, traduzione italiana a cura di Elio Piattelli, 1999, da cui citiamo, p. 9). Sorprendente l’affinità di questa descrizione con quella messo a punto da Giovanni Papini
nella sua Storia di Cristo, testo di grande rilevanza per la generazione di scrittori e critici
impostasi a partire dagli anni Trenta. Il profeta è delineato qui infatti come «colui che
riconduce gl’idolatri al vero Iddio, rammemora ai corrotti la purezza […] un messaggero
mandato da Dio ad avvisare chi ha smarrito la strada, chi s’è scordato dell’alleanza, chi non
fa buona guardia» (Papini 1921, pp. 45, 46).
27. Esito inevitabile, se già Lotman e Uspenskij segnalavano come nella figura stessa del
profeta permanga irrisolto il dualismo dell’izgoj: «Nostri, cioè appartenenti alla comunità,
e nello stesso tempo estranei sono anche gli stregoni, gli sciamani, i profeti, che appartengono al nostro mondo e anche ad un mondo estraneo. Nel primo caso l’«estraneo» è
oggetto di ostilità o di difesa, nel secondo di paura e di rispetto» (Lotman 1984, p. 165).
28. Una tendenza a tale ricezione controllata di pubblico è d’altronde auspicata per Pea
già da Giuseppe Ungaretti, che infatti mal tollera la sua attività teatrale, incomprensione
rievocata in più occasioni dallo scrittore, ad esempio in Vita in Egitto: «A Ungaretti doveva
dar noia proprio il teatro come tale: dialogo e cozzo di passioni. Un’arte che si complica in
armonia con altre arti: poesia schiava e impura. Quel dovere affidare le parole per farle vivere a persone che le rendono approssimative sempre […] le accompagnano con gesti resi
abituali, generici, anche questi dal mestieraccio istrione (Pea E., Vita in Egitto, prefazione
di Sergio Solmi, Milano, Mondadori, 1949, p. 2).
29. Nel 1932 Il servitore del diavolo, candidato al Premio Viareggio, si ferma infatti al secondo posto, preceduto da Le avventure di Villon di Antonio Foschini. Sorte in parte simile
per La maremmana, vittorioso nel 1938 ma solo ex-aequo con Oceano di Vittorio Giovanni
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Giuseppe De Robertis, in una lettera del 28 marzo 1940, tacciare
l’Accademia d’Italia, rea di avere escluso Pea dai papabili al premio,
quale avvilita istituzione «incatenata dai fessi con le solite eccezioni che non possono nulla» (Pea 2004, p. 148), o Giovanni Battista
Angioletti dimettersi dalla commissione del Premio Viareggio 1949
a seguito della mancata premiazione del nostro, giuria presso cui
non «predominano il buon senso e i diritti della letteratura» (Ivi,
p. 67). Simili interventi lamentano, più che le mancate vittorie di
Pea, un generale strabismo delle giurie e delle commissioni, interferite da interessi esterni al campo letterario30. Ѐ in tale prospettiva che la critica comincia a modulare il profilo di Pea nei termini
dell’incompreso cronico, vittima di un sistema valutativo ingiusto.
Ne risultano alcune esplicitazioni sorprendenti, come la nota osservazione che Eugenio Montale affida alle pagine del Corriere della
Sera — non certo una rivista di settore — relativamente all’annosa
marginalità cui è costretto Pea a sette anni dalla morte:
Sorto da una regione, Pea non è più, da anni, uno scrittore regionale. Gli
manca per conseguire successi di cassetta, vistosi premi e applausi di
borghesi, una dose di rancido sentimentalismo, una porzione di cavilli
psicologici e di cattiva letteratura; gli manca la capacità di rimasticare
l’altrui poesia e di presentarla come propria (Montale 1965, p. 11).
In queste righe si concentrano tutti i temi propri della questione e l’idea corporativa di letteratura che li anima. L’insuccesso di
Pea è presentato quale conseguenza di una valutazione per criteri
mondani, che premia il compromesso col gusto volgare del pubblico piccolo-borghese. Questo è il criterio, a dire di Montale, che regola i suoi dispositivi di riconoscimento, i premi da cui conseguono
i «successi di cassetta». Attraverso il caso Pea, dunque, si denuncia
un’irruzione dannosa di interessi eteronomi nel campo letterario.
La restaurazione della sua autonomia passa per l’individuazione
e il rafforzamento di valori interni al sistema, che vanno posti in
condizione di servire da metro di giudizio e selezione delle opere rappresentative. Un’autarchia valutativa che si realizza già nella
nota montaliana, proponendo un Pea da tempo emancipatosi dalla
dimensione provinciale, nello strabismo e nell’indifferenza generali
di questa critica spuria, ma non certo dei suoi lettori più accorti, che
Rossi (cfr. Marsili M., Vittorie e delusioni: Pea e i premi letterari, in Pea 2004, pp 19-25).
30. Emblematico tra tutti il giudizio di Giovanni Battista Angioletti, che, riguardo la sua
mancata partecipazione in veste di giudice di commissione al Premio Viareggio 1949, scrive sollevato a Pea, in una lettera dell’11 agosto 1949, di non essere così obbligato a «prestarsi quest’anno a qualche giuoco elettorale poco simpatico» (Pea 2004, p. 66).
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sono poi quelli che si riconoscono nell’ordine di valori sopra individuato.
Di Pea oracolo dell’autonomia di campo, tuttavia, viene ancora
sottolineata la naïveté, l’iterata originalità della voce, l’incapacità
di riflettere una qualsiasi ascendenza letteraria. Il processo autodescrittivo è ancora incapace di superare l’immagine di Pea come
izgoj, di integrarne le asprezze attraverso un’analisi non deduttiva,
che sappia dialogare con quanto di eterogeneo si concreta nella sua
opera31. Anzi, il suo capitale simbolico è ancora utile alle dinamiche
corporative e solo nella misura in cui permane immutata la sua condizione di extrasistematicità e annoso isolamento: da campione di
una letteratura ascetica a martire del processo di autonomizzazione contro le ingerenze del gusto di massa.
Ma non è tutto qui: anche quest’ultimo sviluppo vede infatti nell’intervento autoriale un supporto di rilievo. Gli ultimissimi
scritti di Pea riguardo il proprio statuto intellettuale concorsero
infatti al delineamento dei suoi successivi sviluppi nei termini del
martire, ben riassunti dalle affermazioni montaliane. L’anello di
congiunzione è individuabile nel motivo espiatorio, che Lotman e
Uspenskij individuano come conseguente all’apprendere il «punto
di vista esterno su se stessi», la percezione di essere «estranei», da
cui deriva «il complesso di colpa sociale […] e la necessità morale di
superare l’izgojnicestvo e fondersi con la struttura sociale dominante» (Lotman 1984, p. 167). Un aspetto, questo, che si dà in Pea nella
31. «Il fatto di considerare ciò che è estraneo dotato di valore», ci informano d’altronde
Lotman e Uspenskij, «non elimina la sfiducia psicologica suscitata dal senso sempre rinnovato della sua estraneità». A darcene prova è proprio lo stesso Eugenio Montale che,
nella giuria del Premio Firenze 1948, non si impone certo a favore del tanto bistrattato Enrico Pea, preferendovi Il cielo è rosso di Giuseppe Berto, opera raccomandata dall’editore
Longanesi, poi vincitore. A dar fiducia ai ricordi in merito dello stesso Giuseppe Berto, la
vicenda avrebbe risvolti ancor più emblematici, che si riassumono nella «confidenza fatta
dal poeta Montale al giovane romanziere che lui non aveva letto il libro, e tuttavia aveva
egualmente votato a favore perché Longanesi gli aveva raccomandato di farlo. Il Nostro,
che finallora s’era tenuto lontano dagli ambienti letterari, arrivò dunque a conoscerne, in
una volta sola, il lato migliore e quello peggiore» (Berto G., L’inconsapevole approccio, in
Le opere di Dio, Milano, Nuova Accademia Editrice, 1965, p. 61). Insomma, in circostanze
dominate da logiche corporative tutte interne al campo letterario (gli altri membri della
giuria di quell’anno sono Pietro Pancrazi, Aldo Palazzeschi, Attilio Momigliano e Silvio
Benco) e prive di esposte ragioni eteronome (il romanzo di Berto venne premiato a seguito di numerose recensioni positive da parte di critici prossimi allo stesso Pea, tra cui non
manca Pietro Pancrazi), il capitale culturale di Pea non è bastevole a una sua conversione
in riconoscimento complessivo e ufficiale del campo letterario, specie in un contesto ormai dirottato verso il neorealismo emergente del secondo dopoguerra, le cui quote cominciano in questa fase a salire, a scapito dei titoli che fino a ieri erano considerati vincenti (in
particolare i concetti di arte pura e prosa lirica).
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presa di coscienza di un impossibile superamento dei tratti che, per
più di trent’anni, hanno uniformato la sua identità artistica alla condizione di escluso32. Tra le cause da lui individuate, è il motivo della
formazione autodidatta a porsi ancora con la maggiore evidenza. In
un elzeviro datato 1952, apparso sul «Corriere di Informazione»,
Pea affronta dunque quanto gli si configura come peccato originale
di una vita consacrata alle lettere. A dare l’occasione è il Pinocchio
di Collodi:
A Pinocchio, io, sono arrivato troppo tardi. Non ho avuto un’infanzia ordinata
di figliolo borghese […] Non ho mai scoperto svegliandomi la mattina del 6
gennaio, appesi al capo del letto, i giocattoli della Befana. In mezzo ai quali,
via via il ragazzo vien su con l’età, i genitori insinuano mascherata di bei
colori la scienza, nei libri, per l’occasione ben rilegati (Pea 1997, p. 263).
L’empito eversivo nei confronti dell’ortodossia letteraria, uno dei
due poli che animavano scritti come Bancarelle e muriccioli e Come
leggo io? tramonta infine a tutto vantaggio dell’altro, un gravoso
rammarico retroattivo. Il dato letterario tradizionale, i «libri belli»
altrove soggetti a furia iconoclasta, rappresenta qui un’ambizione
negata cui è riconosciuto un valore insostituibile. Ciò è rilevabile
anche sul piano argomentativo: occorrenza rara nella sua scrittura,
Pea si affida nel proseguo dell’elzeviro a un esposto espediente retorico, la tessitura di un parallelismo diretto tra la sua figura d’autore e il burattino di Collodi per mezzo di alcune raffinate analogie:
come Pinocchio dapprima «fuggiasco e ribelle» ora infante pentito,
che nei libri vede «un tesoro adesso alla portata di qualsiasi tasca
operaia» (Pea 1997, p. 265). Ancora:
Soggetto alla sorte di chi acquista da sé l’a, b, c, che fa poi confusione e
si sconcerta. Maledice il proprio destino, per dover stare avventurato al
“circa” del sapere. Spesso al “troppo” per lui, mettendo “il carro avanti
32. Come sempre in Pea, l’impegno narrativo offre svariate modulazioni del tema, specie
nella produzione degli anni Trenta e Quaranta. Cfr. su questo Fratnik M., Enrico Pea et
l’écriture du moi (Firenze, Olschki, 1997), con particolare riguardo al capitolo terzo della
quarta sezione, La mort du père comme métaphore: marginalité et crise d’identité, pp. 301326. Fratnik mette bene a fuoco come il motivo traluca in romanzi come Il forestiero e
Malaria di guerra: uno statuto di marginalità ed esclusione che non trova requie di sorta,
«une métaphore qui évoque bel et bien la condition d’un étranger en terre d’asile – d’un
éternel étranger» (Fratnik 1997, p. 308). Non esiste ritorno o tregua dal vagabondaggio
per l’izgoj, che si fa così topos modernista, preda di quanto Pessoa chiama «un’inutile nostalgia». Tuttavia, sebbene Fratnik individui l’aporia in cui cade la critica del periodo, che
ne fa invece scrittore dell’«édifiante réinsertion social du héros» (Ivi, p. 307), non riconosce in questo movimento dialettico tra testo e contesto, tra opera, autore e critica una delle
cause fondanti il motivo dell’escluso.
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ai bovi”. E ti umili […] Perché, quel che avevo imparato con l’affanno
del compitare senza graduare le forze, mi accorgevo non era vita. Tutto
al più si trattava di favola: albagia e sogno facilone (Ivi, pp. 264-265).
La formazione autodidatta comporta infine genericità d’approccio e paronimia intellettuale, che determinano ab origine la sorte
avversa dello scrittore. Ne conseguono la destituzione di ogni libero arbitrio e l’esilio forzato in un «sogno facilone» in cui «la fantasia giocava d’inganno con la mia credulità». Ma il guasto maggiore
che ne deriva, per l’anziano Pea, è l’estremismo dell’azione, che si
abbandona a «eroismi male inventati o ridicoli, ma pur sempre delitti, miracolismi e sangue. Non la vita, che ti conforta e ti avezza,
con quel bene e quel male che ha» (Ivi, p. 265). Ѐ insomma il polo
avanguardista a venir qui destituito: un eccesso che impedisce di
rintracciare quella compresenza di opposti che Pea pone da decenni a fondamento della propria immagine autoriale. Siamo molto distanti dalla visione papiniana di Chiudiamo le scuole! e della Coltura
italiana: gli stessi tratti posti lì a monte di un intervento positivo
sulla società circostante sono qui causa prima di una condizione di
izgoj sub specie aeternitatis. Il tentativo di espiare il proprio status
degradato si riduce dunque alla mera soppressione dei suoi lineamenti eversivi e una rivalutazione delle pratiche tradizionali, alienategli da un destino avverso. Ciò comporta, al contempo, la chiusa
estrema di ogni ostilità verso l’ortodossia corporativa della società
letteraria. Le norme formali e i rituali di iniziazione su cui è fondata,
seppur in absentia, sono restaurate da Pea stesso. La sua critica si
ritrova così sollevata da ogni responsabilità relativa all’incomprensione dell’autore, e ha mano libera nel modularne con agio le cause,
rintracciate infine nell’ingerenza di interessi esterni, volgari e privi
di gusto, nel circolo sacro della letteratura.33
33. A testimonianza di ciò la vasta quantità di contributi dedicati all’ingiusta incomprensione dell’autore, che superano di gran lunga il numero di studi effettivamente dedicati
all’analisi e all’approfondimento della sua opera almeno fino agli anni Ottanta del secolo
scorso. Di seguito solo alcuni esempi: Rèpaci L., Taccuino segreto. Pea torna tra la gente
[…]. Fu l’opposto di Viani. Era povero senza lagne e senza invidie. Non riuscii a fargli vincere
il “Viareggio”, in «Il Telegrafo», Livorno, 18 agosto 1962, p. 3; Betocchi C., L’ingiusto silenzio
su Pea, in «La Fiera Letteraria», Roma, 21 novembre 1965; Listri P. F., Pea scrittore popolare che non ebbe popolarità, in «La Nazione», Firenze, 11 agosto 1978; Bo C., Quella dubbia
amnesia. Gli anniversari di Massimo Bontempelli e di Enrico Pea sono passati sotto silenzio.
E non è solo questione di moda, in «L’europeo», settimanale, n. 28, 1978, pp. 65-66; Cancogni M. , Cent’anni fa nasceva Enrico Pea, Un silenzio ingiustificato, in «Il Giornale Nuovo»,
Milano, 21 agosto 1981, p. 3; negli anni Novanta ancora Carlo Bo, con Ritorna un grande
dimenticato, in «Gente», settimanale illustrato, n. 44, 6 novembre 1995.
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4. Conclusioni e proposte
Ѐ possibile, a questo punto, muovere ad alcune considerazioni
conclusive. La ricezione di Enrico Pea nei termini di «scrittore d’eccezione» — etichetta presso cui è possibile individuare tutta una
serie di tratti inferiti, tra cui la formazione autodidatta e il rapporto
tormentato con la tradizione — è il risultato di un processo di ordinamento discorsivo decennale, che attraversa più fasi della storia della critica letteraria italiana dal 1914 al 1958, per perpetrarsi
poi dopo la sua scomparsa. Esso risulta, a ben vedere, dispositivo
critico posto in essere ai fini di tradurre la sostanziale reticenza
e ambiguità della sua scrittura e del suo profilo autoriale presso i
meccanismi di nominazione descrittiva del campo letterario coevo.
Ne deriva una possibilità limitata di parlare la figura intellettuale
di Pea — limite a cui non è immune l’autore stesso — al di là dei
termini di una presunta marginalizzazione e di un caso letterario
d’eccezione, che ne hanno determinato la traiettoria critica. L’utilità che il campo letterario, nel suo processo di autonomizzazione
e consolidamento dagli altri campi sociali, ha ricavato dalla fissazione dei tratti peani nell’immagine dell’izgoj, ne ha poi garantito il
consolidamento. La critica all’opera di Enrico Pea ha oggi il dovere
di superare tale ordine discorsivo, pena il continuo iterarsi del meccanismo di marginalizzazione e reductio a mirabilia inscritto, come
visto, nel suo stesso codice significante.
Il caso qui esaminato può inoltre servire da spunto per considerazioni metodologiche di ordine generale. Le condizioni di costruzione dell’ordine discorsivo intorno a un’opera determinano infatti
i suoi margini di praticabilità: le dichiarazioni d’autore e il linguaggio critico frequentato per interpretarle andranno dunque esaminate nel loro uso, in relazione al contesto culturale cui afferiscono. Si tratterà di muovere a una thick description, una descrizione
«densa», che prenda in considerazione la traiettoria complessiva di
un autore nel campo letterario di riferimento come un oggetto di
studio organico, costruito su di una stratificazione di testi e contesti
il cui dialogo costante determina l’insieme dei suoi significati socio-culturali. A tale scopo è sempre più necessario l’uso integrato di
strumenti — come qui sono stati la teoria dei campi di Pierre Bourdieu e la semiotica della cultura di Jurij Lotman e Boris Uspenskij
— che possano aiutarci a lanciare uno sguardo eteronomo e complessivo sull’insieme dei fenomeni interni al campo letterario. Ciò
garantirebbe la possibilità di meglio auscultare il continuo movimento oscillatorio tra «centro» e «periferia» di alcuni profili minori
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– si pensi, oltre a Enrico Pea, al caso di Lorenzo Viani o di Eugenio
Corti - che ne determina non solo la fortuna critica o di pubblico, ma
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